2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Il tempo è un bastardo – Jennifer Egan

IL TEMPO È UN BASTARDO
Jennifer Egan
Traduzione di M. Colombo

Minimum Fax 2011

Bel libro questo Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, con un titolo che, nonostante sia diverso dall’originale perchè di difficile traduzione – A visit from the goon squad, dove “goon squad” sta per “gruppo di mercenari”, ma è gergale -, Minimum Fax ha particolarmente azzeccato, perchè il tempo è veramente un bastardo, non solo come modo di dire; è un bastardo speciale in questo romanzo per quello che riesce a fare sui personaggi, tutti un po’ sbattuti come tronchi d’albero giù per un fiume, con qualcuno che va a fondo e sparisce, altri che in qualche modo si ritrovano ammucchiati in un’ansa; ed è pure un bastardo dal punto di vista del lettore visto che l’autrice disassembla il tempo del romanzo scassandolo in pezzi che poi ricombina con geometrie precarie.

Il risultato sono capitoli che in realtà hanno la forma di racconti, inanellati lungo un arco temporale che segue gran parte della vita dei personaggi, le cui vicende si intrecciano mescolandosi.
È un romanzo decisamente colorato, se immaginiamo dei toni cromatici associati ai personaggi e alle fasi della loro vita. Un miscuglio di molte spruzzate di colori diversi.

Riguardo a come Jennifer Egan manipola il tempo del romanzo, che è il suo tratto più originale, dicevo che lo scassa e lo riassembla. Che vuol dire? Bè, vuol dire che non c’è un tempo narrativo uniforme, ma ogni capitolo-racconto può assumere tempi diversi: un personaggio che narra in flashback, una voce in prima persona che parla al presente e perfino una voce terza, una voce del romanzo, che parla conoscendo già cosa sarebbe accaduto in futuro e anticipa il destino dei personaggi.

Per questo la lettura ha un movimento ondulatorio come se fosse tirata da elastici che spostano l’occhio avanti e indietro e anche avanti ma stando indietro; una sorta di gioco infantile, un po’ come quei cubi di legno che si possono comporre e scomporre per formare nuove figure o disegni; non so, di un gatto, ad esempio, che una volta avrà la coda in su e un’altra in giù, tre zampe di sotto e una di sopra, e così via come si diverte a rimontare il gatto la fantasia.
Jennifer Egan gioca su questo tempo elastico nel suo raccontare, invece del tradizionale tempo lineare della narrazione, e l’effetto è di piacevole confusione.

Ma d’altronde, che il tempo possa essere reso in modi bizzarri, considerati tali se paragonati alla disseccata semplicità dello scorrere lineare, è una libertà che la narrazione e i narratori posso legittimamente prendersi e gli esempi non mancano.
Mi raccontava la mia amica F., durante il viaggio di ritorno da Mantova, della curiosissima tradizione di una qualche popolazione indigena del Messico o del Venezuela o giù di là – i dettagli sono già svaniti nella mia nebbia mentale – presso la quale le storie orali seguono un tempo circolare. Questo significa che una storia ha un inizio, prosegue con certe vicende e certi personaggi fino a che, a un certo punto, ricomincia. Ricomincia dall’inizio, con lo stesso inizio e poi prosegue, in modo diverso dalla volta precedente, succedono altre cose, fino a che, ancora, ricomincia e così via a piacere, finché non ci si stanca. Tempo circolare.
Jennifer Egan narra secondo un tempo elastico; l’idea non è così diversa, anche se quella degli indios è di gran lunga più originale, geniale io direi.

I personaggi sono molti e si incrociano mutevolmente; sintetizzarne le vicende ha poca utilità non essendoci una storia ben delineata, basti sapere che il filo conduttore segue la vita di Bennie Salazar, produttore discografico di successo, e della sua assistente Sasha, donna enigmatica dal passato ribelle e tossico. Forse i personaggi sono fin troppi, sono un plotone nel quale ogni tanto, perlomeno io, ho perso qualche filo.
Soprattutto, sono personaggi americani, secondo quel modo tipico di molta letteratura statunitense una volta ispirata da Hollywood, ora forse ispirata dai ritmi televisivi e giornalistici, di non rivelare quasi nulla dei pensieri e del flusso di coscienza dei personaggi, ma di basare tutto sui dialoghi e le azioni degli stessi. Anche Englander nel suo Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank fa lo stesso, e parecchi altri autori della nuova generazione si incanalano in questo alveo.
Come commentavo per Englander lo stesso dico per Egan: questa non è necessariamente una critica, è solo l’osservazione di uno stile narrativo, ma un retrogusto acidulo di convenzione unito a una strizzatina d’occhio alle eventuali produzioni cinematografiche io non riesco a evitare di sentirlo.
In ogni caso, Jennifer Egan è molto brava nel mantenere un ritmo incalzante e nel districarsi con eleganza nei cambi di prospettiva e di voce, anche quando inserisce quella esterna che anticipa il futuro.

