«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
PIRATERIA – Storia della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google
Adrian Johns
Bollati Boringhieri 2011
Gran bel saggio, molto lungo e di lettura molto lunga, che sono due cose distinte. Un libro può essere lungo o breve e di lettura breve o lunga. Questo è lungo, il che è un dato oggettivo essendo oltre 600 le pagine, e di lettura lunga perchè faticoso, ponderoso, denso di minuziose ricostruzioni storiche dei contesti sociali, economici, politici e tecnologici, inclusa la riproposizione di lunghe discettazioni o prolusioni di personaggi di rilievo per le vicende raccontate: deputati, aristocratici, industriali, editori, stampatori, pirati, sovversivi, inventori e avventurieri.
È un saggio che ha richiesto un lavoro decennale da parte dell’autore e per questo pretende pazienza e perseveranza dal lettore.
Però, per chi è interessato a conoscere le radici lontane e profonde del concetto di pirateria nel caso di opere letterarie e invenzioni meccaniche, l’origine e la vita tumultuosa del principio della proprietà intellettuale, la nascita e anche in questo caso la navigazione perigliosa del copyright e del sistema dei brevetti, insomma, alcuni dei temi più dibattuti al mondo, più rilevanti per la forma della società, ma anche più falsificati, male interpretati, improvvisati e fatti oggetto di bestiale ignoranza, scontri faziosi e interessi corporativi, il risultato è maestoso.
Pirateria è un saggio unico nel suo genere, il testo di riferimento per qualunque considerazione storica e di merito sui temi che tratta.
Prima di entrare col commento nel libro, mi lamento un po’.
Prima lamentela. Il sottotitolo originale fa così: The intellectual property wars from Gutenberg to Gates (Le guerre sulla proprietà intellettuale da Gutenberg a Gates, mia traduzione), dove “Gates” è Bill Gates. Quello di Bollati Boringhieri invece fa così: Storia della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google. Come ci sia finito “storia” al posto di “guerre” e “Google” al posto di “Gates” sarei proprio curioso di saperlo, per amor di bizzarria, anche se temo qualche fine ragionamento antropologico sul carattere degli italiani da parte di qualche clerico del marketing.
Seconda lamentela (questa da disco rotto, ormai). Come al solito, o quasi, i saggi pubblicati dagli editori italiani pare siano beni di extralusso, e allora delle due l’una: o ci sono effettivamente parecchi ricconi che leggono saggi e io sono prevenuto nei confronti dei ricconi, oppure a questi editori interessa poco vendere saggi. Bollati Boringhieri non fa eccezione. Il libro è in vendita al prezzo inavvicinabile di 39 euro, accompagnato dalla versione ebook al comico prezzo di 27,99 euro (potevano anche arrotondare a 28 che tanto era comico uguale). L’edizione originale, Piracy dell’University of Chicago Press, c’è in edizione economica a 18,57 euro e se la cercate un po’ trovate l’edizione ebook a 9,99 dollari più tasse.
Quindi, per evidenti ragioni aritmetiche e di sensatezza, come in altri casi precedenti, il commento si riferisce all’edizione originale, che mi auguro la traduzione italiana abbia reso fedelmente (per chi non ha o non gradisce l’opzione in lingua originale suggerisco un dignitoso usato).
Fine delle lamentele.
L’estensione del libro copre un arco di quattro secoli ed è interamente centrata su quanto avvenne nel mondo anglosassone (Inghilterra, Scozia, Irlanda e Stati Uniti). Pochissimo, quasi nulla, viene detto di altri paesi, se non di riflesso alle vicende inglesi e americane. Questo è un limite, certamente, soprattutto quando si affrontano le interminabili, talvolta noiosissime e forse eccessive, citazioni di discorsi di deputati e lord inglesi e le minuziose ricostruzioni dei rapporti intercorsi tra questo e quell’industriale o inventore, sempre inglese o americano.
Tuttavia è difficile pretendere di più da Adrian Johns, un trattato completo che coprisse con lo stesso rigoroso grado di dettaglio anche tutto il resto del mondo industrializzato.
