2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Insieme ma soli – Sherry Turkle

INSIEME MA SOLI – Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri
Sherry Turkle
Traduzione di S. Bourlot e L. Lilli

Codice 2012

Bel saggio di Sherry Turkle, molto citato, molto elogiato, talvolta a sproposito in discorsi che vanno a parare da tutt’altra parte oppure, travisandolo, proprio da coloro verso i quali la critica della Turkle è più pungente. Quello che Turkle espone dà materiale per riflettere (dà anche materiale per fare gli ultras delle fazioni contrapposte, volendo, ma questo interessa di meno) su una società che cambia, forse più velocemente e più profondamente di quanto vogliamo ammettere. Il punto debole, comune a moltissimi saggi di questo tipo, è il procedere incessantemente per aneddoti ed esempi reali. Turkle ne cita decine. Tutti interessanti e rappresentativi, ma inevitabilmente perde di sintesi e quindi rimane nascosta sottotraccia la domanda fondamentale che è: Quanto sono già comuni nella società i problemi e le  situazioni a rischio di cui parla e quanto velocemente e diffusamente dobbiamo aspettarci che si propaghino?
Queste risposte non vengono date esplicitamente e quindi rimane, da un lato, la tendenza a generalizzare i casi che vengono discussi, senza sapere se però questo salto logico corrisponda a realtà o sia solo un effetto della malefica legge dei piccoli numeri; dall’altro lascia un vago senso di incertezza sulla solidità delle prove a sostegno delle tesi (che io, personalmente, condivido).
Detto questo, solo per stemperare eventuali reazioni eccessive, veniamo al libro e alla sua autrice.

Sherry Turkle è una psicologa, psicoanalista ed esperta di scienze cognitive, docente del MIT di Boston, che ha dedicato gran parte della carriera pluridecennale a studiare la teoria e indagare dal punto di vista clinico il rapporto tra persone e tecnologia.
Ovvero, come la tecnologia sia in grado di offrire nuove possibilità pratiche, orizzonti mentali e strumenti espressivi alle persone, ma anche come le persone vengano influenzate, plasmate e talvolta modificate dalle stesse tecnologie, nelle loro relazioni con gli atri, nella percezione di sè, nella propria emotività e capacità espressive.
Con questo libro, Insieme ma soli, indaga proprio questa faccia più oscura del rapporto tra persone e tecnologia: come la tecnologia agisce su di noi, spesso in modo poco evidente a una prima analisi, facendo leva sulle nostre vulnerabilità, fragilità e difficoltà emotive, relazionali e affettive.

Non si tratta certo di un tema nuovo. In molti e da tempo l’hanno riconosciuto e discusso. Heidegger, tanto per ripetere una delle citazioni più care a chi vuole vestire il mantello della cultura alta; ma anche, e secondo me soprattutto, ben chiaro fin dagli albori del marketing e della pubblicità, anni ’40 e ’50 del Novecento, quando gli elettrodomestici ebbero la diffusione di massa. Non si trattava solo di indurre bisogni artificiali per trainare le vendite; la rivoluzione fu di cambiare la società, cambiare le persone, toccare e plasmare le loro emozioni e convinzioni più intime attraverso oggetti tecnologicamente avanzati (rispetto all’epoca, s’intende), che arrivavano carichi di promesse, ma anche armati di una forza di persuasione e capacità di ottenere l’adattamento delle persone alle loro caratteristiche che risultò incontrastabile.
Se avete voglia (ri)leggete quella favolosa testimonianza del 1956 che è I persuasori occulti, di Vance Packard; come descrive il modo in cui venne creata e plasmata la figura della tipica casalinga americana attraverso l’introduzione degli elettrodomestici è emblematico.

Che gli effetti siano stati dirompenti è fuor di dubbio, il mondo, quello occidentale almeno, si è trasformato profondamente sotto la spinta dei prodotti tecnologicamente avanzati che a ondate sono entrati nella vita quotidiana di tutti, o quasi.
Le conseguenze sono state sia positive che negative.
Anche questo è fuor di dubbio.
Il dibattito rimane aperto sul bilancio complessivo, ma non è questo il punto né del libro né del mio commento.
Il punto è che oggi, le nuove tecnologie che stanno plasmando le persone e la società, la robotica e le tecnologie digitali sono quelle che Sherry Turkle discute, già hanno e ancor di più potranno avere un impatto dirompente; con conseguenze sia positive che negative.
Molte voci sono impegnate a cantare le (molto spesso presunte) conseguenze positive.
Ancora pochi e con maggiore difficoltà cercano di analizzare quelle negative, che sono presenti e lo saranno sempre; far finta di niente o minimizzarle per un riflesso tendente alla rimozione o per semplice superficialità o anche per pura convenienza ha solo l’effetto di lasciarci inermi e inconsapevoli nel subirle.

