2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Beirut – Samir Kassir

BEIRUT – Storia di una città
Samir Kassir
Traduzione di M. Marchetti

Einaudi 2009

Beirut è quel che si dice un saggio storico ponderoso che ricostruisce la storia della città, dalla fondazione fenicia, poi colonia romana fino ai giorni nostri, o quasi, fermandosi a una decina di anni fa (l’edizione francese originale è del 2003).
Samir Kassir, beirutino d’origine, segue un impianto tradizionale per l’opera, rigoroso come si confà a un saggio storico che non vuole concedere molto allo svago frivolo del lettore, ma punta a ripercorrere l’evoluzione della città negli aspetti sociali, economici, territoriali e geopolitici; non cerca di rendere il racconto intrigante, non preme su stereotipi di esotismo levantino, non dedica spazio, se non il minimo necessario, alle vicende sanguinarie della guerra iniziata nel 1975 e terminata nel 1990 che ha reso macabramente celebre Beirut a molti di noi.

Il libro non celebra eroi né condanna demoni, le vicende dell’area del Levante sono trattate di riflesso, non entra nello specifico dell’enorme nodo gordiano della questione israelo-palestinese, tanto meno nelle contorsioni dell’OLP o più in generale dei sommovimenti del Medio Oriente e neppure vuole fare la cronaca delle fasi concitate della guerra che devastò Beirut per quindici anni, chi fece cosa contro chi, chi massacrò di più e per quale ragione. Per tutto questo esiste già un’ampia letteratura e cronaca e Kassir ne rimane a distanza.

L’oggetto del saggio è Beirut, la città in quanto soggetto composito, ma con una storia e una vita propria.
In altre parole, è un mattonazzo; va detto, inutile girarci intorno e cercare di non farlo capire a chi rifugge da testi di tal sorta.
Se aborrite i mattonazzi perché proprio vi risultano indigeribili – riflussi gastrici, colpi di sonno, dolori muscolari eccetera – Beirut, questo libro, non fa per voi.

Ma se invece tollerate i mattonazzi, allora il libro di Samir Kassir può essere, per me lo è stato, uno di quegli strani incontri, del tutto inaspettati, nati da una banale occhiata caduta per caso su quel titolo, Beirut, che fa nascere una curiosità, la curiosità per l’ignoto e il remoto, per un nome sentito ripetere associandolo a tragedie e che lì, invece, su quella copertina, campeggia su un cielo azzurro, un mare turchese e una città metropolitana, apparentemente ordinata e in costruzione.
Per me è stato un bellissimo incontro, di quelli che aprono un palcoscenico mai conosciuto e che lasciano molti pensieri e riflessioni e un senso di mistero a galleggiare sulla superficie. Perché con la storia di Beirut, Kassir dipana una matassa aggrovigliata che va indietro nei millenni e rivela una verità che troppo spesso si dimentica: se dipanare la matassa del passato può essere difficile, vedere nel futuro è spesso impossibile, nonostante in molti, in molti luoghi ed epoche, siano convinti del contrario.

La storia di Beirut è la storia delle contraddizioni e della complessità inestricabile, con molte cause così come senza causa alcuna se non le circostanze, con molte responsabilità ma nessuna decisiva; è la storia della vita di un luogo segnata dalle imprevedibili piroette del destino e degli uomini.
È la storia di come il bello più luminoso e ammirato possa nutrire nel suo ventre il male più orrorifico e di come negli anfratti fetidi dell’orrore più brutale possa continuare a brulicare il bello.
È anche la storia di uomini che creano grandi opere infondendo dentro di esse tutta la loro incrollabile speranza che il futuro possa essere migliore, Samir Kassir, l’autore, in questo caso, proprio un attimo prima che il destino li sbrindelli; ma questo lo vedremo alla fine.

Prima il libro.
Molta parte di Beirut, le prime due parti su sei, grossomodo, dalla fondazione nell’antichità fino al Mandato francese dell’Ottocento, Kassir le dedica, ripercorrendo le tappe, a dimostrare come Beirut, la città delle luci e della modernità e quella dell’orrore, il luogo dove più di ogni altro si sono incontrati gli opposti e sono esplosi, nel bene e nel male, non fosse una predestinata.
Non c’è nulla nella sua natura, posizione geografica, composizione sociale e storia remota che le potesse prefigurare il destino che ha avuto in tempi moderni di città unica, faro e magnete, centro economico, politico, culturale di quella zona cruciale che è il Levante.
Beirut è diventata tale per le circostanze che si sono succedute nel corso dei secoli.

