«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL SOGNO DEL VILLAGGIO DEI DING
Yan Lianke
Traduzione di L. Regola
Nottetempo, 2011
Inizio dalla fine, senza girarci intorno: “Il sogno del Villaggio dei Ding” di Yan Lianke è un CAPOLAVORO.
Totale, assoluto, abbagliante, da togliere il fiato, una tromba d’aria che ti risucchia tutti i pensieri e nudo ti getta nell’oceano delle parole e delle immagini e dei suoni e degli odori e delle storie del Villaggio dei Ding, e in quel mare ti perdi.
Se vi sembra eccessiva l’enfasi, se alzate il sopracciglio sospettosi al sentirmi dire “capolavoro”, parola abusata, vi comprendo e mi scuso per scrivere queste mie impressioni di getto, senza filtrare l’emozione, travolto dalla bellezza cristallina purissima di questo libro e stordito dallo sgorgare di sensazioni che sono esplose dopo averlo chiuso.
Però lo dico di nuovo: CAPOLAVORO, lo stesso termine che si usa per capolavori della letteratura come “I Miserabili” di Hugo, “Le anime morte” di Gogol, “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij, “Viaggio al termine della notte” di Céline, quei giganti per i quali non esistono graduatorie, non ha senso azzardare aggiunte o sottrazioni, è da persone sciocche voler guardare anche solo alla pari. Si deve respirarli, più forte che si può, riempirsi i polmoni del loro incanto.
E così è Yan Lianke, a mio giudizio, con la sua Cina del Villaggio dei Ding, seduto insieme ai grandi russi e ai grandi francesi, ai maestri del raccontare, vola sulle parole leggero come un sospiro, colora il paesaggio di fuoco, di notte, di verde, di giallo, di polvere, si immerge nel buio della vita di un villaggio e del mondo, anima i personaggi e gli alberi, i prati, quel vecchio catenaccio che penzola, lo si sente sbattere, le aule della scuola, l’odio, l’amore, la malattia, la vita, il nonno, lo zio e Lingling, il sole dolce del mattino e il sole rovente che entra per torturare gli uomini esausti, il sangue venduto al mercato, le foglie caduche d’autunno.
“Il sogno del Villaggio dei Ding” è un capolavoro perché non è un solo libro, ma molti insieme.
C’è la storia, incredibile per quanto fantastica, narrata da un bambino, che è morto ma è vivo, e parla dei vivi del Villaggio dei Ding, che però sono come morti, e alla fine invoca il nonno, “Salvami, nonno… Salvami!”
C’è la storia della Cina rurale che muore nell’ombra della crescita selvaggia delle città, con le sue miserie, le superstizioni ignoranti, le tradizioni antiche, le cattiverie di poveri che divorano poveri, vite che si intrecciano nello spazio soffocante di un villaggio.
C’è la storia di un’epidemia, ignorata e tenuta nascosta, censurata come lo è stato Yan Lianke. Dicono sia febbre, ma è AIDS, e gli uomini muoiono, come cani, come gatti, come topi, per aver sognato di diventar ricchi come i cittadini.
C’è, sotto tutto, come in ogni grande storia, la vita degli uomini e del mondo, del male, del bene, del buio, della luce, delle passioni, delle crudeltà, dell’odio, dell’amore, dove tutto si allarga e si contrae, come un respiro, come le stagioni, come la piana del villaggio, riarsa, rigogliosa, piena di vita, piena di morte.
Infine, quando la storia termina, Yan Lianke parla. Poche pagine di diario intimo nelle quali appare in scena l’autore, che non ringrazia, ma piange, esausto, solo, disperato.
Chiedo a ogni lettore di perdonare il dolore che questo libro gli procurerà
Io l’ho certamente perdonato e stringo forte questo libro.
Sono a metà sogno, dolente e affascinata
È passato molto tempo ma ancora ricordo quella sensazione.
l’ho appena comprato…