«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LE OMBRE BIANCHE
Ennio Flaiano
Adelphi
La quarta di copertina di questo Le ombre bianche recita:
Vi ritroviamo dunque il Flaiano più risentito, impassibile e feroce, capace come pochi di additare le allucinazioni di cui siamo vittima e di mettere in scena mostri […]
ed è vero che in questa raccolta di storie brevi si ascolta un Flaiano con una voce diversa dalle sue opere precedenti: è un Flaiano conclusivo, anche rispetto al tempo – il libro è del 1972, anno anche della sua morte – che si ripiega quasi con rancore osservando i barbari che brulicano, i mostri inconsapevoli.
Il racconto Alfabeto si conclude con queste battute:
«[…] Di assurdo in questo paese non c’è che la satira, perchè addolcisce la verità». Valerio medita la lezione, rinuncia al racconto e scrive sul suo taccuino: «Quotidiana verità supera sfrenata immaginazione. Aderire alla vita? Pensarci.»
in questo breve scambio c’è tutta l’amarezza rabbiosa che Flaiano ha riversato in queste brevi storie: l’inutilità di fondo della satira, anche della sua, la più fulminante e raffinata, anzi, forse fa pure il gioco dei mostri, sembra dire; l’impossibilità di riuscire ad anticipare la realtà, cavalcarla e tagliarle la strada con la parola… no, non si può, il quotidiano riesce a essere talmente delirante che nessuna immaginazione lo può battere.
Allora non rimane che essere testimoni, cronisti o commentatori, uccellacci posati su un ramo che rampognano o si fanno beffe, ombre quindi.
Non è questo che Flaiano ha cercato di fare con la sua opera, piegando il talento letterario e la vista acutissima alla satira diretta alla società. Non era l’uccellaccio appollaiato su un ramo che scornacchia e ogni tanto molla giù qualcosa, ma la voce istrionica e lucida che si faceva beffe di questo o di quello, condannava i biechi e spronava gli onesti. Era una voce da snob, in fondo, di chi ancora pensa che riconoscendo i guasti si sarebbe indicata la via per risolverli.
In Le ombre bianche tutto questo non c’è più; rimane lo stile elegante e la prosa impeccabile, rimane il sarcasmo e lo sguardo acutissimo, ma il Flaiano che da intellettuale fiero e sferzante si faceva voce della parte migliore di questo paese e tranciava con poche immagini e qualche battuta micidiale i patetici vizi e le miserie che vedeva non c’è più.
C’è un Flaiano che cova la rabbia dell’ineluttabilità, riconoscendo che non c’è una parte migliore a cui dare voce, ma un polpettone informe nel quale siamo tutti, lui per primo, impastati. E allora gira le sferzate, non più dirette ai miserabili, genia distinta dagli onesti, e le rivolge a sè, a noi, a tutti, in una sorta di autoflagellazione.
Fine della storia, non si può vincere, lui stesso avrebbe dovuto capirlo molto prima, pare volerci dire.
Diomira andava a spasso con due giovani amici. Ha diciotto anni e si crede già vecchia. «Quando ne avrò trenta» dice «mi ucciderò».
Un passante dal volto cupo si volge con disprezzo: «Ma sparati subito, scema». E se ne va crollando la testa. Niente infatti rattrista il passante onesto come sentire offendere la vita da chi non ne conosce la lunga disperazione.
Quel passante che si rivolge alla ragazzina, ancora nel racconto Alfabeto, è Flaiano stesso e alla diciottenne si rivolge con disprezzo, ha il volto cupo, se ne va crollando la testa, rivendica di essere onesto e confessa infine che la vita è una lunga disperazione.
In questo libro Flaiano si confessa o si sfoga, in prima persona, sputando il veleno che si era accumulato.
«… viene da vomitare, come se improvvisamente vi mettessero davanti, su un piatto, le vostre stesse viscere e in più tutti i vostri errori, le vostre colpe, la vostra miseria. Voi scegliete ancora, giudicate, amate…»
«Oh no, ingegnere, lei esagera!»
