«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
OSSESSIONI COLLETTIVE. CRITICA DEI SOCIAL MEDIA
Geert Lovink
Traduzione di B. Parrella
Università Bocconi Editore 2012
Premetto subito che non ho letto l’edizione italiana di cui vedete la copertina, in vendita all’oltraggiosissimo prezzo di 26 euro – Cara Università Bocconi Editore, te lo tieni il tuo libro -, ma l’edizione originale di Polity Press, la quale tra l’altro si intitola Network Without a Cause, ben diverso dall’Ossessioni Collettive dell’edizione italiana, che a ben vedere c’entra poco col contenuto ed è fuorviante.
Comunque, quello che conta è il sottotitolo Critica dei Social Media, perchè là è dove il libro va a parare.
Innanzitutto occorre chiarire cosa si intende per media, visto che i resoconti beceri e ignoranti della stampa hanno parlato solo di Facebook e Twitter, i quali c’entrano, come manifestazioni di massa di sistemi di Social Network gestiti da corporation americane che implementano l’ultima moda o tendenza od ossessione o business strategy del giardinetto recintato (walled garden l’espressione inglese), ovvero sistemi auto-inclusivi, proprietari, commerciali tendenti a riprodurre un contesto digitale sociale, culturale, tecnologico e informativo autonomo, in sostituzione delle caratteristiche di apertura, eterogeneità, frammentarietà di Internet (almeno per come era nella sua natura originaria).
Il termine media, con le parole di Lovink, è diventato un termine vuoto, lo stesso dicasi per digital media. Ciò perchè gli studi sui media hanno via via preso a includere tutto: letteratura, film, radio, televisione, film, teatro, design, arti visuali e performance, fino ai cosiddetti new media.
Questo è il contenuto del Capitolo Media Studies: Diagnostics of a Failed Merger (io riporto il titolo originale, per la traduzione o per l’associazione con il corrispondente capitolo dell’edizione italiana fate un po’ voi). Gli studi sui media, sempre secondo Lovink, hanno da tempo perso terreno rispetto i cambiamenti tecnologici e sociali degli ultimi due decenni, hanno fallito nel riconoscere ai digital media caratteristiche distinte rispetto l’analisi classica del XX secolo prodotta dai McLuhan, Baudrillard, Derrida, Virilio e altri e, soprattutto, sono rimasti infognati nelle strette della natura conservativa dell’accademia, come sempre tesa più a definire e quindi mantenere un canone (e un certo numero di solide cattedre) invece che aprirsi alla curiosità di un mondo che cambia, mescola discipline, si contorce, si contraddice, è dominato da hype e conformismo, un mondo nel quale le avanguardie dei digital media sono rappresentate da prodotti commerciali di corporation (Google, Facebook, Twitter e quasi tutto il settore IT), non più da movimenti culturali come in passato.
Per questo, oggi, nonostante il tanto blaterale noioso che se ne fa, i Media Studies, sono un dead horse, un progetto fallito tenuto in stato vegetativo, ancora con i piedi nell’ermeneutica di un tempo, nel femminismo, nel post-colonialismo, in teorie di comunicazione di massa di decenni fa e propinato attraverso libri di testo fuori dal tempo e dalla realtà.
E soprattutto, i Media Studies sono morti sotto il peso del loro peccato originale: quello di non essere mai stati un progetto intellettuale focalizzato sull’esercizio dell’analisi critica.
These days, the holy scriptures of Parisian Theory are often perceived as indifferent text machines that exists for one sole reason: to legitimize academic positions. They’re stating the obvious in a crypto-code that is meant for aliens. How did we end up in such a sorry state? Why is media theory a dead-horse?
Il libro contiene molti spunti critici interessanti, molti riferimenti e analisi taglienti, anche se Lovink, nonostante quanto contesti alla disciplina dello studio dei media, si lascia prendere spesso da un tono aulico che alza inutilmente l’asticella della comprensione e abbondi, fin troppo, con citazioni dalla letteratura classica della Media Theory. Il suo punto di vista, nonchè il suo background, è umanistico e da quello parte per debordare nella sociologia e nella tecnologia, ma ancora l’amalgama risulta sovente faticosa, si sente l’attrito nei concetti e nell’esposizione, ancora la trasversalità e la fluidità invocata non riesce a ottenerla.
Comunque ci prova ed è un buon tentativo.
Lovink apre la sua dissertazione con uno dei migliori capitoli del saggio, dedicato all’eccesso di informazioni (Pshycopathology of Information Overload), tema ripetuto milioni di volte senza tuttavia sapere che non si tratta di nulla di nuovo, essendo già stato ampiamente dibattuto fin dagli anni ’50 e ’60 con l’avvento della televisione. Certo, molto è cambiato, ma non è tutto radicalmente nuovo.
L’indolenza diventa una virtù sotto il diluvio informativo, uno stato di depresso edonismo nel quale l’unico valore è la ricerca del proprio piacere, questo argomenta Lovink insieme a Bifo Berardi. Il torrente continuo di informazioni scivola ormai sui sempre-connessi che vivono tra uno stato di narcosi e l’iper-eccitazione chimica dello stimolo a competere.