Insieme ma soli è diviso in due parti distinte e complementari.

Prima parte.
In questa prima metà di Insieme ma soli, Sherry Turkle racconta i trent’anni di esperimenti e osservazioni con bambini e adolescenti, soprattutto, ma anche con persone anziane, nel rapporto che si veniva a creare quando messi in contatto con robot sociali, ovvero oggetti tecnologici più o meno antropomorfi o simili ad animali domestici esplicitamente progettati per interagire sul piano emozionale e affettivo con le persone.

Turkle definisce immediatamente i termini del discorso con un aneddoto che suonerà scioccante a molti, per non dire oltraggioso o farneticante (a me suona farneticante): la sua conversazione con il giornalista David Levy del prestigioso Scientific American, durante la quale Levy l’attacca con foga rimproverandole che voler negare la possibilità che in futuro si celebrino matrimoni tra persone umane e robot equivale all’atteggiamento bigotto di coloro che vogliono impedire matrimoni tra omosessuali.
Il punto qui, ovviamente, non è l’opinione che si ha sul matrimonio tra omosessuali, ma l’equiparare un’unione comunque fondata su sentimenti profondi, sull’amore e sul senso di condivisione tra due esseri umani e quella tra un essere umano e una macchina.
A tanto è già arrivato il discorso attuale nei circoli dei tecnofili più fanatici e già prendere coscienza di questo è un ottimo punto di partenza visto che a molti, me compreso, probabilmente, non era del tutto chiaro che anche una tale barriera era stata infranta.

Da questo inizio che lascia alquanto turbati, Turkle prende le mosse per ripercorrere una lunga storia, poco nota ai non addetti e spesso molto americana, visto che pochi dei robot sociali di cui parla si sono visti dalle nostre parti.
Questo naturalmente non toglie nulla alla rilevanza del suo discorso anche pensato rispetto la nostra società italiana ed europea.

ELIZA è il primo esempio notevole che descrive. Si tratta di uno dei primi esperimenti di intelligenza artificiale realizzato negli anni ’70. Era un programma, un software, progettato per interagire con una persona attraverso domande o frasi che simulassero una conversazione umana. Il sistema era sofisticato per l’epoca, tuttavia ancora molto limitato nelle sue funzionalità, trattandosi di un insieme di regole di analisi lessicale che cercavano di interpretare la frase scritta dalla persona per produrre una risposta di senso compiuto che, a sua volta, stimolasse a proseguire nel dialogo e così via.
Ovviamente il più delle volte le risposte erano solo apparentemente di senso compiuto, ovvero non c’era alcuna reale interpretazione del significato di quanto scritto dalla persona, né tanto meno alcuna forma di partecipazione emotiva, ma solo l’individuazione di alcuni termini e la costruzione di una risposta genericamente sensata.
Quindi, era noto a tutti che si trattava di un programma software funzionante sulla base di un (relativamente) semplice insieme di regole predefinite.

Ciò che emerse, e fu causa di profondo turbamento per l’autore di ELIZA, fu che nonostante tutto, diversi studenti presero a interagire con ELIZA come se stessero effettivamente parlando a un interlocutore reale, quasi come fossero in un confessionale. Esprimevano pensieri intimi, rivelavano problemi esistenziali, si aprivano, emotivamente, sapendo di interagire con una macchina, con un programma. Era come se considerassero l’interlocutore contemporaneamente macchina e umano.

Questa esperienza si replicò, moltiplicando gli effetti e il coinvolgimento, in tutti i successivi casi di esperienze con robot sociali più sofisticati. Come se fossero sia macchine sia umani e tanto più erano progettati per richiedere cure, suscitare affetto ed esprimere con parole pre-registrate o movimenti meccanici sentimenti simulati di amore o dolore, tanto più l’effetto risultava potente.

Come osserva Turkle: “Siamo esseri che istintivamente tendono ad amare chi ci ama e chi di cui ci prendiamo cura e ci sentiamo responsabili.
La scoperta in buona parte sconvolgente è che questo non solo avviene con le persone o, al limite, con esseri viventi come gli animali domestici, ma avviene anche con macchine, robot, i quali simulano, in modo grossolano, evidente, perfettamente noto a tutti i soggetti considerati, alcune reazioni tipiche di un essere vivente, umano o animale che sia.