L’arco temporale trattato si estende dalla metà del Seicento fino agli ultimi decenni del Novecento, grossomodo; dalla nascita della pirateria intellettuale, di opere letterarie e invenzioni, fino alla pirateria musicale e cinematografica compiuta attraverso la duplicazione de nastri magnetici e al phreaking, l’uso illecito delle linee telefoniche dell’AT&T negli Stati Uniti, allora monopolista, la cui esperienza, unita alla diffusione subito successiva delle reti informatiche (Arpanet e altre, i predecessori di Internet) ha dato vita all’hacking e alla pirateria di contenuti digitali.
«E Google, allora? E Bill Gates? Dove stanno?» forse direte voi bizzosi come un bambino al quale è stata appena tolta la pistola spara acqua.
Ci stanno—Bill Gates, Google no—nei due capitoli finali, nei quali però la vera e propria ricostruzione storica si ferma tra gli anni ’70 e ’80, agli albori dell’era dei personal computer e del mondo digitale. Compare quindi il Bill Gates di Micro-Soft (col trattino) e anche lo Steven Jobs (con la “n”) degli esordi, ma quello che è stato dopo, la proprietà intellettuale applicata al software e ai contenuti digitali, la pirateria su Internet c’è solo come analisi finale che l’autore propone, non come storia. Anche altre forme di pirateria moderna (nel senso di essere considerate tali attualmente) riguardanti biotecnologie, genetica, tecnologie e prodotti industriali, eccetera non ci sono.
Queste ancora non sono storia, sono cronaca, la prospettiva manca di profondità di campo e lo storico si ferma. Credo sia questo il motivo. L’altro motivo credo sia perché lo scopo del saggio è proprio quello di colmare la lacuna maggiore, ovvero come e in quanto tempo si è arrivati a oggi, intendendo con “oggi” gli eventi e i fenomeni che abbiamo potuto vivere in prima persona.
Considerate bene questi aspetti prima di affrontare il libro per non farvi sviare dal sottotitolo editoriale un po’ ingannatore.
Se vi interessano i fatti recenti e le tematiche attuali aperte, questo saggio non le affronta. Per quelle esistono decine di pubblicazioni. Ma se affrontate le tematiche recenti e aperte cercando di comprenderle a fondo e di inquadrarle in una prospettiva che non abbia un angolo di visuale ridottissimo senza conoscere la storia presentata in questo libro siete a rischio di scivolate grottesche.
Come detto, l’arco temporale copre quattro secoli che coincidono, circa, a quattro momenti storici ben caratterizzati. Il Seicento vede la diffusione della stampa e della medicina, la costituzione delle corporazioni e lo sviluppo dei traffici commerciali. Il Settecento è il secolo dell’Illuminismo, nasce la scienza moderna e l’editoria. L’Ottocento è il secolo delle rivoluzioni industriali (plurale, almeno tre sono state, non una). Il Novecento è l’epoca moderna delle tecnologie di comunicazione e diffusione di contenuti informativi, telefono, radio, televisione, computer.
La pirateria nasce nel Seicento e non è altro che una nuova rinominazione di ciò che era sempre avvenuto: la copia e la riproposizione di storie, scritte od orali, e di manufatti. Viene coniato il termine “pirateria” e l’appellativo di “pirati” perchè nasce un mercato e delle corporazioni e con loro l’embrione del concetto di proprietà intellettuale e di diritto di sfruttamento esclusivo di un’opera.
Quindi, non esiste pirateria senza proprietà intellettuale. Detto così, oggi, sembra un’ovvietà, un fatto naturale, ma non lo è. Non c’è nulla di scontato nel concetto di proprietà intellettuale, in questi quattro secoli è stato dibattuto e contestato e spesso rifiutato e abolito. Oggi noi viviamo nel periodo nel quale l’affermazione di tale principio è al suo apice, è totalitario e dilaga in ogni anfratto, ma esistono segni di crisi evidenti e permangono, anche se molto silenziati, motivi di contestazione fortissimi le cui radici sono tanto profonde quanto lo è lo stesso principio di proprietà intellettuale. Non è per nulla scontato che non si possa assistere a svolte radicali.
La guerra alla pirateria che vediamo squadernarsi è diventata globale e assume tinte da tattiche controterroristiche governate dagli stati, ma la storia insegna che non esiste diritto di proprietà intellettuale senza pirateria, tanto più forte è il primo tanto più vasta sarà la seconda.
