«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
NARCOPOLIS
Jeet Thayil
Traduzione di V. Mingiardi
Neri Pozza 2012
È con una certa titubanza che scrivo questo commento a Narcopolis, di Jeet Thayil, romanzo molto recensito e ben pubblicizzato, del quale ho sentito l’intervista all’autore a Farhenheit di Radio3 e sono rimasto incuriosito quando raccontava del prologo composto da un unico periodo di sei pagine, scritto in quel modo proprio per introdurre il lettore ai ritmi lenti e ovattati delle fumerie d’oppio indiane e dell’atmosfera notturna del libro.
Sono titubante perchè effettivamente quello è un bel prologo, le atmosfere sono davvero notturne, a volte sepolcrali o da discarica di immondizia e c’è un bel personaggio, Dimple, l’eunuco, castrato e amputato con un bambù affilatissimo all’età di otto anni, viene detto, nè donna nè uomo, ma creatura bellissima e delicata che attraversa la storia sussurrando, con movimenti lenti, offrendo piacere e lentamente morendo.
Però ci sono anche momenti di vuoto letterario che annoiano, lunghi camminamenti di raccordo e peregrinazioni utili solo come riempitivi, un paio di sbandate ingenue dell’autore che non si trattiene da saltare nella storia con scarponi infangati e parecchie strizzatine d’occhio e manovre tattiche per esaltare la rinomata esoticità di un racconto indiano, insistendo fino allo sfinimento con nomi intraducibili (di spezie e cibarie, di bevande, epiteti e motti popolari), tanto che in certe pagine l’affollamento di termini esotici produce quella cantilena soporifera tipica dell’incomprensibilità.
Nel finale poi il tono si fa a tratti morboso nel colorare la spirale di devastazione, della vecchia società indiana, poverissima e ghandiana, che si sgretola, prima nella violenza etnica e religiosa, poi nella modernità consumistica; e del destino dei protagonisti che sprofondano dai fumi misticheggianti e meditativi dell’oppio al disfacimento disumanizzante dell’eroina e delle droghe sintetiche.
La storia si colloca a Bombay, anni ’70 o ’80, in Shuklaji Street, strada di bordelli, bugigattoli e fumerie d’oppio frequentata da malavitosi e trafficanti locali e hippy o altri occidentali alla deriva.
È qui che Dimple si guadagna da vivere nel bordello, anzi vive nel bordello, prima di trasferirsi nella fumeria, il khana, di Rashid come huqqua bardar, il servo che si occupa della pipa ad acqua per fumare l’oppio. Non odia gli uomini, neppure li ama. È sola, distante da tutto.
Disse che gli uomini, indipendentemente dalle loro preferenze sessuali, avevano più cose in comune con i loro simili che con le donne. Era possibile che avessero più caratteristiche in comune con i maschi di altre specie, con gli scimpanzè, le capre e i cani – in particolare i cani, come mi aveva già spiegato – che con le donne.
Dimple viene presentata in questo modo, che farebbe immaginare una certa direzione: lei, l’eunuco, più bella di tutte le altre donne, montata da uomini che sono come cani eccitati etc.
E invece no, Thayil fa una finta, il personaggio di Dimple è delicato e leggero, chiuso nella sua diversità più che vittima degli uomini, sembra sbocciare ma non riesce a schiudersi, si ripiega, si avvita e sprofonda, silenziosa come sempre, un fantasma che si dilegua scarnificato dalle droghe.
È il personaggio più bello, acquerellato, anche quando viene usato come oggetto sessuale; evoca immagini di penombre calde e odorose mentre prepara con la necessaria lentezza e pazienza la pipa per l’oppio da servire ai clienti della fumeria, come le ha insegnato Mr. Lee, il suo maestro cinese; emana candore, è fonte di purezza, un po’ puttana santa, in mezzo al lercio umano e al mondo che sgocciola melma fetida.