Tamagotchi

Il Tamagotchi degli anni ’80 fu uno di questi esempi. Una sorta di animaletto digitale animato all’interno di un piccolo schermo a cristalli liquidi che doveva essere nutrito, pulito, curato come fosse un animale domestico, altrimenti moriva.
Non si poteva spegnere o mettere in pausa.
Per quanto possa ora apparire ridicolo (e ricordo che anche all’epoca tale mi apparve, visto che ormai avevo superato l’età per la quale era destinato), la storia del Tamagotchi è da prendere seriamente, perché fu un successo e lo fu nei termini voluti: l’animaletto digitale suscitò sentimenti ed emozioni simili a quelli di un animale reale, solo molto più frenetici per il ciclo di vita e le esigenze che manifestava che scorrevano più rapidamente.
La morte di un Tamagotchi era causa di ansie, sensi di colpa e dolore reale per molti bambini dell’epoca, ma ancora più sorprendente, suscitò un senso di identificazione molto simile a quello di un animale domestico reale.
Un Tamagotchi morto sovente non veniva resettato per farlo ripartire (cosa possibile), ma veniva trattato da animale defunto: a volte seppellito e sostituito (molti genitori furono costretti a inscenare cerimonie funebri e a  comprarne uno nuovo), quando i bambini non si rifiutarono addirittura di averne altri, per il rimpianto del loro animaletto che non avevano accudito sufficientemente.

Dal Tamagotchi formato portachiavi si passò a bambole robot, MyRealBaby, gufetti, Furby, cuccioli di foca, Paro, e cani, Aibo della Sony, l’unico, credo, che si sia visto, magari solo per qualche articolo o servizio in televisione, anche dalle nostre parti.

MyRealBaby

MyRealBaby

Furby

Furby

Infine, gli esempi più sofisticati di cui discute Turkle, i prototipi Cog e Kismet del MIT con capacità interattive molto più sviluppate.

Paro

Paro

Aibo

Aibo

Tutti hanno ricalcato ed enfatizzato quel primo effetto testato da ELIZA – la simulazione di un comportamento cosciente, sotto forma di parole che sembravano essere in grado di apprendere e usare con senso compiuto – e quello del Tamagotchi – le reazioni che sembravano emotive o dovute a funzioni vitali e a un apparente sviluppo che necessitava di cure, insegnamenti, affetto, amore.

Cog

Cog

Kismet

Kismet

(Nota: scusate per le foto messe così in fila, c’ho provato ad affiancarle ma si impasticciava tutto col testo, forse non ho capito come si fa.)

Ciò li ha resi fondamentalmente diversi da giochi o bambole tradizionali, sui quali i bambini proiettano le loro fantasie e con quelle danno loro senso, facendoli parlare o muovere all’interno di storie immaginarie. Con questi robot sociali invece c’è la simulazione di un essere dotato di una simil-vita autonoma, comprensiva di richieste di cure e di affetto e in definitiva un’apparente autonomia.

Sembrano vivi abbastanza” è la frase che Turkle riporta spesso a testimonianza di questo rapporto completamente nuovo che suscitarono, sembrano vivi abbastanza da essere considerati come se fossero sia macchine inanimate che esseri viventi.

E da questa capacità di suscitare empatia e identificazione sono nate le ipotesi di utilizzare tali robot per scopi sociali, da sostituti di baby sitter se non di amici coi quali giocare per i bambini, a sostituti di assistenti sociali e parenti per gli anziani nelle case di riposo.
Fu un salto di scala netto e potenzialmente rivoluzionario rispetto ai giochi e alle bambole.

Di nuovo, però, occorre non perdere il punto di vista dell’analisi di Sherry Turkle che non è quello di discutere se e come questi robot sociali possano sostituire efficacemente, parzialmente o in tutto, la figura umana, cosa manchi ancora loro o quali innovazioni tecnologiche siano necessarie.
Turkle parla di noi, delle persone, il suo sguardo è rivolto agli esseri umani, dei quali sempre i tecnologi, gli ingegneri o gli informatici si dimenticano e trascurano.
In che modo noi, i nostri bambini, i nostri anziani veniamo modificati e ci lasciamo plasmare quando il rapporto con una macchina, un robot, un algoritmo, diventa così coinvolgente?
E perché?

Le risposte che dà non sono confortanti.
Non sono le macchine ad elevarsi al nostro livello, sì certo, un po’ lo fanno, simulandolo, ma siamo soprattutto noi ad abbassarci al loro.
Siamo noi a robotizzarci, a renderci compatibili alla macchina per poter provare empatia e affetto. Artificiosi, simulati, deumanizzati.

“Meglio che niente.”
Questa è la motivazione principe.
Meglio il gufetto robot che piange e strepita se viene trattato in malo modo e dice “Ti amo” se viene carezzato, piuttosto che lasciare il bambino solo a casa o con una baby sitter poco affidabile.
Meglio la foca robot che esprime comportamenti da cucciolo amorevole che la solitudine apatica dell’anziano nella casa di riposo o i sensi di colpa dei figli per non essersene presi cura a sufficienza.
Meglio che niente.
Ma, osserva Turkle, il “meglio che niente” vale solo all’inizio, poi qualcosa cambia quando si instaura quel rapporto empatico.
Anzi, molto cambia.
“Meglio di una baby sitter poco attenta”, “meglio della televisione”, “meglio dei pericoli della città”, “meglio di quegli amici là”, “meglio di quell’infermiera scortese”, “meglio di …”
Meglio di qualunque alternativa, questo diventa alla fine.
Questo è ciò che si rischia e che è già successo spesso.

