«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
NOTTURNO CILENO
Roberto Bolaño
Traduzione di A. Morino
Sellerio 2003
Circa trent’anni fa, all’inizio degli anni Ottanta, a Blanes, paesello della Costa Brava, un esule cileno, un ometto sgraziato e con il volto asimmetrico, apriva un negozietto di oggetti per turisti e lì vi rimaneva per quasi dieci anni.
Una scena patetica a immaginarsela, un incubo praticamente, l’incarnazione di una vita triste vissuta da un uomo triste con un destino triste. Gli antipodi della gloria letteraria e delle vette dell’arte delle parole, si direbbe.
Chi farebbe cambio? Chi avrebbe mai detto, passando da Blanes in quegli anni, fermandosi a guardare quelle orrende patacche che sono gli oggetti per turisti e magari comprandone uno da regalare alla nonna istupidita, povera vecchia, con uno sghignazzo di superiorità appena represso davanti a quell’omuncolo che, patetico, cercava di convincervi della tutto sommato dignitosa consistenza di quello sputo di oggettucolo; ecco, chi avrebbe mai detto che quell’omuncolo era Roberto Bolaño, uno dei più grandi scrittori del Novecento, il figlio letterario di Julio Cortázar de Il gioco del mondo (Rayuela), colui che di lì a pochi anni sarebbe stato celebrato in tutto il mondo per il suo sterminato talento letterario?
Che fine avrebbe fatto quello sghignazzo sardonico?
È una storia curiosa questa.
Ma c’entra solo fino a un certo punto con il libro; però avevo voglia di raccontarla perché era da un bel po’ che continuavo a ripetermi che dovevo riprendere in mano Roberto Bolaño e non lo facevo.
L’ho ripreso con Notturno cileno, che fa parte dei suoi molti libri brevi ed ha un suono particolare, diverso da ogni altro che avevo letto, diverso anche dai suoi due romanzi lunghi, l’arcano e spiraleggiante 2666 e quello che un po’ tutti considerano il suo capolavoro, I detective selvaggi, libro spettacolarmente bello.
Dicevo del suono di Notturno cileno… già, il suono… Bolaño in questo libro compie l’impresa che, penso, sia e sia stata il sogno di centinaia o migliaia di scrittori; alcuni l’hanno tentata con esiti miserrimi, molti altri l’hanno probabilmente solo abbozzata per poi battere in ritirata e pochi, pochissimi, l’hanno compiuta; pochissimi sono stati all’altezza della sfida: mi vengono in mente quel visionario maniaco di Georges Perec, quell’altro pazzo di Venedikt Erofeev, quel gelido sulfureo di Thomas Bernhard, Boris Pilnjak anche. Insomma, tutta gente non solo dotata di un talento letterario spaventoso, ma anche così ossessionata dalle parole che sgorgano in un tumulto selvaggio da riuscire a piegarsi, rattrappirsi talmente tanto da diventare un orifizio che getta parole, e parole, e parole; con un suono che è quello di una percussione arcaica, un ritmo tribale da tamburi parlanti, incessante, ossessivo, profondo, tanto che sembra uscire dal terreno, dagli alberi, dal buio della foresta che risuona di quel ritmo che trascina e riempie le orecchie, echeggia senza sosta; come il ritmo del monologo di Sebastián Urrutia Lacroix, il prete cileno, membro dell’Opus Dei che, febbricitante, libera un muro di parole aprendo così:
Adesso muoio, ma ho ancora molte cose da dire. Ero in pace con me stesso. Muto e in pace. Ma d’improvviso sono emerse le cose. Il colpevole è quel giovanotto invecchiato. Io prima ero in pace. Adesso non sono in pace. Bisogna chiarire certi punti. Sicchè mi appoggerò su un gomito e alzerò la testa, la mia nobile testa e cercherò nell’angolo dei ricordi quelle azioni che mi giustificano e che quindi smentiscono le infamie che il giovanotto invecchiato ha sparso a mio discredito in una sola notte saettante. Il mio presunto discredito. Dobbiamo essere responsabili. Questo l’ho detto per tutta la mia vita. Abbiamo l’obbligo morale di essere responsabili delle nostre azioni e anche delle nostre parole e persino dei nostri silenzi, sì, dei nostri silenzi, perchè pure i silenzi salgono in cielo e li ascolta Dio e solo Dio li capisce e li giudica, sicchè dobbiamo prestare molta attenzione ai silenzi. Io sono responsabile di tutto. I miei silenzi sono immacolati. Che sia chiaro. Ma soprattutto che sia chiaro a Dio. Il resto è prescindibile. Dio no. Non so di cosa sto parlando.
e da questo incipit “saettante”, come dice lui, Roberto Bolaño scrive un pezzo di letteratura memorabile per il ritmo che imprime alla musica delle parole di quel prete disgustoso che ricorda e farnetica, parla come un fiume in piena che muggisce, sì esatto, “muggisce”, come nei ricordi del Po in piena che i vecchi raccontano a Guido Conti, è il suono cupo e profondo, quel muggito del fiume a terrorizzare di più, a far sentire nalla pancia la paura che sia solo una questione di scelta del fiume se distruggere tutto o salvare quegli uomini e le loro case; questa di Notturno cileno è la stessa musica, lo stesso ritmo profondissimo che Bolaño imprime alle frasi del prete; un ritmo costante, senza cedere mai, un monologo lunghissimo e travolgente che spazza cinquant’anni di storia cilena ma non solo; è il ritmo di un respiro, asmatico, morente, è il respiro dell’autore, quel ritmo è il respiro di Roberto Bolaño.