Quello che noi vediamo, ci ricorda Adrian Johns, sono gli effetti della pirateria, i contenuti digitali duplicati, i testi copiati o gli oggetti e i medicinali contraffatti. Quello che spesso sfugge, e per questo Pirateria è un saggio prezioso, sono i motivi culturali della pirateria. A fianco di motivi prettamente economici, gli stessi che sostengono la proprietà intellettuale, esistono e sono sempre esistiti anche motivi culturali, di principio, tanto quanto è valso per la proprietà intellettuale. Quali prevalgano è sempre stato più un fatto di contesto socioeconomico e di condizioni al contorno, non di evidente prevalenza teorica degli uni sugli altri.
Gli Stati Uniti, per fare un esempio, hanno costruito il più grande mercato editoriale del mondo nell’Ottocento e nel primo Novecento definendo l’impianto di copyright e tutela dei diritti d’autore che oggi ben conosciamo ad uso interno. Le tutele valevano e venivano applicate per regolare il mercato interno, non per l’estero. Il mercato editoriale americano si è sviluppato quasi totalmente ripubblicando i libri usciti o in uscita a Londra e nel resto d’Europa, senza curarsi di diritti d’autore e proprietà intellettuale, e anzi adottando tattiche spionistiche del tutto paragonabili a quelle messe in campo dai cinesi in tempi molto più recenti con i prodotti industriali.
Le prospettive cambiano.
Lo stesso, nel Settecento, quando lo scontro sulla proprietà intellettuale fu cruento in Inghilterra e nel resto d’Europa, con le diverse posizioni che si davano battaglia in Parlamento, quando nacque anche la distinzione tra opere letterarie, possibilmente soggette a copyright, e invenzioni meccaniche invece possibili oggetto di brevetto, la diffusione della pratica della ristampa e ripubblicazione senza vincoli fu così ampia e vivace che editori e stampatori, i quali erano gli attori di trame noir con furti, azioni clamorose, ricatti, doppi, tripli giochi e corruzioni, che il mercato editoriale divenne talmente efficiente, sia come prezzi delle stampe sia come tempi di uscita che si contavano in giorni, se non in ore, che è opinione diffusa tra molti storici, tra cui Adrian Smith, che l’Illuminismo e la nascita della scienza e della società moderna abbiano un debito enorme nei confronti della pirateria.
Ancora, nell’Ottocento fu grazie alla pratica della pirateria, non considerata tale vista però da altra parte, che si rafforzarono i sentimenti nazionali e l’identità collettiva in Irlanda e negli Stati Uniti. Il rifiuto del concetto di proprietà intellettuale, soprattutto come diritto internazionale, fu un fattore geopolitico fondamentale. Non c’è da stupirsi quindi che pratiche simili le si veda anche oggi applicate, ad esempio, da Cina e India. Ripercorrono un sentiero tracciato secoli fa e noi ripetiamo quello che dicevano gli inglesi a proposito degli irlandesi indipendentisti o dei coloni americani in rivolta.
Faccio un salto di quasi un secolo e arrivo alla radio. Il capitolo dedicato alla prima diffusione del servizio radiofonico da parte della BBC in Gran Bretagna è strepitoso per quanto esemplare del problema inestricabile che pone la tecnologia. La radio nacque come servizio a pagamento, naturalmente, che si otteneva richiedendo una licenza e ottenendo un oggetto, la radio appunto, che era sigillato, preimpostato su una certa frequenza, vigeva il divieto di manomissione ed era prodotto da un consorzio di aziende in regime di monopolio. Quindi un unico disegno, parti componenti prespecificate e nessuna alternativa.
Una strategia che suona familiare.
Il fallimento fu spettacolare, tanto che più volte la BBC fu sull’orlo di sospendere il servizio e chiudere baracca per l’impossibilità di far rispettare tali imposizioni. Fu una battaglia persa in partenza. La pirateria si diffuse talmente velocemente e in modo talmente ampio che a un certo punto l’unica soluzione fu di accettare il fatto compiuto e cambiare completamente approccio.
