2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Il filtro – Eli Pariser

IL FILTRO – Quello che Internet ci nasconde
Eli Pariser
Traduzione di B. Tortorella

Il Saggiatore  2012

If you’re not paying for something, you’re not the customer;
you’re the product being sold.
-Andrew Lewis

(Se non stai pagando per qualcosa, non sei tu il cliente;
tu sei il prodotto in vendita.)

Il saggio di Eli Pariser affronta un tema cruciale i cui confini ancora non sono ben chiari, un po’ come quando si vedono nuvole nere avvicinarsi e chissà se porteranno un temporale, la grandine addirittura, oppure brontoleranno solo per poi passare.

Per capire di cosa si sta parlando basta fare un piccolo esperimento.

Pensate a qualche tema controverso, che abbia suscitato dibattiti, o anche episodi di cronaca attorno ai quali siano nate polemiche, per ragioni economiche, ambientali o politiche. Aborto, eutanasia, immigrazione, potrebbero andare bene, così come le balene o la bicicletta o l’energia nucleare.
Ora pensate a un vostro amico o amica, magari qualcuno che vi somigli, col quale avete interessi comuni, opinioni politiche e religiose simili, gusti non molto diversi.
Infine, sedetevi di fianco al vostro amico o amica (anche virtualmente va bene), ognuno con il proprio dispositivo connesso in rete, aprite lo stesso browser, andate su Google e digitate la stessa parola o parole per ricercare notizie sull’argomento controverso.
Ovvero, fate la stessa ricerca, contemporaneamente e in maniera del tutto identica.
Guardate i risultati.

È probabile che i risultati siano diversi, è possibile che siano molto diversi.
Questo è quello che sempre di più accade a chiunque di noi e per lo più ne siamo inconsapevoli.

Qualcuno adesso forse starà pensando Ma intendi la censura? Come i cinesi che se cercano “piazza tienanmen” su google.cn vedono solo aiuole fiorite e nulla che ricordi i fatti che avvennero?
No, non si parla di censura, che è di solito voluta dagli stati, si parla di personalizzazione, che è voluta da aziende.

I contenuti a cui accediamo sono sempre più personalizzati, ritagliati attorno a noi dalla mano invisibile di chi quei contenuti li fornisce.
Di questo parla Il filtro, che nella traduzione italiana ha perso per strada metà del titolo originale, The filter bubble. Per chi vuole approfondire esiste anche un sito collegato: www.thefilterbubble.com .

La “bolla” ha un significato importante: un po’ si riferisce al fenomeno delle bolle speculative, tendenze irrazionali e incontrollate che finiscono per accrescere a dismisura e in maniera artificiosa il valore nominale di una certa entità, siano esse tulipani, case, azioni o informazioni personalizzate; ma soprattutto si riferisce al vivere in una bolla, quella condizione psicologica e cognitiva anomala e spesso patologica del finire come ricoperti da una guaina protettiva che fa da schermo al mondo reale, distorcendo la percezione per ricondurla inevitabilmente in un alveo predefinito, rassicurante, autoconsolatorio, placando così angosce e insicurezze, ma scatenando poi effetti devastanti sul più lungo periodo dovuti all’isolamento cognitivo che porta a convincimenti fanatizzanti, sia nel caso di idealizzazioni alla Mulino Bianco sia di stati paranoici, e in ultima analisi a una sorta di idiotismo delle valli o demenza degli aristocratici, tipico delle comunità chiuse che si accoppiano tra loro troppo a lungo.

Questo in breve è l’argomento del libro: sempre più siamo connessi e ricaviamo informazioni e conoscenza del mondo da motori di ricerca, social network o siti aggregatori di notizie, siamo vittime di bulimia informativa e fatichiamo a districarci nella giungla di notizie, invochiamo (o per meglio dire, autonominatisi o effettivamente riconosciuti guru di Internet invocano paternalisticamente al posto nostro) aiuto in forma di strumenti che ci facciano da guida e per questo riceviamo sempre più notizie e informazioni personalizzate.