Kassir si dilunga nel descrivere la contrapposizione ancestrale tra la piccola città adagiata sulla ridotta piana del litorale e la Montagna, la zona montuosa alle sue spalle. Beirut è divenuta, per necessità, una città a vocazione esclusivamente commerciale, per l’assenza di risorse naturali, per le tensioni e le differenze culturali e comunitarie tra i beirutini, a maggioranza cristiana maronita, e le genti della Montagna, divisi tra drusi e musulmani, e per il suo storico ruolo di terminale commerciale e porto di Damasco.

Il commercio ha fatto la prima fortuna di Beirut e le ha permesso l’aggancio con l’Europa e il mondo occidentale. Questa è stata la leva per uscire dal cono d’ombra dell’influenza di Damasco e de Il Cairo e, per quella che è a lungo stata una piccola città, per diventare sede di una rivoluzione culturale come nessuna altra capitale mediorientale ha vissuto.
A Beirut si incrociavano un’Università americana, fondata dai predicatori protestanti, e un’Università cristiana fondata dai gesuiti; la sua arabicità, spesso dichiarata, era diluita da un crogiolo di comunità differenti – cristiani delle varie confessioni ortodosse e romane, musulmani divisi dalle diaspore, ebrei, curdi, armeni, palestinesi, egiziani, siriani e la comunità di stranieri occidentali – tanto che a lungo venne dibattuto quale lingua fosse preponderante, arabo, francese, inglese, per un breve periodo pure l’italiano fu in voga.

Con il Grande Gioco delle potenze coloniali di fine Ottocento e la caduta dell’impero ottomano la carte si rimescolano: le spartizioni tra Francia e Inghilterra imposero il confine con la Siria, prima inesistente, ci fu la proclamazione d’indipendenza del Libano, durata dieci giorni e poi la lunga stagione del Mandato francese.
Beirut  si francesizzò, anzi si pariginizzò, diventando un centro della Belle Epoque levantina, una dependance europea attraversata da pulsioni moderniste, spinte culturali, ricchezza, per quanto sperequata a favore delle famiglie di notabili rispetto al popolo, della comunità cristiana rispetto alla musulmana e della città rispetto alla montagna.

Beirut Piccola Parigi, Beirut Svizzera d’Oriente.
Beirut dei mille contrasti comunitari tra origini e confessioni ammassate in uno spazio fisico ridottissimo senza che nessuna fosse chiaramente prevalente come accadeva nelle altre capitali mediorientali; ma anche Beirut città dove i conflitti e gli scontri assumevano in misura molto ridotta la connotazione confessionale. Erano più conflitti tra gruppi di potere, partiti, clan dovuti a una struttura sociale da un lato moderna e dall’altro tribale.

Beirut fu a lungo un luogo di bellezza, patinata e lussureggiante, per ricchi, ma non solo. Non era solo il ritrovo esotico del nuovo jet-set commerciale e dell’alta società, sia europea che dei paesi del Levante e del Golfo , era anche luogo dove soffiava il vento della liberazione dei costumi, dei divertimenti e delle iniziative culturali. Le donne giravano in minigonna, le cristiane soprattutto, ma a traino anche le musulmane uscivano dalle gabbie della tradizione più rigida; frequentavano università, si affacciavano alle professioni e così via. Per alcuni erano “le puttane di Beirut”, anche quelle non mancavano, ma era un epitteto che stava a dire che i costumi erano simili a quelli delle capitali europee.

Kassir dedica molta attenzione a ricostruire in modo accurato il milieu culturale che si venne a creare a Beirut. Lo sbocciare del teatro, delle lettere, degli studi superiori, un’editoria spumeggiante, il cosmopolitismo e la compenetrazione tra comunità in quella che fu una rivoluzione culturale.
L’autore cura anche la descrizione dell’urbanistica in evoluzione della città che progressivamente si allargò inglobando via via le pendici della montagna, le zone a est e a ovest e trasformò, beirutizzandolo, il tessuto sociale delle zone interne una volta molto differenti dal litorale.
Kassir ripercorre come un flashback la trasformazione di singole strade e piazze, dei tradizionali suk e dell’architettura delle case, della viabilità urbana, delle direttrici di collegamento e dei successivi ampliamenti del porto, oltreché della costruzione dell’aeroporto.

