«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LA MISTERIOSA STORIA DEL PAPIRO DI ARTEMIDORO
Ernesto Ferrero
Einaudi 2006
Libro scelto a casaccio sullo scaffale di una libreria solo per il titolo curioso e risultato poi di una noia micidiale, tanto che interrompevo la lettura a metà di una pagina, poi quando la riprendevo guardavo un po’ spaesato per capire dove fossi arrivato, magari rileggendo qualche paragrafo, tornavo indietro una o due pagine per cercare di riallacciare il filo e infine riprendevo da un punto a caso, che tanto non mi ricordavo assolutamente di cosa stesse parlando.
Quindi di certo ho saltato dei pezzi, di certo a volte mi sono accorto che stavo leggendo a paragrafi anziché a frasi, avete presente? Quando guardate un intero paragrafo, leggete velocemente qualche parola, più o meno capite cosa dice e passate al successivo.
Insomma, non ve lo consiglio, tanto più che ho scoperto che questo Ernesto Ferrero è (o era, non so) direttore della Fiera del libro di Torino, in passato ha vinto il premio Strega e questo libro gli è stato commissionato (commissionato!) in occasione della mostra, a Torino, del vero papiro di Artemidoro.
Se me ne fossi accorto quando l’avevo in mano in libreria avrei reagito come se avessi avuto in mano una biscia.
Ve lo racconto in brevissimo, nel caso in cui tra voi ci fosse un amante del genere, che non si sa mai e di certo io non so i vostri gusti, quelli del de gustibus…, per capirci.
Dunque… non sta bene iniziare una frase con “dunque” ma io lo faccio apposta che in questo caso ci sta bene… e anche tutti questi puntini di sospensione non stanno bene, si capisce che non so molto come riassumere questa noia di libro, vero?
Allora, vediamo, il papiro di Artemidoro esiste, l’hanno ricomposto e pare che stia a Torino o a Milano, non ho capito, ma forse è falso, c’è chi lo dice, insomma, una disputa tra papirologi o storici dell’Antico Egitto o storici d’egitto, non so, l’ho letto qui http://it.wikipedia.org/wiki/Papiro_di_Artemidoro.
Ma però il libro non lo spiega e in fondo neanche importa molto.
Cioè il libro si dice essere un romanzo storico, che penso voglia dire che Ferrero ha letto o gli hanno raccontato un po’ della storia di questo papiro e lui si è inventato delle avventure lungo due secoli, grossomodo tra il 100 a.C. e il 100 d.C.. Prima il protagonista è Artemidoro di Efeso, geografo che Ferrero si immagina peregrinare di qua e di là per il Mediterraneo, poi andare a Roma che faceva un po’ schifo, fornicare con la vedova piacente della casa dove viene ospitato, diventare celebre, ripartire e finire in Iberia dove si avventura in lande selvagge popolate da genti barbare. E lì inizia a comporre il suo papiro con le note e le mappe. Infine approda ad Alessandria, città meravigliosa e colta, ma sotto il giogo prima dei Tolomei, che pur essendo dei mezzi deficienti prodigiosamente partorirono Cleopatra, summa di tutte le bellezze e virtù (quasi tutte le virtù), poi dopo dei Romani, zotici e dispotici.
Finite le peripezie di Artemidoro, che io neanche avevo capito che avesse un papiro con sè, si salta ai suoi discendenti, che lavoricchiavano ad Alessandria, per arrivare al pittore, il quale prese questo papiro, l’equivalente di cartaccia da macero, e su quello vergò dei suoi disegnini di animali che vennero usati per decorare della case. Infine con l’ultima discendente, il papiro-carta da macero venne usato per imbottire o impastare una maschera funeraria (questo è vero, penso l’unica cosa vera).
In ultimo parla il presunto collezionista tedesco dei giorni nostri che, con grande travaglio, dice il testo, io ormai saltavo i paragrafi come una cavalletta per la noia, descrive la straziante decisione di consegnare la sua costosissima maschera funeraria egizia nelle mani di spietati papirologi che l’avrebbero scarnificata per estrarre i frammenti di papiro.
Tutto questo polentone di storia raccontato con tono professorale bonario, in un profluvio di erudizione massima, tra frasi elegantemente cesellate e du’ cojioni che non ne potevo più, santiddio, ma che bisogno c’era, mi chiedo?