[…] osservavo la donna, fissavo Dimple, e qualcosa nel modo tranquillo in cui preparava la pipa mi calmava, il modo in cui intingeva l’ago per cuocere l’oppio in una piccola pyali d’ottone con il bordo alto e piatto, la pyali grande come un ditale, piena fino all’orlo di melassa, un liquido con il colore e la consistenza dell’olio, e roteava la punta dell’ago nell’oppio, poi lo sollevava sulla lampada dove crepitava e s’induriva […]
A volte lo è fin troppo un giglio che spunta dalla merda, Thayil calca la mano, insiste, si fissa nel voler far emergere Dimple come l’essere puro, senza legami, senza sesso, senza vita, senza cultura, un foglio bianco immacolato destinato al martirio.
Attorno a lei ruotano, chi più chi meno, gli altri personaggi dall’umanità dolente e tossica, alcuni compaiono e scompaiono, altri persistono, ma tutti sono infine travolti dall’India e dalla Bombay macilenta, anti-bollywoodiana, corrotta, violenta, drogata marcia; un’India caoticamente urbana ma anche paludosa, di acquitrini morali covo di malattia e perversione, mai gioiosa, opprimente, con un senso di epidemia strisciante che finirà per corrodere tutti quanti.
È un’India che vorrebbe essere autenticamente indiana, ma che si rivela molto occidentale, da apocalissi della civiltà contemporanea e in questo l’autore sbanda clamorosamente con un richiamo, tanto inutile quanto stonato, all’atmosfera cupa e piovigginosa di Blade Runner: l’obsolescenza pianificata degli umanoidi che sono destinati a una morte sintetica accelerata, macchine che bruciano il loro tempo di vita in una fiammata: sono i protagonisti drogati di Narcopolis che si spengono uno dopo l’altro, rantolando, cercando di resistere, uccidendo il loro stesso creatore psicotropo che non può evitare loro la fine.
L’immagine è anche affascinante, ma nonostante sia uno dei personaggi a riflettere, si sente la voce fuori campo dell’autore che rivela il suo riferimento per l’atmosfera paludosa del libro.
Non avrebbe dovuto farlo, è come in quei film dove in un’inquadratura si scorge il microfono, è un peccato mortale.
Il secondo peccato mortale Thayil lo compie volendo rivelare i suoi riferimenti letterari e per far questo usa Dimple che, in modo assolutamente inverosimile, in una delle sue ultime battute, da analfabeta che era, dopo aver imparato a leggere da autodidatta, arriva addirittura a dichiarare di voler parlare di Burroughs, Baudelaire, Cocteau e de Quincey in quanto storici del male. Come prima, la voce fuori campo dell’autore suona forte e chiara, ma l’effetto è quello di un clacson strombazzante pigiato da un burino.
Insomma, Narcopolis secondo me non è un gran libro, sopravvalutato a vedere le recensioni che ha avuto, però non è neppure del tutto male, da qui la titubanza di cui dicevo all’inizio.
Poteva essere molto meglio, soprattutto se il personaggio di Dimple fosse stato fatto crescere di più, dandogli maggiore continuità invece di affondarlo a un certo punto del racconto e magari affiancandogliene un altro.
Ecco, se Thayil avesse raccontato meglio e di più una storia tenendo salda la presa senza mollarne i fili a penzoloni, forse sarebbe stato meglio. Invece ha voluto dire troppe cose di contorno su quello che di brutto succede nel mondo, ha fatto sentire la sua morale e anche mostrato la sua vanità, ma così facendo ha intorbidito la storia della pipa.
C’è una bella recensione di Tommaso Pincio: http://tommasopincio.net/2012/09/09/narcopolis/
Se qualcuno fosse interessato all’intervista a Jeet Thayil trasmessa da Farhenheit di Radio 3, c’è il podcast: http://www.radio.rai.it/podcast/A42491332.mp3