Bene, si dirà da un certo punto di vista, meglio seguire una guida turistica, anche se ci porterà a visitare quello che vuole lui, invece di vagare a caso come ubriachi.

Orripilante, si dirà invece da un altro.
Che vuol dire personalizzate?
Chi lo decide e come cosa mi interessa?
Chi autorizza Google o Facebook o Yahoo o l’edizione online di un giornale a decidere cosa farmi vedere?
Qual è il prezzo che pago per questo, diciamo così, “aiuto” o “guida alla lettura” che ricevo senza conoscerne i criteri, i fini e l’esatta consistenza?
Dico subito che Pariser nota, e io sottoscrivo, che la tipica risposta dei tecnocrati digitali è “Google/Facebook/Twitter/??? è un’azienda privata che offre un servizio gratuito, se non piace nessuno vi obbliga a usarlo” e va detto a chiare lettere che delle due l’una: o questi supermanager digitali sono degli emeriti idioti la cui idiozia rappresenta un pericolo grave per il mondo oppure sono persone la cui asticella dell’etica è scesa a livelli pericolosamente bassi e ugualmente ciò è preoccupante. Vale anche un mix delle due, interpretazione per la quale personalmente propendo.
Chi non è d’accordo nel rifiutare totalmente una giustificazione come quella citata è inutile che legga questo libro o prosegua nel mio commento.

Tutto ciò, ci informa Pariser, ha una data di fondazione precisa: il 4 dicembre 2009. Quel giorno Google annunciò sul suo blog aziendale “Ricerche personalizzate per tutti” e non era una boutade, ma un annuncio del tutto veritiero: da quel giorno chiunque esegua una ricerca su Google ottiene dei risultati personalizzati sulla base di 57 “segnali” (oggi probabilmente di più), ovvero informazioni personali che Google mantiene su ognuno di noi, che vanno dalle ricerche precedenti, il luogo dove ci troviamo, il tipo di browser, ma anche molto altro e molto più personale, legato a contatti, abitudini di acquisto, opinioni politiche, fede religiosa, orientamento sessuale, stato di salute etc.
Non si sa con precisione, niente è pubblico. Quello che è certo è che sicuramente da quel giorno tutti noi siamo un profilo piuttosto accurato all’interno di un archivio di Google e le informazioni che otteniamo dipendono sia da ciò che cerchiamo sia da ciò che Google ritiene dobbiamo vedere più facilmente.

Ecco la bolla, o in termini un po’ meno politically correct, un bel profilattico infilato sulle nostre teste da una qualche azienda che pensa per noi.
Eh sì perché ovviamente da quel giorno ne è passata di acqua sotto i ponti e il filtraggio dei contenuti sulla base di invisibili profilazioni è diventata la strategia prediletta da molte di quelle aziende che hanno in mano gli strumenti per decidere che faccia deve avere il mondo che osserviamo dal nostro visorino retroilluminato prediletto.

Sono molte le osservazioni che Pariser fa e molte sono le conseguenze che ipotizza. Come sempre accade quando si immagina dove potrà andare un processo ancora alle sue battute iniziali è più un esercizio divinatorio che un’analisi realmente fondata, tuttavia gli elementi per iniziare a prestare la massima attenzione ci sono già tutti.
A partire da due fenomeni: la crisi del giornalismo tradizionale e della stampa che, pur con alti e bassi, orrori e miserie, un’etica l’aveva sviluppata e un approccio tendente a informare anche su problemi poco noti o avvenimenti poco piacevoli l’aveva perseguito; alla crisi degli organi di informazione tradizionali e alla loro progressiva sostituzione con le notizie restituite dai motori di ricerca o che i nostri contatti condividono all’interno di quelle specie di case protette per moribondi che sono i social network, si associa la completa mancanza di un’etica e il palese perseguimento di interessi commerciali da parte dei dirigenti di tali aziende.
Anzi, a leggere le dichiarazioni dei vari Zuckerberg, Brin&Page o dei manager che ne decidono le parole, quello che appare della celebrata cultura della Silicon Valley e dell’iperimprenditorialità digitale e futurista trainata da visionari tecnologici e venture capitalist d’assalto è la sconcertante ignoranza dei processi storici e sociali, e lo spaventoso autocompiacimento della propria superficialità del tutto paragonabile ai tristemente famosi robber barons di inizio Novecento, i padroni delle ferriere, gli oligopolisti tecnocrati dall’avidità sterminata (vedere l’articolo “New-tech moguls: the modern robber barons?” del Guardian per un’analisi del parallelismo).

