«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
HOTEL A ZERO STELLE – Inferni e paradisi di uno scrittore senza fissa dimora
Tommaso Pincio
Laterza 2011
Tommaso Pincio, pseudonimo di Marco Colapietro, compie un prodigio, una magia, un trucco da illusionista con questo Hotel a zero stelle, aprendo il libro con trenta pagine di una noia micidiale e per di più scritte male.
Poi le chiude.
Delusione.
Riapre.
Disillusione e sospetto.
E va con duecento pagine travolgenti, bellissime, un coacervo di pensieri, riflessioni e storie che si ibridano in una sorta di flusso di coscienza autobiografico che è anche saggio ed è anche romanzo.
Compie un’impostura, ne sono assolutamente certo, l’impostura che è anche il nerbo che tiene insieme le parole, gli uomini, le vite. L’impostura di quelle trenta pagine iniziali che mentre le leggevo mi dicevo ”Che due palle! Ma che noia!” e avevo iniziato a notare solo quei fastidiosissimi anticipi degli aggettivi, che si ripetevano insistentemente, luminescenti frequentazioni, inqualificabili stratagemmi, precocemente educati, autenticamente sentiti, conflittuale rapporto, dilettantesche menzogne… ecco, capirete come mi fossi perfino irritato, tanto che pensavo ”Basta! Se continua ancora così lo mollo questo qui!”
Poi, si arriva a pagina 32, dove iniziano le stanze dell’hotel a zero stelle, ovvero finalmente si entra nell’hotel a zero stelle, mentre prima si aveva solo cincischiato di fuori.
Stanza 101.
Qui Pincio, a posteriori, con una mia immaginazione me lo vedo dire ”Bravo! Hai resistito all’impostura. Vuol dire che un po’ di pazienza ce l’hai e un certo credito me lo hai concesso. Adesso allora ti racconto davvero.”
E Pincio, dalla Stanza 101 inizia a raccontare davvero.
Cambia tono, cambia stile, cambia voce.
Cambia libro.
Inizia qui l’hotel a zero stelle, con dentro lui e noi, parla, racconta, come se stesse conversando, un po’ sostenuto, poi si scioglie, si spazientisce, poi sorride, racconta di sé, e parla delle parole, parla degli impostori, di come si è impostori, lui lo è, tu lo sei? delle illusioni, dei disastri che si compiono in una vita, e ancora degli scrittori, dell’impulso di scrivere, perché scrivo? E Kerouac, perché lo ha fatto? E Fitzgerald? E Simenon, Foster Wallace, Dick, Landolfi, Melville, Pasolini, Marquez, Kafka, Burroughs? E infine Orwell, il più meraviglioso degli impostori, perché scrisse?
Perché questo bisogno di rifugiarsi nelle parole per vivere, per sopravvivere, per respirare, per amare, per dare un senso, fosse anche per ribellarsi anche se sai che non non c’è più speranza?
Compare anche Alighiero Boetti, che non è uno scrittore, e il suo foglio a quadretti ricalcato a matita degli anni ’70, che io appena l’ho letto mi stavo per ribaltare in terra perché prima di oggi non avevo mai sentito neppure il nome di Alighiero Boetti e tutto d’un colpo due volte, con anche la storia del foglio a quadretti ricalcato, prima questa mattina a Radio Tre, poi questa sera Tommaso Pincio. Inutile farsi domande sul caso.
David Foster Wallace era sconcertato dalla facilità con cui il pensiero, torcendosi e rivoltandosi come più gli conviene, possa rivelarsi di ostacolo a una corretta comprensione delle cose e dunque agire contro l’interesse dello stesso soggetto pensante, nonché contro quello che dovrebbe essere lo scopo di ogni ragionamento: capire, sentire, amare.
Avete letto bene: anche amare. Perché una reale comprensione delle cose e delle persone porta all’empatia, a una vera identificazione con l’altro, foss’anche un’aragosta bollita viva, «solo per il piacere delle nostre papille gustative».