Di nuovo, le motivazioni sono spesso argomentate con un senso di inevitabilità.
“Mancano le persone” per accudire gli anziani o “Mancano le strutture” per accudire i bambini.
“Meglio un robot che niente.”
Questa argomentazione è tipica, ma è anche tipico il trucco retorico che nasconde, ovvero presentare la scelta come inevitabile, dovuta a forza maggiore, non oggetto di possibili discussioni.
Cosa che evidentemente non è.
Mancano le persone per prendersi cura degli anziani, perché farlo è considerato uno dei mestieri più umili e quindi peggio retribuiti e peggio tutelati.
Mancano le strutture per accudire i bambini, perché i fondi pubblici sono deviati altrove o quelli per il sostegno ai genitori azzerati.
Mancano gli affetti, perché i genitori scelgono la carriera oppure non hanno l’opzione di avere maggiore tempo libero, lo stesso i figli nei confronti dei propri anziani genitori.

L’inevitabilità è in realtà frutto di scelte, a volte personali, più spesso politiche e sociali.
Il tema quindi, se inquadrato correttamente, non è tecnologico, è prima di tutto sociale e politico. Si tratta di scelte, non di colmare buchi con delle macchine.

Credo che abbia ragione Turkle nel richiamare la tradizione psicoanalitica che vede l’effetto provocato dai robot sociali come il tipico sintomo di un problema rimosso, non affrontato esplicitamente, ma coperto dalla reazione, dall’empatia che si genera, dall’autoriduzione, parzialmente cosciente, al livello grossolano della macchina.
E i problemi rimossi sono evidenti e riconosciuti da molte indagini. I bambini negli ultimi decenni hanno subito un impoverimento drammatico delle loro relazioni sociali, sia nei confronti dei genitori che dei coetanei, il tempo del gioco è diventato sempre meno spontaneo e sempre di più isolato, le famiglie spesso sono disgregate o i genitori assenti, carenti nell’affetto, insicuri, stressati, distanti, se non apatici o violenti.
Lo stesso vale per gli anziani, isolati, privi di rapporti sociali, le famiglie estese o la rete di protezione del quartiere o del paese sono scomparse.

Quindi, e questo è il punto critico che Turkle colpisce, le macchine, i robot sociali, gli algoritmi che simulano emotività , comprensione e umanità, in realtà sono tanto più efficaci quanto più riescono a penetrare e sfruttare le nostre vulnerabilità, le nostre debolezze, paure, insicurezze, frustrazioni, bisogni esistenziali insoddisfatti.

È un effetto che ha un potenziale di pericolosità enorme e pochissimo compreso, le cui conseguenze sul lungo periodo sono ad oggi sconosciute.
E se qualcuno ha pensato che ciò che viene descritto riguarda casi sporadici, situazioni sociali estreme o troppo futuristiche, credo farebbe bene ad esercitare il vecchio principio di precauzione.
L’Italia è il secondo paese al mondo, dopo il Giappone, per anzianità media della popolazione e soffre di cronica carenza di supporto alle famiglie e strutture per l’infanzia.
Stiamo inoltre correndo a rotta di collo verso un’americanizzazione della società: famiglie disgregate, orari estesi di lavoro, tecnofilia dilagante.
La tecnologia, in un impasto di provincialismo e di supponenza, viene costantemente invocata acriticamente per i suoi vantaggi e ipocritamente per evitare di affrontare i problemi sociali che con essa si vorrebbe celare.
Siamo candidati perfetti, ci salva solo la nostra atavica inconcludenza e disorganizzazione per non finire come la Corea del Sud (da alcuni idealizzata come paradiso della tecnologia digitale) che ha previsto per il 2020 di affidare ogni anziano degente in case di riposo alle cure di un robot, e per i quali, i robot intendo, si discute una sorta di carta dei diritti affinché non subiscano maltrattamenti o assalti.
Anche in Gran Bretagna, pragmatica e tecnofila, si sta già discutendo ufficialmente di presunti diritti dei robot, per non dire del farneticante giornalista del Scientific American, un tempo rivista emblema di rispettabilità scientifica, citato all’inizio.

Meglio cominciare a prestare attenzione.