La crisi, non solo economica ma anche culturale, di senso e di valori, del giornalismo e dell’editoria tradizionale, tramortita sotto i colpi di Internet, e l’incapacità che stanno dimostrando gli editori nel cogliere e inquadrare il ruolo della tecnologia senza sacrificare l’etica sull’altare dei bilanci o abdicare a favore di fagocitatori di informazioni personali, non è l’unico punto di criticità. Il recente saggio di Lovink sulla crisi dei social media è utile per capire il disorientamento degli studi tradizionali difronte ai media digitali.

Altre notizie interessanti Pariser ce le fornisce riguardo la vastità che ha assunto il mercato delle informazioni personali. C’è Google, Amazon, Facebook o Twitter che raccolgono sempre più informazioni ogni volta che li usiamo, e quello lo intuiamo e spesso viene sottolineato, ma ci sono anche aziende del tutto ignote al pubblico, chi ha mai sentito parlare di BlueKay o Acxiom?, che lavorano dietro le quinte e stanno accumulando archivi spaventosamente vasti su decine o centinaia di milioni di persone aggregando ogni sorta di dato riguardante la vita online, acquisti ma non solo, anche semplici accessi a siti, visualizzazione di prodotti (certo, anche la semplice visualizzazione, cosa che fa il 98% dei visitatori di un sito di e-commerce, sembra un gesto innocuo e invece fornisce informazioni preziose al cosiddetto “retargeting comportamentale”, che già dal nome non sembra qualcosa che vi farebbe piacere subire se ve lo chiedessero) o notizie di cronaca, qualunque gesto online cercano di tracciarlo e aggregarlo. L’esempio di chi cerca su Dictionary.com la parola “depression” e inizia a ricevere pubblicità di ansiolitici è inquietante pur nella sua grossolanità. Decisamente più fine e subdola è la creazione non solo di profili personali che cercano di ritagliare in modo sempre più preciso la nostra identità al fine di migliorare la personalizzazione delle informazioni e della pubblicità, ma anche la definizione di “profili di persuadibilità” (persuasion profile) i quali cercano di identificare in che misura e quale sia il modo più efficace per persuadere ognuno di noi ad acquistare beni e servizi, o se non ancora oggi, ma forse in un futuro prossimo, a persuaderci della veridicità di una certa visione del mondo, la quale, di conseguenza, farà di noi clienti molto più malleabili. È sempre la vecchia strategia del marketing e della distorsione populista dell’opinione pubblica, solo perseguita ad una scala e con un grado di personalizzazione inconcepibile fino a poco tempo fa.