Notevolissima è la ricostruzione dello scontro culturale che avvenne in quel periodo, tutto giocato sul ruolo e l’importanza di non soffocare lo spirito innovativo e la creatività delle persone di fronte alla nuova tecnologia. Per questo, anche quando fu chiaro che la licenza cosiddetta “per sperimentatori”, quella che permetteva il disassemblaggio dell’apparecchio e la sperimentazione sulle frequenze (fatto questo che aveva un notevole risvolto pratico per l’annoso problema delle interferenze e delle oscillazioni sul segnale trasmesso che si venivano a provocare), veniva richiesta in larghissima maggioranza da persone che intendevano solo utilizzare un apparecchio alternativo, illegale ma molto più economico rispetto alla radio della BBC, nonostante questo prevalse la volontà politica di non abolire o imporre limiti stringenti come prove pratiche per accertare le competenze tecniche o qualificazioni professionali.
Un esempio lampante del ruolo, positivo o negativo, che necessariamente gioca la politica nei confronti della tecnologia e dell’innovazione. E anche un esempio lampante di come le motivazioni culturali esistano e siano potenti, ma richiedano fatti e decisioni concrete precise. Tutto il contrario di quello che si sente dire oggi: i ragionamenti culturali sono aria fritta e contano solo il mercato e gli interessi di questo o di quello; oppure i ragionamenti culturali sono sbrodolate penose e in malafede proposte da gente che si vuole solo passare un velo di cipria seguiti poi dal nulla o da palliativi ridicoli.
Nel Novecento, prima come contrasto alla ristampa selvaggia dei testi e degli spartiti delle canzoni da parte della nascente industria musicale, poi come contrasto agli ascolti pirata della radio da parte della BBC nascono le iniziative organizzate di antipirateria da parte delle industrie interessate. Nel primo caso, l’industria musicale inaugura la stagione delle azioni talvolta violente di repressione mediante l’utilizzo di polizie private (squadracce di energumenti, detto in modo più chiaro); la BBC invece, avendo un ruolo istituzionale che mal si conciliava con l’invio di picchiatori nelle case di comuni cittadini, si ingegnò con soluzioni fantasiose come sistemi di triangolazione del segnale per individuare i pirati, i quali però funzionarono in modo talmente inaffidabile da essere di nessuna utilità, salvo avere una blanda funzione deterrente data dal fatto di far circolare per le strade delle città inglesi, e nel modo più vistoso possibile, un lugubre autocarro nero con una minacciosa antenna sul tetto.
Un salto di scala avvenne con l’avvento dei nastri magnetici, sia rispetto ai dischi in vinile ma soprattutto per l’ingresso della pirateria nel mercato televisivo e cinematografico. I costi per la duplicazione si abbassarono enormemente e la qualità delle copie schizzò al cielo. La pirateria investì l’industria cinematografica, un colosso di dimensioni e peso politico enormemente maggiore rispetto alle case discografiche, che reagì ripristinando le tattiche violente da squadre paramilitari e scatenando un’attività lobbistica furibonda col Congresso americano.
In coincidenza di tutto questo, siamo durante gli anni ’80, l’industria elettronica giappnese invade gli Stati Uniti e la Sony, la sua testa d’ariete, sconvolge il mercato prima con il Walkman per la musica, poi col Betamax per le videocassette.
La ricostruzione di Johns è splendida. Il boicottaggio e le pratiche ostruzionistiche che gli Stati Uniti misero in campo furono colossali, tanto che non fu un caso che Sony si risolse a entrare direttamente nel mercato cinematografico acquisendo alcuni studios e case di produzione per rendersi una presenza locale.
E neppure fu un caso che nella prima, cosiddetta, guerra degli standard tra Betamax e VHS, con il secondo tecnicamente inferiore rispetto al primo, Betamax ne uscì sconfitto. L’aneddotica popolare vuole che sia stata la decisione dell’industria del porno di adottare VHS a spostare l’ago della bilancia. Può essere che sia vero, ma di sicuro a monte di quella come di molte altre decisioni che decisero la partita ci fu una politica protezionistica selvaggia.
Infine, Johns chiude con uno sguardo sulla nascita dell’epoca digitale, gli albori dei primi scontri tra software proprietario e privo di proprietà intellettuale, fino alla scelta, di compromesso e accomodante rispetto le istanze dei colossi dell’informatica, dell’open-source. Bella anche questa ricostruzione, una delle migliori che abbia mai letto, di molto superiore a ogni analisi che abbia incontrato scritta da professionisti dell’Information Technology.
Un saggio notevolissimo. La fatica di leggerlo è ricambiata tutta, se lo leggete tenete duro senza saltare le parti più pesanti, perché alla fine tutti i tasselli del puzzle si incastrano.