Seconda parte.
La seconda parte del libro è dedicata ai nostri moderni dispositivi elettronici, smartphone in primo luogo, che ci mantengono costantemente connessi a Internet.
In precedenza ho detto che è complementare alla prima, perché Turkle ha mostrato come la tecnologia, sotto forma di robot sociali, agisce sulle vulnerabilità umane inducendo le persone ad auto-ridursi al livello grossolano dei robot con le loro emozioni simulate per riuscire a provare empatia, coinvolgimento e amore.
Nella seconda discute invece come la vita sempre connessa a Internet, incanalata negli smartphone o mediata da uno schermo di un computer, un social network come Facebook o Twitter, induce un’sentimento di intimità artificioso, sterilizzato dai germi dei rapporti umani intesi nella loro interezza, contraddittorietà e ricchezza, costruisce una capsula di sicurezza che allontana il senso di rischio che sempre più sembra minare l’espressione di sè verso gli altri quando è presente il contatto fisico (voce, sguardi, presenza).

Quindi, da un lato auto-riduzione di sè al livello dei robot per riuscire a provare empatia, affetto e amore, dall’altro auto-riduzione del senso di intimità a quello mediato e artificioso simulato dalle tecnologie di comunicazione digitale per alzare uno scudo contro il coinvolgimento che i rapporti umani possono comportare.

Analogamente a quanto osservato prima, non si tratta di un argomento nuovo; altri autori lo hanno affrontato da angolature diverse e focalizzandosi su criticità varie. In molti casi possono essere certamente riscontrate premonizioni apocalittiche non fondate oppure note pessimistiche eccessive, tuttavia, credo, che un tratto comune e oggettivo sia che esistono già e sono sotto gli occhi di tutti molti elementi che giustificano un’analisi critica.
Tra quelli che conosco e che ritengo buone letture, ricordo: Tu non sei un gadget di Jarod Lanier, Internet ci rende stupidi? di Nicholas Carr, L’ingenuità della rete di Evgeny Morozov e Il filtro di Eli Pariser.

È uno scenario complesso e che turba, innegabilmente, verso il quale siamo, credo, portati a minimizzare, giustificare (i ritmi di lavoro, gli impegni familiari, lo svolgimento contemporaneo di più azioni o comunicazioni, etc.).
Tuttavia, di nuovo, solo parzialmente si tratta di imposizioni ambientali, cause di forza maggiore.
Sherry Turkle elenca decine di casi ricavati da interviste e incontri, con adolescenti e adulti, studenti, figli, genitori, professionisti, dai quali emerge tutta la contraddittorietà e ambiguità del quadro reale.

L’iperconnessione va di pari passo con l’isolamento sociale e l’impoverimento drammatico dei rapporti umani e familiari.
Eloquenti sono le testimonianze, sia di adolescenti sia di adulti, che spiegano il crescente imbarazzo, quasi ostilità, nei confronti delle telefonate rispetto i messaggi di testo (e-mail, instant messages, SMS), in parte giustificati dalla frenesia degli impegni e della scarsità di tempo, ma soprattutto dovuti al coinvolgimento, emotivo e personale, che una conversazione a viva voce comporta rispetto a uno scambio testuale.

“Non so cosa dire”, “Non so mai come concludere la telefonata”, “Non riesco a riflettere bene su come rispondere”, “Telefonare è intrusivo”, queste sono alcune delle frasi che vengono ripetute.
La crisi dei rapporti umani, questo emerge, e di nuovo le tecnologie che si inseriscono e soddisfano appieno questo sintomo di difficoltà fornendo una comoda coperta.

Sono molti altri gli aspetti considerati nel saggio, dall’esplosione del multitasking (il sempre maggiore senso di necessità di fare più cose contemporaneamente, in una frenesia dell’agire spesso incontrollata), l’isolamento e l’estraniamento indotto dai giochi online, la dissociazione provocata dai mondi virtuali nei quali vite virtuali, a volte più di una, vengono condotte attraverso avatar che instaurano relazioni sintetiche con altri avatar (matrimoni, sesso, professioni, ideali… l’intero arco di una esistenza in materiale sintetico), l’identificazione quasi corporale con il proprio smartphone, visto come custode ed espressione della propria esistenza, se non addirittura un’appendice di sè, fisica e mentale.