Fino alla penultima frase.
Poi chiude. Una frase, otto parole, un grido rauco.
Meravigliosa, una delle chiusure più belle che abbia mai letto.
Non ve la riporto, non si può, proprio non si può.
Nel libro c’è un’ottima postfazione di Angelo Morino che ripercorre i tratti salienti della vita e dell’opera di Bolaño. È ben scritta. Tuttavia la chiave di lettura che offre è, secondo me, incompleta. Storicizza. Ma Notturno cileno è di più. È ben vero che la vita e l’opera di Bolaño si sono annodate visceralmente con la storia tragica del Cile degli anni della dittatura, ed è anche facile rintracciare tratti autobiografici, o almeno riferimenti, nella figura di Arturo Belano, uno dei protagonisti de I detective selvaggi. Invece, non è vero, sempre secondo me, che il prete opusdeiano Sebastián Urrutia Lacroix, il protagonista di Notturno cileno, reazionario immerso nella bieca destra cilena, pusillanime e autoassolutorio, partecipe di salotti letterari leziosi con annessa camera di tortura per oppositori politici nello scantinato del padrone di casa, agente americano della CIA (riferimento questo a un reale fatto di cronaca), uomo di silenzi sporchi che invece reputa “immacolati”, non è vero che sia solo la figura antitetica a Bolaño e a quanti si opposero.
Non è così semplice. C’è quel ritmo, che non è solo estetizzante, non solo favoloso ricamo stilistico. In quel ritmo c’è Bolaño e c’è una sua parte anche in Sebastián Urrutia Lacroix, quel ritmo è il respiro delle parole che ancora devono essere dette in punto di morte.
È l’ansia dell’onestà, che non sempre è la verità. Anzi, spesso non lo è.
C’è una parte di Urrutia, di squallore intellettuale opusdeiano, anche in Bolaño, e lui lo ammette, come c’è una parte fetida in ognuno di noi, anche nei pensieri più puri, nelle aspirazioni più liriche, e quando li si osserva dall’ultimo sguardo, non si può negare che un’ombra di sporcizia li attraversi.
Chi lo nega è un santo o un fanatico e, forse, di veri santi non ce ne è mai stato neanche uno.
E io l’ho letta in molti passaggi del libro, questa sensazione di sè nascosto nel personaggio più distante; che in fondo non è neppure un’operazione letteraria così tanto ardita, quella di nascondersi nel carattere che sembra più antitetico.
Quindi non c’è solo la storicizzazione del cinquantennio tragico del Cile in Notturno cileno, ma anche un chinare la testa sulle proprie inevitabili debolezze e compromessi e cedimenti.
Ma torniamo al ritmo, che è la spina dorsale di questo libro, e all’immensa bravura di Bolaño. Un pezzetto.
[…] E io: Dio è ovunque, persino nei luoghi più squallidi. E Farwell: se la pancia non mi facesse così male e se non fossi così ubriaco mi confesserei in questo stesso momento. E io: per me sarebbe un onore. E Farwell: oppure la trascinerei in bagno e la inculerei una volta per tutte. E io: non è lei a parlare, è il vino, sono quelle ombre che la inquietano. E Farwell: non arrossisca, noi cileni siamo tutti sodomiti. E io: tutti gi uomini sono sodomiti, tutti hanno un sodomita in qualche anfratto dell’anima, non solo i nostri poveri compatrioti, e uno dei nostri doveri è imporci su di lui, vincerlo, metterlo in ginocchio. E Farwell: lei parla come un succhiatore di uccelli. E io: non l’ho mai fatto. E Farwell: qui ci siamo solo noi, qui ci siamo solo noi, neppure in seminario? E io: studiavo e pregavo, pregavo e studiavo. E Farwell: qui ci siamo solo noi, solo noi, solo noi. E io: leggevo sant’Agostino, leggevo san Tommaso, studiavo la vita di tutti i papi. E Farwell: ricorda ancora quelle sante vite? E io: incise a fuoco. E Farwell: chi era Pio II? […]
Dura tre pagine questo dialogo ipnotico.
Per tutto questo, io penso che Notturno cileno sia un grande libro.
Nota:
Chi volesse qualche notizia in più su Roberto Bolaño, Nicola Lagioia ha scritto recentemente un ottimo pezzo su Minima & moralia, il blog letterario di Minimum Fax.
Faccio solo una piccola critica dicendo che si fa prendere un poco la mano, per come la vedo io, sbracciandosi nel definire Bolaño “il primo vero grande scrittore del XXI secolo”, che è una di quelle definizioni superflue, come dire che la mia maglia rossa è più bella della tua maglia blu, le quali finiscono per sviare il discorso verso beghe da bocciofila attorno a quei due termini, “primo” e “vero”. Io non mi appassiono, ma credo neppure Nicola Lagioia e molti altri, a queste categorizzazioni e preferisco godermi i libri di Bolaño; che sia primo o non primo, o che sia del XX o del XXI secolo non ha nessuna importanza.
Comunque bel pezzo, ve lo consiglio.