Ha un paio di inciampi. Uno verso metà libro, rincorrendo un personaggio minore, Dolly “La Doll”, alle prese con un fantomatico generale genocida di un fantomatico paese del terzo mondo, il tutto finalizzato a far entrare nella storia la figlia Lulu, che riapparirà più avanti. Qui Egan evidentemente si muove su un terreno non suo, perchè il rapporto madre-figlia viene fuori in modo slavato, con forzature nei tratti delle due e passaggi sdolcinati che pochissimo hanno a che fare con il resto del libro. Questo è uno di quei casi per i quali la mannaia del taglio doveva cadere impietosa.
Il secondo inciampo, ma qui c’è molto di mio gusto personale, è il finale. L’autrice chiude hollywoodianamente: tutto è bene quel che finisce bene e cari lettori siate felici e contenti. L’effetto è quello, appunto, di molti film americani, anche bellissimi film, con un certo ritmo e costruzione durante l’intero svolgimento e poi chiusi inspiegabilmente da un finale tutto sorrisi che lascia con una mezza smorfia. Jennifer Egon nel finale di questo libro si perde per strada il suo ritmo incalzante e la costruzione sbilenca del fluire narrativo per tornare nella normalità, dove però non se la cava bene come quando smonta e rimonta.

Lascio per la fine quella che per me è la parte migliore del libro: una sorta di inseguimento tra Ted e Sasha, sua nipote, in una Napoli che si sgretola e ammuffisce sotto la coperta umida del tempo, forse più simile a una Bombay che a Napoli, ma ugualmente affascinante perchè attraversato sia da un filo di erotismo teso tra la nipote, anima persa, e lo zio, angelo custode, e sia dal pensiero dolceamaro che Ted rivolge alla moglie che vede allontanarsi inevitabilmente. Anime perse in una città che muore; si sente il sapore acre e si vede quella luce sporca.

Su un lato del portone c’era una larga rampa di scale, dove chiazze di pregiato marmo napoletano ancora occhieggiavano da sotto la sporcizia. La donna cominciò lentamente a risalirla, reggendosi al corrimano. Ted la seguì.
Il secondo piano, come insegnava ai suoi studenti da anni, era il piano nobile, dove i proprietari dei palazzi sfoggiavano le loro ricchezze davanti agli ospiti. Ancora adesso, pur infestato da piccioni spennacchiati e incrostato dai loro escrementi, il portico sopraelevato che si affacciava sul cortile era splendido. Accorgendosi che l’aveva notato, la vecchia gli disse: «Bellissimo, eh? Ecco, guardate!»[8] e con un orgoglio che Ted trovò toccante aprì la porta di una grande stanza in penombra, con le pareti macchiate da quelle che parevano chiazze di muffa. La vecchia tirò un interruttore a cordicella, e una lampadina appesa a un filo trasfigurò le sagome ammuffite in una serie di affreschi nello stile di Tiziano e Giorgione: corpulente donne nude che reggevano frutti; composizioni di foglie scure. Un ciuffo di uccelli argentati. Quella doveva essere stata la sala da ballo.
Al terzo piano, Ted vide due ragazzi che si dividevano una sigaretta davanti a una porta. Un altro dormiva disteso sotto un caotico assortimento di biancheria: calze e mutande bagnate, stese con cura su un filo con delle mollette. Ted sentì odore di canne e olio d’oliva stantio, udì un mormorio di attività invisibile, e si rese conto che il palazzo era diventato una specie di ostello. L’ironia di ritrovarsi nel cuore di quel demi-monde che aveva fatto di tutto per evitare lo divertì. Eccoci qua, pensò. Finalmente.
Al quinto e ultimo piano, che un tempo aveva ospitato la servitù, le porte erano più piccole, allineate lungo uno stretto corridoio. L’anziana guida di Ted si fermò e si appoggiò contro un muro. Il disprezzo che aveva provato per lei lasciò spazio alla gratitudine: quanta fatica, per quei venti dollari. Quanto doveva averne bisogno. «Mi spiace», le disse. «Mi spiace averla fatta salire fin qui». Ma la donna scosse la testa senza capire. Riprese a camminare, trascinandosi fino a metà del corridoio, quindi bussò secca a una delle porticine. Quando si aprì, Ted vide Sasha, mezzo addormentata, con indosso i pantaloni di un pigiama da uomo. Alla vista di Ted, i suoi occhi si spalancarono, ma il volto rimase impassibile. «Ciao, zio», disse piano.

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Questa voce è stata pubblicata il 22 settembre 2012 da in Autori, Editori, Egan, Jennifer, Minimum Fax con tag , , .

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