«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
JOSSEL WASSERMANN TORNA A CASA
Edgar Hilsenrath
Traduzione di L. Cancian
Baldini Castoldi Dalai 2011
Edgar Hilsenrath in Jossel Wassermann torna a casa canta la storia di un mondo scomparso, quello degli shtetl dell’Europa Orientale, il nome yiddish per le “piccole città”, i villaggi ebraici spersi in quel miscuglio di etnie e di territori che era l’impero austroungarico, la Russia, la Polonia.
Racconta in un modo tutto diverso dal suo romanzo più celebre, Il nazista & il barbiere, duro, aspro, capace di scorticare la coscienza melmosa dei tedeschi che infatti solo nel 1977 ebbero il coraggio di pubblicare.
Qui lascia parlare il vecchio Jossel Wassermann che al termine di una lunga vita, con la morte che ormai ha già bussato alla porta, lascia il suo ricordo e la sua eredità al natio paese di Pohodna.
Ed è infatti il racconto di un vecchio quello che si snoda, intriso della dolcezza nostalgica dei ricordi, che non sono mai né del tutto veri né del tutto falsi, sono ovattati, sfumati, sono la memoria rimasta di una vita che il tempo ha consumato, l’ultima ricerca di senso.
Descrive la vita concitata del villaggio, scandita dai rituali della tradizione ebraica, i suoi precetti, bizzarri e incomprensibili per un goy, un gentile, un non-ebreo occidentale del 2012 come me, ma che evocano comunque echi di tradizioni le cui radici si perdono nel pozzo del lontano passato, tramandate intatte per generazioni, caparbiamente, con orgoglio o stoltezza, dipende.
Racconta come viveva un mondo piccolo, aggrappato alla terra e agli eventi naturali, un mondo dove chiunque cercava solo di sopravvivere, magari facendo il portatore d’acqua, il sensale di matrimoni, l’oste, lo studioso del Talmud oppure lo shnorrer, che erano coloro che non avevano alcun mestiere perchè non ritenevano necessario averlo, bastava loro di sopravvivere arrangiandosi giorno per giorno. Quello era lo scopo, sopravvivere, insieme alla propria famiglia.
Era un mondo nel quale si facevano così tanti figli che a un certo punto si smetteva anche di contarli e si sperava che qualcuno riuscisse a resistere, alle malattie, alle carestie, agli incidenti, alle violenze o ai morsi dei cani rabbiosi. Un mondo nel quale le tradizioni, le superstizioni e i riti religiosi davano un senso alla miseria e agli stenti.
È per un mezzo caso, mezzo non intero, che ho letto questo libro subito dopo quell’epopea monumentale de I fratelli Ashkenazi, ed è stato inevitabile che la storia di Jossel Wassermann sia finita nell’enorme cono d’ombra proiettato da quella costruzione grandiosa.
Non ha lo stesso respiro potente, non ha quella vastità sterminata, non ha la forza della Storia.
Ha però il gusto dolce della memoria che si preserva anche dopo la morte, anche quando le tracce terrene sono scomparse.
Questo è Jossel Wassermann torna a casa, una memoria che si tramanda, una storia piccola che il rabbino nasconde sul tetto del vagone piombato nel quale gli abitanti di Pohodna sono saliti, ordinati e mansueti, sapendo che li avrebbero condotti a est, forse in altre terre, forse in luoghi ricchi e ospitali, come dice qualcuno, o forse in luoghi con dei forni dove gli ebrei vengono bruciati, come ha sentito dire qualcun’altro.
Erano diretti a est. L’est è laggiù dove sorge il sole, anche se sorge per l’ultima volta.
Proprio così perchè la storia di Jossel Wassermann è abbracciata da un prologo e un epilogo con gli ebrei nei vagoni piombati fermi su un binario, sotto la neve per sei giorni, dai quali non arrivano più voci né rumori. Il settimo giorno, lentamente, il treno si muoverà, verso est.
Rimane il colloquio tra il rabbino e il vento, con la storia di Pohodna nascosta sul tetto, rimangono le voci che raccolgono le parole degli abitanti di Pohodna e quelle che scrivono le parole per la Storia. Rimane l’immagine onirica e fantastica di una storia che si conclude e la sua memoria che si conserva con le parole di Edgar Hilsenraht, un grande scrittore.
E il vento, lì fuori, sussurrò qualcosa all’orecchio del rabbino.
E il rabbino annuì e disse: “Sì, hai perfettamente ragione. I goyim sono degli stolti. Ora stanno saccheggiando le nostre case e scavando nei nostri giardini. E credono che abbiamo abbandonato tutti i nostri averi. E se la ridono sotto i baffi. Non sanno che il meglio lo abbiamo portato con noi».
«Che cos’è il meglio?» chiese il vento.
E il rabbino disse: «La nostra storia. Quella l’abbiamo portata con noi».
E il vento disse: «Ma rabbi, non può essere vero. La storia degli ebrei dello shtetl è rimasta laggiù».
«No» disse il rabbino. «Ti sbagli. Laggiù sono rimaste solo le tracce della nostra storia».
Ed era vero. Le tracce erano rimaste laggiù ma il tempo le avrebbe cancellate a poco a poco, e non sarebbe rimasto più nulla.
E così il rabbino disse alla voce sommessa del vento: «Laggiù abbiamo lasciato soltanto l’oblio, e abbiamo portato con noi la memoria».