Un esempio che fa Sherry Turkle, banale ma che mi ha sorpreso per la sua evidenza che non avevo colto, è quello di Skype e del contatto che si stabilisce con lo sguardo.
Il contatto con lo sguardo tra due persone è uno dei meccanismi più ancestrali, innati e potenti di noi tutti. È spesso la prima forma di contatto tra sconosciuti, quella che segnala interesse reciproco, e la forma di contatto profondo e intenso tra persone che condividono un reciproco affetto e amore. Guardarsi negli occhi è un mezzo di comunicazione innato e coinvolgente.
Pensiamo a Skype ora e alla possibilità della videochiamata attraverso la telecamera del computer o dello smartphone.
Certamente è un arricchimento, almeno potenziale, rispetto alla sola voce, ma è anche più ambigua della semplice telefonata, perché manca qualcosa di importante ma in maniera meno evidente della conversazione telefonica: il contatto tra gli sguardi.
Con una videochiamata simuliamo soltanto di guardarci; quando diciamo “Guardami”, in realtà guardiamo il cerchiolino della telecamera, non guardiamo l’altra persona negli occhi e l’impressione che possiamo avere di guardarci negli occhi è trucco che il nostro cervello mette in atto per stimolare l’empatia, ma il nostro istinto più profondo, i nostri sensi, quelli che sono in grado in una folla di intercettare uno sguardo che ci fissa, quelli che incrociando una persona sconosciuta con la quale ci si scambia un’occhiata prolungata scatenano una reazione viscerale che ci fa sentire quella persona mai vista prima come diversa dagli estranei che ci circondano, insomma, tutta questa parte che rappresenta noi stessi, non c’è e noi lo percepiamo.

Tutti questi aspetti sono già presenti e radicati nella nostra società digitale, ma solo ora si sta iniziando a osservare gli effetti meno evidenti, quelli che si ritorcono contro gli individui.

Decisamente interessante di questo saggio è l’analisi che emerge dei cosiddetti “nativi digitali“, le persone nate quando già le tecnologie digitali erano affermate e che quindi da un lato non hanno vissuto la transizione da un mondo che ne era privo al mondo attuale, dall’altro ne hanno naturalmente acquisito grande familiarità e senso di inevitabilità.
Dei “nativi digitali” molto si è detto, spesso in termini trionfalistici come la generazione che sarà spontaneamente in grado di sfruttare e apprezzare il potenziale innovativo delle tecnologie digitali essendo priva delle incrostazioni e degli attriti delle generazioni precedenti.
Una delle solite immagini idilliache stereotipate e ottuse dei tecnofili più fanatici.

Quello che invece emerge dall’analisi di Turkle, e che in fondo, adoperandosi per ragionare con maggiore pacatezza e lucidità si poteva intuire, è che alcuni valori fondamentali, intrinseci nella natura umana, come il senso di autenticità dei rapporti interpersonali, la ricchezza dei rapporti diretti con le persone, il senso di abbandono e di isolamento che rapporti sempre mediati da qualche oggetto comporta, la necessità di momenti di solitudine per la riflessione personale che l’iperconnessione tende a cancellare, i sentimenti di amicizia, condivisione e amore più forti, tutti questi non sono rimpiazzabili dalla loro versione sintetica e artificiosa dei mondi virtuali e dei rapporti veicolati attraverso tecnologie digitali.
Alla fine, magari in modo inconscio, frutto di disagio e malessere, la necessità fondamentale di recuperare e godere di rapporti personali reali, diretti, non mediati, non resi asettici, non artificiosamente codificati da strumenti tecnologici riemerge potente.

Quindi, parlando di “nativi digitali”, forse, piuttosto che essere la prima generazione capace di adattarsi a un mondo felicemente digitale onnicomprensivo come quello immaginato da tecnofili visionari, sarà la prima generazione che si rivolterà contro l’aridità proprio di quelle visioni tecnocentriche che ne volevano fare i loro soldatini di plastica.
È un augurio, mio, espresso in questi termini, ma anche di Turkle nella sostanza.

Nel finale del libro, Sherry Turkle non risparmia una stoccata a un autore simbolo dei tecnofili fondamentalisti, quel Kevin Kelly cofondatore di Wired, la bibbia della tecnofilia digitale, che ha pubblicato un testo intitolato Quello che vuole la tecnologia, la cui conclusione, degna di un film horror per chi ancora si salva dall’ossessione tecnologizzante, suona così: “Man mano che la tecnologia evolve, sempre più ci mostra cosa “vuole”. Pertanto, per vivere pacificamente con la tecnologia, dobbiamo sforzarci di fare del nostro meglio per adeguarci e accontentare (“accomodate”, nel testo originale) ciò che vuole, sapendo che, comunque, ciò che vuole se lo prenderà.

La stoccata di Turkle in realtà non si basa solo sull’elegia tecnofila del libro di Kelly, ma anche su un post del blog KK dell’autore intitolato proprio Technophilia. Kelly cita Sherry Turkle e il suo lavoro di analisi trentennale così come Jarod Lanier quando osserva: “Ci rendiamo stupidi al fine di far apparire intelligenti i computer. Io non mi preoccupo dei computer se diventano sempre più intelligenti, mi preoccupo degli esseri umani che diventano sempre più ottusi.