«Non esagero. Voi “amate”. I vostri centri sensori, diciamolo pure, vi spingono continuamente ad una scelta, che è in fondo un atto d’amore. Voi avete ancora la vostra maledetta libertà…»
«Adesso lei ci offende!»
«Mi lasci finire. Voi avete ancora la vostra libertà di movimento. Siete come animali spaventati dall’esperienza, andate a spasso, oziate, vi nascondete, ridete e piangete, vi annusate, vi accoppiate, eccetera. Quel che vi manca è un minimo d’ordine. Ma state attenti, lassù sta venendo fuori una generazione dura, che pensa già a espandersi.»
«Lei crede, ingegnere, che la Terra sarebbe un obiettivo degno di interesse? Così povera, lercia, imperfetta? Non ci lusinghi…»
«Silenzio! Sentite?»
«Che cosa, professore?» (Dio mio, che spavento!)
«I cani! Sentite? I cani che abbaiano alla Luna! Si chiamano tra di loro, si rispondono da un cascinale all’altro… Tutta la collina velata dalla luce lunare è piena di cani… Come dice quel poeta?… “Un orizzonte di cani… un orizzonte di cani…”. E poi? Non ricordo il resto! E poi?»
Così in Per una Luna migliore, guardava il futuro e ne era disgustato.
Questo senso di disgusto per il futuro ritorna in altri racconti, come se si fosse arreso o fosse infine rinsavito dall’illusione.
«[…] Vede, signore, io non ho niente contro i capolavori, ma ciò che difficilmente si sopporta è la loro aria di sufficienza, la loro infinita vanità. Non fanno altro di male, ma rendono la vita faticosa. Bisogna lodarli, applaudirli a ogni loro minima azione, coccolarli, magnificarli, premiarli continuamente. E poi, per ringraziamento, sviano i ragazzi.»
«In che modo, scusi?»
«Convincendoli all’imitazione. Anche loro vogliono fare i capolavori. Così diventa impossibile parlare coi nostri ragazzi. Non sentono ragioni. Non vedono che capolavori e tutto il resto è nulla.»
«Mi parli dei danni alle cose».
«Alle cose? Lordano tutto. Quadri, libri, strumenti musicali sono i loro oggetti preferiti».
«Non vede un certo metodo in questa preferenza?»
«Forse, ma lordano tutto. E noi continuamente a pulire. Ci si abitua.»
In questo racconto, L’invasione, Flaiano lascia uscire una vena moralisteggiante, acida e rancorosa. Di nuovo dichiara la sua sfiducia nel futuro, nei giovani, ormai travolti dalla fanghiglia, dai “capolavori”, che tutto lordano.
Il lordare e un panorama ormai irremediabilmente lordato, che qualcuno cerca di pulire, sapendo che verrà di nuovo ricoperto, è il filo conduttore di questa raccolta di brevi scritti che, singolarmente, apparvero in un arco di quasi vent’anni sul Corriere della Sera, soprattuto, poi su Il Mondo e altri periodici.
Non è però un’opera editoriale, fu Flaiano stesso a raccoglierli, organizzarli e a volerne la pubblicazione in questa forma.
«Ci si abitua» dice, ed è questa battuta che più di ogni sferzata e ironia tagliente rende bene il segno della malinconica disfatta che ha voluto testimoniare per chiudere la sua parabola.
Bello, anche per questa nota funerea e di condanna personale, oltre che per la meravigliosa maestria letteraria e le scene di sarcasmo micidiale.
Se non avete mai letto Flaiano però forse non conviene iniziare da questo libro; meglio, credo, iniziare dall’ironia un poco snob di chi guarda dall’alto in basso con sguardo da entomologo, ma con una nota positiva delle opere precedenti, ad esempio Diario notturno che ho commentato tempo fa oppure La solitudine del satiro, o anche quello che è considerato il suo capolavoro, definizione che probabilmente si sarebbe meritata un suo ghigno colmo di disprezzo, Tempo di uccidere (di prossimo commento), per poi arrivare qui e crollare la testa.