«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
MORTI FAVOLOSE DEGLI ANTICHI
Dino Baldi
Quodlibet – Compagnia Extra
Non per niente il libro d’esordio “Morti favolose degli antichi” di Dino Baldi esce per i tipi di Quodlibet nella collana Compagnia Extra, l’incarnazione editoriale della geniale ironia emiliana, pungente e ruspante, di Ermanno Cavazzoni e del suo sodale Daniele Benati.
Insomma, tutto torna e in questo caso torna benissimo.
Detto in breve, il libro parla delle favolose, pirotecniche, strabilianti, incredibilmente vere o straordinariamente false morti degli antichi, che a quei tempi morire era una cosa da fare con stile, anzi, in modo trionfale, spettacolare, che morire in modo banale, invece, era pure disdicevole.
Sono moltissime le morti di cui si parla. C’è quella di Virgilio, di Ovidio, di Socrate, ci sono quelle di Ulisse, perché Ulisse, in realtà, è morto in molti modi diversi, e anche quella di Archimede e di Antonio e Cleopatra. Ma tante sono di gente meno famosa, ma che sono riusciti a morire in modi che dire che è stata la loro opera d’arte non è esagerato. C’è quella di Ermotimo di Clazomene, di Cleomede di Astipalea, di Peregrino Proteo, di Marco Ofilio Ilaro e tanti altri. C’è anche quell’ultradepravato dell’imperatore Eliogabalo, che amava travestirsi da donna e praticare il meretricio offrendosi nei bordelli di Roma. Morì per mano dei pretoriani che lo stanarono nascosto in una latrina, cercarono di infilarlo dentro la fogna, senza riuscirci, allora gli tagliarono la testa, lo trascinarono nudo per le strade di Roma e infine lo gettarono nel Tevere. Tanto per dire che all’epoca non si facevano mancare niente.
Insomma, una carrellata, anzi, una galoppata esilarante e incredibile, pulp tarantiniano, forse si potrebbe azzardare, ma fatto andando a ripescare vecchie vecchissime cronache anziché B-movie.
Ognuno sceglierà il suo favorito. Io ho una smisurata ammirazione per Diogene il Cinico, colui che spernacchiò quel borioso di Platone sventolandogli davanti un pollo spennato e che, si ricorda, una volta, invitato a non sputare in terra dal ricco padrone di una villa sontuosa, gli sputò in faccia dicendogli di non avere trovato un posto più adatto. Oppure, avendo in grande antipatia quelli che si perdevano in discussioni inutili, quando incontrava chi disputava sulla non esistenza del movimento, lui, il grande Diogene il Cinico, si metteva a camminare avanti e indietro, o anche, a quelli che discettavano di concetti astronomici chiedeva: “Ricordamelo un po’, da quant’è che sei tornato dal cielo?”
Morì non si sa come, avvolgendosi nel mantello da cinico, e i suoi concittadini eressero un monumento a eterna memoria della sua ineguagliabile grandezza.
L’epigrafe più bella rimane però quella di Timone il Misantropo che recita: “Qui, strappato il legame con una vita disgraziata, io giaccio; ma il nome non ve lo dico. Auguro a voi, pessimi, di incontrare pessima morte.”
Fantastico.