Kelly cita tali critiche ma gira alla larga da esse, non presenta alcun argomento diretto per confutarle, non ribatte con una controanalisi basata sugli stessi elementi, ma esaspera ancora di più i toni apodittici e corrivi, finendo per intonare una specie di salmo in adorazione del dio Internet fino alla chiosa finale, degna di un santone di una qualsiasi setta di fanatici: “And this is as it should be because technology wants to be loved.” (“E questo è come dovrebbe essere perchè la tecnologia vuole essere amata“).

In tutti i modi, può essere che Kelly abbia ragione e con lui tutti i tecnofili fanatici e quindi sia inutile analizzare criticamente e rifiutare di adeguarsi o accontentare tecnologie che sono tanto più efficaci e dirompenti quanto più sfruttano le vulnerabilità e le debolezza umane; che abbia ragione anche il più visionario dei tecnofili fanatici, quel Ray Kurzweil de La singolarità è vicina che profetizza con un certo piacere orgasmico il giorno nel quale le macchine, i robot, i computer diventeranno più intelligenti degli uomini e da lì avrà inizio la grande era dell’intelligenza sintetica digitale.

Può essere così come dicono, ma forse è molto meno probabile di quanto costoro immaginano nelle loro visioni scarnificate della realtà e ipersemplificate secondo la tipica castrazione intellettuale di molti tecnologi che, in fondo, nonostante l’aria lieta e gioiosa che tipicamente assumono (autentica come la campagna del Mulino Bianco) a me non sembrano in grado di fare altro che rappresentare una lugubre e grottesca messinscena di pupazzi con i fili, che si muovono a scatti e ciondolano le gambette inerti, convinti che quei burattini siano le persone, gli esseri umani.

Come scrisse Rober Hughes nel 1995 e riportato dal New York Review of Books, da quel grande critico d’arte e mente lucida che fu, a proposito della televisione: “Un avvertimento a proposito della TV fu lanciato duemila anni prima che venisse inventata dal poeta romano Ovidio. Video meliora proboque: deteriora sequor. «Vedo cose migliori e le approvo: poi scelgo il peggio.» Ciò andrebbe scolpito su tutti gli apparecchi televisivi in America.

Forse è tempo di aggiornare l’osservazione di Hughes ai nuovi media digitali e scrivere Video meliora proboque: deteriora sequor anche su tutti gli schermi della nostra vita iperconnessa.

Note:

1) Un commento interessante (in inglese), più critico circa alcuni aspetti del saggio, in particolare un certo tono nostalgico e stereotipato riguardo la vita reale, ma meno descrittivo è quello di Nathan Jurgenson su New Inquiry.

2) In italiano, ho trovato una recensione, lunga e descrittiva, pubblicata da Wired Italia e opera di Matteo Bittanti (prima parte e seconda parte).
Premetto che personalmente, per quanto sia indubbiamente ben argomentata, non l’ho apprezzata particolarmente e vi spiego perché.

Primo, l’autore, almeno secondo il mio gusto, si lascia un po’ troppo andare al birignao accademico da esperto di media digitali, oltrechè inserire diverse autocitazioni e riferimenti personali che trovo inopportuni nel commento a un libro.

Secondo, forse per un comprensibile senso di cordialità nei confronti dell’ospite Wired Italia, Bittanti evita di accennare alle stoccate che Turkle tira esplicitamente a Kevin Kelly e implicitamente, ma neanche tanto, proprio a Wired e al ruolo che storicamente ha sempre avuto di rivista di riferimento per i tecnofili digitali più convinti (indimenticabile è la proposta che avanzò Wired Italia di assegnare il Premio Nobel per la Pace a Internet). Questa omissione è alquanto bizzarra, non solo per la sua evidenza, ma soprattutto pensando ai lettori di Wired Italia e della recensione di Bittanti, i quali, penso, saranno indotti proprio ad agire secondo il Video meliora proboque: deteriora sequor meravigliosamente scandito da Ovidio.

Terzo e a mio parere più serio motivo di contrarietà, Bittanti afferma: “E l’enfasi su una non precisata nozione di autenticità è fuorviante: tutte le nostre performance sono “autentiche”. In questo momento, per esempio, sto performando il ruolo del collaboratore di Wired che vive a San Francisco e che si interessa di new media. Tra un’ora circa performerò il ruolo di docente universitario che descrive le logiche di funzionamento delle culture visuali a una ventina di studenti. Terminata la lezione, performerò il ruolo dello spettatore cinematografico che frequenta una sala indipendente su Fillmore perché si interessa di cinema alternativo e che lascerà probabilmente un commento su mubi.com. E così via. Tutte queste performance sono reali e autentiche e rappresentano frammenti di quella costellazione di performance associate a un particolare soggetto. Sono briciole degli aspetti personali che ho deciso di presentare e condividere con il mondo, anzi, con i mondi. Alcune di queste performance si svolgono nella dimensione digitale, altre in quella tangibile, concreta e im-mediata.