E di nuovo torna il fascino perverso dei giardinetti recintati che le corporation costruiscono attorno ai loro utenti.
Altro capitolo interessante riguarda la cultura dei commenti (Treatise on Comment Culture). La possibilità di commentare e lo sviluppo di un discorso collettivo è stato parte fondante dell’esplosione dei blog e di Internet stessa. Tuttavia, dalla retorica in voga nel momento di massima esaltazione per i blog, e oggi per il micro-blogging di Twitter, secondo la quale i commenti sono il reale contenuto della dinamica sociale sottostante, si è passati ad altro. Ci si sta accorgendo che non era che ideologia. Sempre più i blog sono privi di commenti se non addirittura impediscono di formulare commenti. Sempre di più è chiaro che i commenti formano un ecosistema molto preciso e dalle caratteristiche assai diverse dalla ricchezza e vitalità che l’ideologia esaltata sognava. I commenti sono lo specchio di un micro-cosmo culturale ristretto, polarizzato, spesso uniformante e soffocante di ogni forma di creatività. L’esplosione di commenti e di possibilità di commentare che i digital media hanno favorito non ha dimostrato affatto la ricchezza e la varietà che si vagheggiava, al contrario, ha esaltato e facilitato il settarismo e l’omogeneità.
Ancora interessanti i capitoli sulla blogosfera in Germania e in Francia e quello sulle radio libere.
Il primo presenta differenze ragguardevoli tra Francia e Germania le cui cause vanno ricondotte a precise differenze culturali, nazionali e sociali. Aspetto questo che sempre si trascura, assumendo ingenuamente, ma forse perchè siamo imbevuti di neo-liberismo americano, che i digital media creino persone che trascendono dalle radici nazionali. Non è così. Le culture tradizionali contano ancora, eccome.
Il secondo, quasi biografico visto il passato di Lovink, esula dal discorso generale ripercorrendo la storia delle radio libere, in particolare, della scena olandese e ne mostra il declino, forse inevitabile, non fosse altro che ormai non c’è più quasi nessuno capace di andare a montare antenne o gestire le apparecchiature necessarie. Da qui la domanda, inevitabile, sul futuro della radio nel panorama dei digital media in quanto strumento tradizionale per dare voce a movimenti di nicchia, contro-culture, alternative sociali.
Le orgnet, Organization Networks, il concetto principale che Lovink sviluppa, sono discusse nel capitolo Organizing Networks in Culture and Politics, ed è un’analisi ricca e l’aspetto propositivo del libro, oltre all’analisi critica.
È un paradigma forte quello di passare dall’idea delle organizzazioni culturali e sociali che crescono per effetto rete, auto-organizzandosi e auto-sostenendosi, idea affascinante che ha prodotto molte discussioni teoriche e articoli manageriali ed accademici, ma che in pratica è sostanzialmente fallita, all’idea di sfruttare la tecnologia e la rete per organizzare organizzazioni allo scopo di dare loro forza per sostenere approcci culturali alternativi all’avanguardia tecnologica imposta dalle corporation e dai prodotti commerciali, riuscire a ricavare uno spazio di proposta che un tempo esisteva e che ora sembra scomparso, fagocitato dall’ambiguo settore delle industrie culturali.
Unlike a decade ago, the cultural new media sector can no longer claim to embody an avant-garde position, because the avant-garde has been taken over by the market. This situation leaves a void: neither truly innovative nor particularly critical, new media organizations in the no-profit sector are confused. What direction should they take? If they are not conducting proper research considered useful by policymaker and academics, what is their role? Now that the introductory phase of new media is coming to an end, should they simply do without public funding and disappear? The well-funded massive digitization of cultural heritage has proved useless for the new media sector and merely reproduces the existing, conservative cultural landscape dominated by museums, opera and concert halls. The same can be said of media wisdom programs in the educational sector, which are merely run to manage (read: control) the already high computer literacy amongst youngsters as well as the ignorance and paranoia of parents and teachers.
In conclusione, penso sia un buon libro (con qualche capitolo più scadente, ad esempio quello sulla googlizzazione che sa un po’ di detto e ridetto), nel quale Lovink riesce molto spesso a esercitare quell’analisi critica, ma informata e ben calibrata, che manca come l’aria nella maggior parte dei discorsi sui Social e Digital Media, tanto che per lo più si continuano ad ascoltare buffonerie fanatizzanti da parte di presunti guru sempre più grotteschi oppure banalità patinate sfornate a ritmo industriale da PR executive omogeneizzati. In tutto questo, piange il cuore a vedere l’Università ridotta a un tempio scalcinato della conservazione di canoni sempre più obsoleti.
Come già accennato, Lovink rimane un po’ in mezzo al guado nella scelta dello stile, tra il discorso diretto e analitico orientato al non-accademico e la forma baroccamente articolata necessaria per rivolgersi agli specialisti del settore dei Media Studies.
Si alza un po’ l’asticella della comprensibilità, ma tutto sommato funziona.
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