Via via che si avvicina a tempi moderni, sempre più comincia anche a evidenziare le contraddizioni irrisolte, i conflitti latenti che il successo sfavillante e inimmaginabile della città celava, le distonie e le fragilità che si riveleranno fatali.
Discute a lungo anche di come la crescita procedette come una forza travolgente liberata da una politica del lassez faire di stampo liberista, o meglio, senza tirare in ballo teorie economiche che probabilmente c’entrano poco, il risultato della vocazione commerciale che univa tutte le comunità beirutine, all’insegna del tanto più tanto meglio, al successo non si pongono ostacoli.

Alcune note di colore che Kassir riporta sono deliziose, come la descrizione della vita notturna che coinvolse tutti gli strati sociali; l’infatuazione per le automobili, sia americane che europee (addirittura le Fiat erano considerate belle macchine, meglio delle Mercedes, roba da tassinari… eh, sembra incredibile); il mitico bar dell’hotel Saint-Georges con vista sulla piscina e frequentato da bellezze in bikini, uno spettacolo che visto dalla strada esaltava i beirutini; e l’entusiasmo collettivo di una piccola nazione che forse mai si sentì unita e orgogliosa come quando nel 1971, a Miami, Georgina Rizk, beirutina, venne incoronata Miss Universo .

E fin qui siamo arrivati alla fine della parte quinta, pagina 524.

Secondo un’altra mia teoria fantasiosa, che ho già esposto commentando quel libro meraviglioso che è La torre di Uwe Tellkamp, i libri ponderosi, quelli molto lunghi, svelano la loro natura dopo le 500 pagine. È a quel punto che si capisce se è un grande libro, perchè 500 pagine è come un’erta da scalare, con fatica, l’abbrivo è di solito lento, il libro procede con movimenti tettonici, ma attorno alle 500 pagine, se è un grande libro, qualcosa cambia, ti accorgi che qualcosa della sostanza del libro ha iniziato a percolare dentro i tuoi pensieri e nelle braccia che lo reggono, negli occhi che seguono le parole; ti accorgi che ti ha stretto attorno una rete senza che tu te ne accorgessi, con quel movimento lento da grande fiume. Sei intrappolato, a quel punto potresti andare avanti all’infinito, tanto che alla fine delle 1300 pagine de La torre ho pensato “Nooo… così corto?” (e so che anche qualcun’altro ha pensato la stessa cosa, quindi forse non sono io a essere allucinato, o almeno non sono da solo), e così per questo Beirut, al volgere della sesta parte, che sapevo essere l’ultima e probabilmente la più dolorosa, ho pensato “Peccato, mi piaceva questo personaggio di Beirut”.

La guerra non colse Beirut di sorpresa. Anche se le manifestazioni ricorrenti di quello «Stato della discordia» che fu il Libano indipendente risparmieranno complessivamente il suo centro fino al 1975, nè la prosperità della sua economia nè lo sfavillio del suo stile di vita riuscivano sempre a mascherare l’impressione che la città, e con lei tutto il paese, si muovesse sul filo del rasoio. Ben prima che la svolta della guerra del 1967 facesse scattare una lenta ma sicura deriva verso gli estremi, Beirut era stata teatro di tutte le polarizzazioni che la soluzione sommaria e incompiuta della questione d’Oriente continuava a produrre.

Così inizia la sesta parte, con la condanna a morte che fu scritta per Beirut e il Libano dalle potenze coloniali quando si spartirono il Levante, poi con la Guerra Fredda lo suddivisero in zone d’influenza, poi nel 1948, per far posto al nuovo stato d’Israele, scacciarono i palestinesi che si riversarono nei  campi profughi di Giordania e Libano. Infine la disfatta araba nella guerra con Israele del 1967 che, insieme alle spinte rivoluzionarie dell’epoca, aprì le voragini per la radicalizzazione e gli estremismi.