Io ritengo che invece sia tale commento a essere molto fuorviante, perché adotta la tecnica retorica di decontestualizzare il discorso citato per portare la conclusione dalla parte opposta rispetto a quella alla quale arriva Sherry Turkle. In altre parole, Bittanti dice che tutti noi, continuamente recitiamo (lui dice “performerò”, sic) ruoli sociali diversi a seconda delle situazioni e del contesto e tutti sono reali e autentici (salvo, aggiungo io, casi patologici di dissociazione grave).
Questa osservazione di Bittanti è condivisibile, un’ovvietà, direi.

Però poi esegue il salto logico dovuto alla decontestualizzazione asserendo che, quindi, se il contesto è reale (lui si incarta un po’ nelle parole e per non dire “reale” dice “tangibile, concreta e im-mediata”, sic#2) o digitale non cambia l’autenticità del soggetto, il quale comunque, posto in contesti differenti presenterà sempre una faccia, delle parti di sè.

Andrebbe bene se non fosse che Turkle parlava di altro e il significato di autenticità era del tutto diverso e perfettamente motivato nel discorso originale. Ovvero, Turkle distingueva tra quelli che sono situazioni, contesti e rapporti reali, cioè non mediati da un medium tecnologico che disconnette le persone da un’interazione diretta (e quindi tutti i casi che Bittanti chiama tangibili, quando insegna a una classe, va al cinema con gli amici o, nel discorso di Turkle, anche quando si conversa al telefono essendoci comunque un contatto vocale) dai casi nei quali la comunicazione, la conversazione è asincrona e completamente mediata tra due persone o addirittura avviene tra una persona e un oggetto artificiale, un robot, un algoritmo, un avatar.

Questi secondi casi Turkle li definice mancanti di autenticità, sintetici, artificiosi, nei quali è avvenuto un abbassamento dell’espressività delle persone per livellarsi ai limiti della tecnologia.
E quindi, contestualizzato nel discorso di Turkle, l’affermazione di Bittanti, “Quello che facciamo online è reale quanto quello che facciamo offline“, è falsa e fuori bersaglio.

Quarto, Bittanti commenta con un certo stupore il pessimismo di Sherry Turkle: “Anticipo che le conclusioni di Turkle sono impregnate di un sobrio realismo e da un lucido pessimismo in gran parte assente nelle conversazioni sui new media. Singolare, considerando che nei primi anni Ottanta, Turkle aveva guardato alle nuove tecnologie della comunicazione con grande entusiamo. In un certo senso, Insieme ma solirappresenta una svolta radicale: pur non sconfessando i precedenti lavori, questo saggio solleva importanti domande su fenomeni assolutamente aberranti che oggi accettiamo come “normali” […].

Quello che sorprende non è il cambio di opinione di Sherry Turkle, quanto la singolarità che rileva Bittanti visto che Sherry Turkle si premura di spiegare con dovizia di particolari e spiegazioni dettagliate il suo percorso intellettuale che l’ha portata dall’ottimismo delle sue prime analisi trent’anni fa all’attuale pessimismo. C’è scritto tutto nel libro, a meno che uno non consideri singolare che una persona cambi anche radicalmente opinione sugli effetti della tecnologia nel corso di trent’anni.

2 commenti su “Insieme ma soli – Sherry Turkle

  1. paolo subioli
    7 settembre 2013

    Trovo questo articolo ben fatto e molto utile, grazie. E’ raro trovare, in italiano, commenti esaurienti ad autori come Sherry Turkle, addirittura argomentati con confronti con Kevin Kelly.
    Si sta facendo strada una schiera di autori “tecnoscettici”, tra i quali Turkle viene in genere annoverata, ma tale schematizzazione mi pare riduttiva. Anch’io prima ero un entusiasta di internet, sono ancora abbonato a Wired e ancora mi piacciono tantissimo molti aspetti di queste tecnologie. Ma ben venga gente come Sherry Turkle, che ci avverte che dobbiamo stabilire con questi oggetti un rapporto più consapevole, per non esserne prima o poi sopraffatti.

    • 2000battute
      7 settembre 2013

      Grazie Paolo per il commento. È ancora più raro trovare chi, come te, riesce a essere equilibrato nella valutazione e vedere gli aspetti positivi sia delle nuove tecnologie sia delle analisi critiche. Sono indispensabili entrambi e riuscire a tenerli insieme in un quadro complessivo è difficile.

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Questa voce è stata pubblicata il 22 agosto 2012 da in Autori, Codice, Editori, Turkle, Sherry con tag , , , , , , .

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