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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Lo chalet della memoria – Tony Judt

LO CHALET DELLA MEMORIA – Tessere di un Novecento privato
Tony Judt
Traduzione di M. G. Cavallo e P. Marangon

Laterza  2011 

Tony Judt è stato uno dei più grandi nel raccontare la storia del secondo Novecento, Dopoguerra è un testo imprescindibile per chi voglia conoscere quell’epoca tumultuosa, così come un piacere per l’intelletto è il successivo è L’età dell’oblio – Sulle rimozioni del ‘900.

Non ha mai scansato le prese di posizioni scomode, ha detto quello che pensava, da ebreo sul sionismo, da professore sull’accademia, da socialdemocratico sulla sinistra e da cittadino sui politici. L’hanno criticato furiosamente, si capisce, ma non ha mai ceduto di un millimetro nell’argomentare le sue idee e nell’affondare la lama là dove la carne puzzava.

In questo Lo chalet della memoria, Tony Judt si commiata raccontando se stesso, presentando i suoi pensieri intimi, scritti che non aveva prodotto per essere pubblicati ma solo per sua memoria personale. Lo fa quando è giunto al capolinea, ormai al termine dell’agonia provocatagli dalla SLA, immobile in un letto e con la sola possibilità di dettare.

Il libro si apre con la descrizione della sua condizione di malato terminale, lucidissima e disperata, le lunghe notti angosciose tormentato dall’immobilità, il senso di impotenza dovuto a un corpo che si è afflosciato come un copertone bucato, ma anche la reazione mentale alla sua condizione, il lavorio per rafforzare la memoria, l’incasellare i ricordi e le immagini in un ultimo sforzo prima del buio e la gioia triste di accorgersi di essere riuscito a concentrare quelle energie residue in uno chalet della memoria.
Straziante e dignitoso.
Poi squaderna i ricordi.

La prima parte è dedicata alla sua Londra del dopoguerra.
La Londra dell’infanzia con il regime di austerità che imponeva il razionamento di molti generi di prima necessità rievocato considerando i benefici che tale austerità comportò nei costumi delle persone.
Negli anni successivi il benessere crescente portò la generazione del padre, e il padre stesso, a infatuarsi dell’automobile. La descrizione che ne fa è splendida, fondendo ricordi personali con la conoscenza di storico ne trae un quadro sociale e privato che nessun testo di storia contiene.
Ancora i suoi viaggi sugli autobus, la metropolitana e i treni e come questi siano cambiati, il tessuto della città si sia trasformato, in peggio, disintegrandosi rispetto a ciò che era.

Nella seconda parte parla dei suoi anni giovanili, il sionismo socialista militante, la permanenza, prima entusiasta poi delusa, in un kibbutz in Israele e il suo arrivo a Cambridge, come studente prima, poi da docente.
Spietato nel descrivere l’altra faccia della medaglia dell’illusione sionistica dei coloni nella terra di Palestina. Il conformismo militante, l’identificazione cieca, l’appiattimento della condivisione forzata e l’ipocrisia che l’ideologia nascondeva. Ha iniziato giovane a remare controcorrente e non ha mai smesso.
Altrettanto chirurgico nel dissezionare l’organizzazione scolastica inglese, classista e settaria, così come l’atmosfera ingessata di Cambridge, simbolizzata dalla sfilata degli ottuagenari baroni nel refettorio al momento del pranzo, così tanto rinsecchiti da sembrare un tutt’uno con i ritratti alle pareti dei loro celebri predecessori.
Il capitolo Le parole è magistrale. L’importanza delle parole, dell’esposizione, dell’integrità di senso e le conseguenze atroci della sua perdita.

Quando le parole perdono la loro integrità, la perdono anche le idee che esprimono. Privilegiando l’espressione personale sulla convenzione formale non stiamo facendo altro che privatizzare il linguaggio, così come stiamo privatizzando quasi tutto il resto. «Quando io uso una parola», diceva Humpty Dumpty, in tono alquanto sprezzante, «essa significa esattamente quello che decido io». Bisogna vedere», rispose Alice, «se lei può dare tanti significati diversi alle parole».
Alice aveva ragione: il risultato è l’anarchia.

Beh, gli Humpty Dumpty in circolazione si sono moltiplicati.

La terza e ultima parte raccoglie gli anni maturi, il trasferimento a New York e il senso di familiarità che l’atmosfera newyorkese gli ha regalato col suo crogiuolo di culture e provenienze mescolate in modo caotico.
Qualche sciabolata la scaglia contro il conformismo della middle class americana con il suo puritanesimo di facciata, il politically correct e l’isteria di genere.
Infine I marginali,  uno dei capitoli più rivelatori della sua natura di persona che si è sempre spostata verso i bordi, intellettualmente attratto dall’avvicinarsi all’orlo di ogni cultura di identità, rifiutandola costantemente, fosse essa centrata sulla religione, la politica, la classe, l’ideologia, le credenze, l’orientamento sessuale o quant’altro cercasse di definire e innalzare una singola, specifica identità.

Le «identità» diventeranno rigide e meschine, via via che l’indigente e lo sradicato batteranno contro le mura sempre più alte delle comunità recintate e sorvegliate, da Delhi a Dallas.
Essere «danese» o «italiano», «americano» o «europeo» non sarà soltanto un’identità: sarà un rimprovero e un secco rifiuto per gli esclusi. Lo Stato, lungi dallo scomparire, potrebbe cominciare a dare piena prova di sé: i privilegi della cittadinanza, la tutela dei diritti di residenza dei titolari di diritti di soggiorno saranno sventolati come atout della politica. Nelle democrazie consolidate i demagoghi intolleranti pretenderanno «prove» – di conoscenza di lingua, di comportamento – per stabilire se i disperati in arrivo meritino di avere un’«identità» britannica, olandese o francese. Già lo fanno. In questo mirabile nuovo secolo sentiremo la mancanza dei tolleranti, dei marginali: le persone sull’orlo. La mia gente.

Infine Il commiato, l’ideale ritorno in quello chalet tra le amate montagne svizzere della sua infanzia.

L’ho classificato come Saggistica, anche se il genere è sicuramente poco definibile, ma ho pensato che era più fedele a quelle che credo fossero le sue intenzioni: di essere uno storico fino all’ultimo, quello che aveva sempre desiderato essere fin da bambino. Solo, questa volta, invece di raccontare la Storia, racconta la sua storia e merita sicuramente di essere letta.

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Questa voce è stata pubblicata il 21 luglio 2012 da in Autori, Editori, Judt, Tony, Laterza con tag , , .

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