Grande complice e al tempo stesso arma del delitto nella tessitura d’inganni ordita dal cervello è naturalmente lui, il linguaggio. Le parole in sè non sarebbero malvagie. Come un qualunque oggetto reperibile nel mondo fisico fuori della nostra testa, restano entità inerti e innocue finché il pensiero non decide come servirsene: se farne uno strumento per conoscere e illuminare o un corpo contundente da scagliare, a seconda delle circostanze, sul prossimo, sulla verità delle cose, su noi stessi. Soprattutto su noi stessi.
[…]
“Fuori delle parole, fuori della nostra stanza dalle pareti nere, ricolma di libri e lampade vintage, c’è un mondo di persone e cose e un sole che risplende di luce. Non dobbiamo mai dimenticarlo se vogliamo diventare meno soli dentro. Non è detto che ciò basti a salvarci dal buco nero coi denti, ma è giusto provarci. È l’unico modo per fare di un fallimento una vittoria” [D.F.Wallace]
Dentro le parole, fuori dalle parole, nella testa, sempre lì, tutto avviene, tutto si crea e si polverizza, si illumina e si brunisce. Wallace non si è salvato dal suo buco nero con i denti e il ritratto che Pincio ne fa sembra abbracciarlo per la sua fragilità di uomo.
Pincio è bravissimo a mescolare insieme tutto quanto. Ad ogni piano dell’hotel e per ogni stanza inizia parlando di sè, un po’ a casaccio, il padre, la zia, questo e quello, le tettine della ragazzina, insomma attacca un discorso, una chiacchierata. Poi infila uno scrittore e stringe la morsa e accelera e voi dietro, in balia di quelle parole che improvvisamente diventano delle rapide e dei gorghi.
Dopo un po’ rallenta, ricomincia a chiacchierare, parla di Matrix, il film, la realtà che non è la realtà, alleggerisce il tono, vi lascia rilassare un momento e pesta di nuovo sull’acceleratore.
Capire e disilludersi non è stato purtroppo di grande utilità. L’accettazione della realtà non è infatti compresa nel prezzo che bisogna pagare per la comprensione e la disillusione. L’accettazione va acquistata a parte. Te la presentano come un optional e tu pensi che basti un piccolo sforzo in più per aggiudicartela, ma alla fine scopri che non è così. Scopri, come a me è capitato di scoprire, di non avere abbastanza risorse per comprarti sia comprensione che accettazione. E se magari hai le risorse, scopri comunque di non avere la minima voglia di buttare tanti soldi dalla finestra. Così ti ritrovi al punto di partenza. Anzi peggio. Perchè se prima non accettavi illudendoti, adesso, siccome hai capito, non ti illudi più ma continui a non accettare.
Il finale è intimo, più raccolto, con l’elogio a Orwell, il grande impostore, una spiegazione, forse vera forse no, ma non importa, dello pseudonimo Tommaso Pincio (alternativa a quella di omaggio a Thomas Pynchon) e la galleria d’arte che ospita la performance nella quale gli artisti scrivono il proprio epitaffio su un muro candido.
C’avete mai pensato a che epitaffio scegliereste?
Mi piace quello di Pincio, forse glielo copio.
Sono le parole che si direbbero a un amico nell’imminenza di un lungo viaggio o di un trasferimento. Parole del tipo: “Mi raccomando, fatti sentire. Non fare al solito tuo, mascalzone, non sparire”. Detto questo, mi sono girato verso la parete e ho iniziato a scrivere:
… [fotografia con l’epitaffio di Tommaso Pincio]
Fine del libro. Bello. Molto.
Come sempre bellissima recensione e questa volta non ho resistito e l’ho comperato. Non ha deluso le aspettative.
In ogni ritratto si ritrova qualcosa di se stessi. Si ritrovano le proprie battaglie e disastri, le proprie paure, i propri fallimenti e ci si sente un po’ meno marziani.
Ma “L’accettazione della realtà non è … compresa nel prezzo che bisogna pagare per la comprensione e la disillusione. L’accettazione va acquistata a parte.”
Grazie, Stella.
Recensione strepitosa (o forse è strepitoso il libro?) che fa venire davvero voglia di leggerlo.
E, per me, voglia di restare in questo blog