«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
VENIVAMO TUTTE PER MARE
Julie Otsuka
Traduzione di Silvia Pareschi
Bollati Boringhieri 2012
Questo libro, “Venivamo tutte per mare” ha avuto un discreto o buon successo.
Del tutto immeritato, a mio parere, trattandosi di un pessimo libro sotto tutti i punti di vista. Un’americanata da quattro soldi, per dirla in altro modo.
In breve riassumo i molti punti di vista, lasciandone fuori uno, che è il reale oggetto del commento.
Parla delle giapponesi emigrate in California nei primi decenni del ‘900. Dice fossero chiamate “le spose in fotografia”, che è faccenda comunissima in un mondo di migranti poveri e non solo; ci si sposa senza conoscersi, il tutto combinato dalle famiglie per lo più. Accade anche oggi, molto più di quello che di solito si immagina. Accade anche tra occidentali, anche se in forme riviste e ammodernate. Insomma, la solita storia.
Quindi? Eh, quindi, Julie Otsuka ricama e arzigogola sulle vicende di queste sposine imbarcate su cargo da trasporto animali e spedite in California tra le braccia dei loro mariti per corrispondenza, presunti aitanti giapponesini e invece poveracci che vivevano in condizioni di schiavitù lavorando nei campi o alla costruzione della ferrovia, dormendo nei pollai o nei fossi e che tutto erano tranne baldi giovani ripuliti e aitanti, come si può immaginare.
Ma anche le dolci sposine, spesso, tutto erano tranne che pulzelle verginali, quali erano state spacciate ai disgraziati in cerca di moglie.
Ma la vita, si sa, continua e l’uomo è bestia che si adatta. Quindi, nonostante tutto, la comunità giapponese d’America se la cava, si sistema un poco, i figli si americanizzano, un qualche benessere fa capolino, finché arriva Pearl Harbour a spazzare via tutto. Nascono i campi di concentramento (o qualcosa di simile) e le dolci cittadine californiane vedono sparire quelle tranquille e quasi invisibili presenze. Delle quali, come ovvio, nessuno si curava fintanto che c’erano, poi tutti si lagnano e se ne dispiacciono quando spariscono.
Bene. Questo è quanto ed è un pastone di luoghi comuni e sentimenti un tanto al chilo, incartati e infiocchettati con gli stereotipi delle povere donne angariate e dei poveri migranti schiavizzati.
Tutto molto di plastica. Poca merda e poco lercio. Quindi poco credibile.
Il punto sul quale mi voglio accanire è però un altro, che ho lasciato da parte: la forma letteraria scelta da questa Julie Otsuka.
Proprio oggi per radio ho sentito questo commento: “Ha scritto un libro che non è un saggio e non è un romanzo, ma è entrambi. Un’operazione affascinante!”.
Ecco, detto in modo semplice, affascinante un par de’ palle!
Mescolare saggio a romanzo è una porcheria indecorosa, a meno di non essere degli scrittori di livello stellare.
Il motivo è semplice, lo si fa per convenienza, per mascherare la pochezza della propria ispirazione e per far fessi i lettori.
Un romanzo racconta una storia.
Un saggio racconta la Storia.
E le due cose insieme non ci stanno.
Se le metti insieme (e non sei uno scrittore stellare), quello che fai, di solito, è raccattare un mucchietto di materiale storico, di ordini di grandezza insufficiente per costruirci un saggio, da quel materiale storico sfiletti qualche storiella che usi come prototipo, ci ricami sopra delle vicende, ti inventi dei nomi, qualche personaggio abbozzato, frulli tutto e voilà! Ecco fatto il romanzo-saggio, che supplisce alla drammatica anoressia creativa della narrazione con un alito di storia e di denuncia e di sentite-qua-cosa-succedeva, povere-donne-umiliate, maledetti-yankee e altre noie.
Pessimo e strapessimo.
Wow, un follower; che emozione :D
(una parola onomatopeica ed una da social network addicted; non male per chi si diletta a recensire recensioni letterarie…..)
Totale approvazione circa il “Mai fidarsi delle recensioni”.
Davvero inconsueta e scioccante la recensione.
Inconsueta perché si distacca con forza dallo stile pacato solitamente caro all’Autore; scioccante perché’ disvela un tratto del carattere (dell’Autore, non del testo) scarsamente attraente.
Possibile che su questo testo che forse non ha nulla di pregevole ma neppure la presunzione di vendersi diverso da come e’, ne’ alta letteratura ne’ saggio politico, possa venire impunemente attaccato con una veemenza ed un lessico che con la letteratura e la cultura non hanno nulla a che fare?
Mi riferisco a quel paragrafo indelicato ed indegno sia dell’Autore che recensisce, sia di “questa” Julie Otsuka (pronome usato con intento dispregiativo) in cui non si contano i riferimenti a parte anatomiche, deiezioni, associazioni poco eleganti. Delle riflessioni che propongo, la principale e’ che l’Autore sembra essersi dedicato con accanimento sulla popolarità raggiunta da “Venivamo tutte per mare” e su altrui recensioni, piuttosto che sul contenuto e lo stile del libro.
Il testo, che non ho ancora letto e che narra di emigrazione maschile ma anche di donne inviate in terre ed in case da abitare con uomini sconosciuti, esplode con l’episodio di Pearl Harbour e le sue conseguenze sulle comunità giapponesi insediatesi nella costa occidentale.
Il romanzo -so che l’Autore non condivide ma non saprei come altro definirlo- di Julie Orsuka penso possa rappresentare un elemento di riflessione su ciò che ha comportato la guerra per i singoli individui di entrambi i popoli coinvolti, attraverso la lettura delle vicende e del vissuto quotidiano. Per me e’ stata impagabile la lettura de “Il rogo di Berlino” di Helga Schneider perché’ mostra un lato che e’ si puo’ immaginare ma non penetrare se non attraverso lo scritto di altri, che si tratti di memoriali o anche rielaborazione di analisi e fatti storici.
Ecco, questo e’ il motivo per cui acquisterò e leggero’ “Buddah in the Attic”, certa dell’approvazione dell’autore della recensione che chiosa, in un’altra pagina del suo blog, “Mai fidarsi delle recensioni”.
Pertanto auguro buona lettura a chi vorrà, a cominciare da me :D
Stellasempredifretta