«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LETTERA AL PADRE
Franz Kafka
Traduzione di C. Groff
Feltrinelli 2011
Come si fa a commentare una lettera scritta da un figlio trentaseienne al proprio padre, quasi a voler tirare le somme di ciò che è stato di quel rapporto, non richiesto ma necessario?
E se a scriverla è Franz Kafka, l’immenso Franz Kafka, con quella sua prosa chirurgica, fatta di tasselli che si compongono e si allungano con una meticolosità quasi morbosa, come si fa a commentarla?
Bè, intanto, io credo, lo si fa con un certo pudore, quasi vergogna, e scusandosi.
Scusandosi, certo, anche chi la pubblica dovrebbe farlo, di premettere delle scuse, intendo, perché si sta sbirciando nella corrispondenza privata dell’autore, destinata a rimanere tale, nelle sue intenzioni.
Kafka affidò la lettera alla madre perché la recapitasse. Non lo fece. E finì poi nelle carte ritrovate e pubblicate postume.
Come per i suoi romanzi, affidati a Max Brod perché li bruciasse e da questi invece pubblicati.
Certo, noi ringraziamo, ma rimane il fatto che, a leggere questa lettera, un po’ dei guardoni lo si diventa.
Kafka scrive una lunga, lucida, amara disamina di cosa ha prodotto l’educazione impostagli dal padre e la figura stessa, ingombrante e sprezzante, del genitore. Così diverso da lui, fragile, insicuro, bisognoso di sostegno, assetato di considerazione, adorante anche per quel padre totalitario, e invece svilito e schiacciato.
Descrive minuziosamente gli effetti devastanti che le sicurezze di quel padre via via producevano sul ragazzino, l’adolescente, il giovane e l’uomo.
È un continuo specchiare la propria figura in quella del genitore e testimoniare come ne sia stato stritolato, ridotto a pezzi e piegato.
In tutto, anche nella scrittura e questo è uno dei passaggi notevolissimi di questo testo.
Il contrasto tra lo scrittore che siede nell’empireo degli eterni e quell’eterno bambino che ormai uomo maturo e a pochi anni dalla morte confessa la propria miseria al proprio padre e lo scempio che egli ha compiuto sui propri figli è stridente e miserabile per il bisogno, confessato e inesaudito, di comprensione e considerazione, di un figlio debole nei confronti del padre.
Noi forse non avremmo avuto Kafka, ma lui probabilmente lo avrebbe preferito.
Quindi che cosa commenti? “Per fortuna che ha avuto quel padre”?
Non so.
Niente.
Basta così.