In questa sesta parte, Samir Kassir, nonostante, come detto, tracci semplicemente la parabola dei principali avvenimenti che portarono alla catastrofe per l’area e per il Libano, non riesce a nascondere il dolore personale per la sorte della sua città.
È un capitolo teso, l’algido distacco dello storico lascia il passo a paragrafi sanguinanti nei quali si affaccia la disperazione che accompagna l’autore –  non solo storico, ma anche intellettuale, giornalista, militante e soprattutto beirutino – nel ricostruire l’implosione dell’unità nazionale che si reggeva su basi fragili, l’esplosione dei comunitarismi, la radicalizzazione confessionale, lo scontro tra comunità che presero a guardare da parti opposte, il mondo arabo in guerra con Israele e l’Occidente l’una, la madre occidentale l’altra; e in questo scenario muore la città sconvolta da quartieri in guerra uno con l’altro, le milizie paramilitari dei signori della guerra, i tentativi falliti di soluzione negoziata e l’effetto dilaniante che la questione palestinese e l’OLP produsse in questo corpo sociale frantumato insieme alle sanguinarie e ininterrotte incursioni israeliane, per aria e per terra.
Beirut finì schiacciata tra forze molto più potenti di lei che si scontravano brutalmente, fu messa a ferro e fuoco e distrutta, fisicamente e spiritualmente.

È impossibile, credo, capire cosa fu veramente vivere quella dissoluzione, dalla modernità cosmopolita, la repubblica delle lettere e la rivoluzione culturale fino alla barbarie. Kassir ne restituisce l’angoscia con questo capitolo impregnato di emozioni cercando di darne qualche lampo con il ricordo di piccoli eventi significativi, più che con la cronaca.
Fu nel 1974 che venne girato, con scarsissimi mezzi, un film intitolato Beirut, oh Beirut. Il regista era Maroun Bagdadi, poi diventato celebre, e quello era il suo lungometraggio di diploma all’Institut des hautes études cinématographiques.
Dice Kassir:

Sarà il film dell’addio.
Testimonianza insostituibile sull’istante che precedette la caduta, Beyrouth, ya Beyrouth mostrava un’altra città rispetto a quella che si intuiva sullo sfondo delle vicende sentimentali di tanti film egiziani o degli intrighi polizieschi di certi lungometraggi europei o americani.

La parte finale del libro racconta della cultura beirutina in effervescenza, delle convulsioni che la scossero sotto la spinta dell’epoca che vide emergere la sinistra politica e il partito comunista fino ad allora semi-clandestino, delle mobilitazioni studentesche e degli scioperi. Quello che successe in molte democrazie europee e negli Stati Uniti negli stessi anni, ma con in più l’ombra del bagno di sangue incombente.
L’apparato politico si dimostrò incapace, chiuso nelle persistenti clientele e nepotismi degli affari che ancora proseguivano a gonfie vele, il tradizionale status quo a predominanza cristiana dagli equilibri instabili che tuttavia garantivano il funzionamento del commercio internazionale e della piazza finanziaria vacillò e infine implose sotto i colpi di artiglieria.
Gli estremismi interni divennero inevitabili, mentre OLP e Israele si scontravano nel Sud del Libano prima, alla periferia di Beirut poi e infine in tutta la città, insieme alle milizie libanesi.

Vigilata nel suo cuore dalle carcasse carbonizzate del Phoenicia e del Saint-Georges [nda: i due più celebri e lussuosi hotel del lungomare di Beirut], la metropoli cosmopolita del Levante era ormai diventata una capitale del dolore.

Così conclude Kassir il suo saggio prima della postfazione. È ammirevole l’autore per come è riuscito a non creare mai eroi e mostri, nonostante tutto. Nessuna delle parti in causa è demonizzata: nè gli israeliani, nè l’OLP e neppure le milizie. Neanche le Falangi cristiano-maronite, i carnefici materiali di Sabra e Chatila, per intenderci, organizzazione paramilitare di ispirazione fascista fin dalla nascita, verso la quale traspare avversione nelle sue parole, ma mai facile disprezzo o facile colpevolizzazione. Kassir, giovanissimo, era militante comunista all’epoca dei fatti, non è da tutti riuscire a mantenere un simile equilibrio e onestà intellettuale.

La postfazione, che correttamente l’autore mantiene separata dal corpo dell’opera, è l’unica parte nella quale l’analisi politica diventa esplicita e Kassir esprime la sua posizione netta.
Inizia così:

Un bel giorno, all’improvviso, si è smesso di parlare di Beirut e del Libano. Era l’autunno del 1990. Saturi ormai delle scene di violenza che da quindici anni arrivavano loro, i lettori della stampa internazionale e i telespettatori sparsi per il mondo non hanno saputo – probabilmente non subito – che la guerra era finita. Poi, a partire dalla metà degli anni Novanta, si è ricominciato a parlarne. Questa volta negli inserti illustrati. Da allora, numerosi articoli, apparsi qua e là, hanno cominciato ad attirare i turisti. Sono uscite guide che propongono l’immagine di un paese che si può visitare e di una capitale piuttosto normale.