Tutto questo pone un problema di privacy, del quale se ne parla da tempo e rispetto il quale la Commissione Europea si sta ponendo sempre di più opposizione al laissez faire americano, ma sempre più “privacy” sta diventando una parola-schermo per strategie politiche tra stati.
Altro è domandarsi quali possono essere le conseguenze sociali di una visione del mondo e della realtà influenzata da filtri personalizzati decisi in modo completamente opaco da un pugno di aziende il cui fine è il cecchinaggio pubblicitario. Sempre più si tende a vedere ciò che ci è familiare, che ci piace e che ci somiglia, col quale siamo d’accordo, il più cliccato, magari solo da quelli che ci somigliano.
I sociologi chiamano questo fenomeno omofilia, la tendenza a radunarsi tra simili, incrementare il settarismo, il fascino della tribù (qualcuno ricorda la pubblicità della TIM che si rivolgeva proprio alla “tua tribù”?) e in definitiva la sterilizzazione della circolazione della conoscenza.
È un mondo digitale fatto di isole, colonie protetta da muri di cinta, enclaves culturali, sette, fazioni e tribù, villaggi vacanze per rincoglioniti annoiati quello che si potrebbe realizzare e una delle conseguenze possibili della personalizzazione sempre più spinta. Alla faccia di Internet come strumento di liberazione, apertura e abbattimento delle barriere che ancora qualcuno, o molto sognatore o molto prezzolato, va decantando. Il mondo è sempre stato fatto di merda e sangue, non di prati di margherite e gente che si abbraccia, forse è meglio non dimenticarlo.

Le conseguenze sociali possono essere profonde se questo sradicamento delle modalità di accesso alle informazioni si dovesse cronicizzare per diventare il veicolo che guida la pubblicità verso bersagli sempre più riconoscibili e modellabili individualmente. Cioè me e voi tutti.

In sintesi, quindi, il saggio di Pariser è utilissimo per iniziare a focalizzare l’attenzione sul lato oscuro e inquietante che sta crescendo dietro i proclami enfatici e folkloristici degli evangelizzatori di Internet.
D’altra parte, tecnicamente non è un grande saggio, spesso divaga un po’ troppo e conduce tutta l’esposizione con lo stile tipico di molti saggi attuali che sfruttano eccessivamente l’aneddotica e le citazioni a scapito dello sviluppo di un’analisi più strutturata.
Si lascia inoltre andare eccessivamente a un atteggiamento politicamente orientato verso argomentazioni e commenti tipicamente liberal (progressista, diremmo noi), quando invece le criticità che si presentano sono molto più ampie e generali e non per forza preoccupanti solo per una parte politica. D’altro canto Pariser è il presidente di MoveOn.org, potente organizzazione americana di parte liberal molto attiva nell’organizzare campagne sociali e lobbying, quindi un certo approccio tipico da attivista è comprensibile.
Anche il capitolo finale sulle soluzioni che si possono adottare è troppo viziato da una retorica eccessiva che può indisporre sia chi non si colloca nell’arco della sinistra liberal/progressista ma anche chi, come me, lo ammetto, pur riconoscendosi in tale tradizione, è diventato insofferente alle parole d’ordine già fin troppo ripetute in modo vano e a un certo pietismo umanitario che si appoggia a presunte rivolte morali o movimenti progressisti dalle mai dimostrate doti taumaturgiche.

Per essere esplicito, le soluzioni che propone Pariser, a mio modo di vedere, somigliano molto agli appelli per una idealizzata moralizzazione della finanza a seguito degli sconquassi che da essa ne sono derivati. Grida inutili che non porteranno a nulla; la finanza, così come Google, Amazon, Facebook o gli altri fagocitatori di informazioni personali a fini commerciali non hanno alcuno spirito da moralizzare, sono intrinsecamente amorali, come tutti i tecnocrati che senza freno alcuno vengono lasciati liberi di poggiare le zampe sulla società (e qui ci sta di riascoltare Giorgio Gaber che canta La presa del potere … sono una razza superiore | sono bellissimi e hitleriani | chi sono? chi sono? chi sono?).
Pariser si sforza di essere ottimista, io non lo sono per nulla. Voi non lo so.

P.S.: Il Saggiatore, a differenza di altri editori, pare non essere convinto che i lettori di saggi siano ricchi sfondati o talmente bramosi di accaparrarsi le loro pubblicazioni da accettare di pagare prezzi farneticanti e pertanto Il filtro è in vendita a un tutto sommato accettabile prezzo di € 18,00.

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