Kassir, invece, si scaglia contro la “normalizzazione” post-guerra, denunciando il persistere delle clientele, del nepotismo, talvolta smaccate. Denuncia anche l’immagine finta di coesistenza pacifica, che invece nasconde un clima repressivo, per mano sia dei servizi interni che dell’implacabile presenza siriana, forze oscure e onnipresenti che limitano il diritto d’espressione e mettono a tacere le voci dissonanti. Ma nonostante questo, come Beirut ha sempre dimostrato, l’energia ribolle, la cultura e quella parte di cittadinanza che vuole uscire dalle pastoie che si riproducono è in movimento e protesta. La città con la ricostruzione è stata violentata, dice ancora, per favorire gli affaristi e la corruzione. Si scaglia soprattutto contro Rafiq Hariri, il nuovo uomo forte del Libano di quegli anni (in seguito ucciso in un attentato nel 2005), colpevole, a giudizio di Kassir, del nuovo e imperante regime di corruzione, dell’oppressione e dei progetti fallimentari della ricostruzione.
Citando l’opera del governo volta a spegnere tutte le voci di opposizione al suo operato:

A Beirut, i giornali non sono ridotti al silenzio, però sono svuotati della loro sostanza e sono quindi suscettibili di ogni manipolazione.
[…] Invano i giovani giornalisti di meno di trent’anni che ruotano attorno a “L’Orient-Express” mostrano come un gruppo costituito fondamentalmente di debuttanti possa reinventare il giornalismo in lingua francese, riconciliandolo con la società libanese e la cultura araba, visto che nel giro di due anni l’establishment farà, comunque, colare a picco il mensile.

Samir Kassir fu il fondatore e l’editore di quel mensile.
Infine la chiosa finale, con quella speranza incrollabile nel futuro a cui accennavo all’inizio:

Sarebbe forse tempo che Beirut facesse assegnamento, per la sua prosperità, su una ritrovata felicità degli uni e degli altri. In sostanza: un po’ di democrazia per tutti, e non soltanto in qualche suo quartiere, e pace per i palestinesi. Sono le due condizioni di un grande mercato regionale che, soltanto, potrà darle nuova vita. E permetterle infine di essere, dopo essere stata così dolcemente.

Un augurio che sarebbe difficile, credo, non condividere.

Ma ora devo tornare a quel rimando di inizio commento, quando dissi che la speranza, Kassir, la espresse un attimo prima che il destino, diciamo così, lo sbriciolasse. Dicevo letteralmente.

Copio queste brevi note biografiche da http://www.samirkassir.net/, è in inglese, non ho trovato nulla in italiano. La traduzione è mia.

Giovedì 2 giugno 2005, Samir salì sulla sua Alfa Romeo parcheggiata davanti al condominio dove abitava, nel quartiere di Ashrafieh a Beirut, diretto alla redazione di Annahar.
Appena salito in auto, una bomba collocata sotto al sedile esplose, uccidendolo.

Note:

1) Su http://www.samirkassir.net/ è disponibile materiale informativo, oltre alla biografia completa, inclusi articoli di Samir Kassir.

2) Esiste anche una pagina di Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Samir_Kassir da cui è tratta l’immagine di Samir Kassir, ma contiene informazioni scarne rispetto alla versione in inglese: http://en.wikipedia.org/wiki/Samir_Kassir

3) The Independent pubblicò, il giorno dopo l’assassinio, un articolo, a firma di Robert Fisk, noto cronista delle vicende mediorientali dal titolo Who Killed Samir Kassir?
Lo trovate qui: http://www.countercurrents.org/fisk030605.htm

4) Un altro articolo, recente, di giugno 2012, a firma di Rana Khoury è stato pubblicato da Al Arabiya. Lo trovate qui: http://www.alarabiya.net/articles/2012/06/01/217977.html

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Questa voce è stata pubblicata il 19 settembre 2012 da in Autori, Editori, Einaudi, Kassir, Samir con tag , , , , .

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