2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Il tempo materiale – Giorgio Vasta

IL TEMPO MATERIALE
Giorgio Vasta
Minimum Fax 2008

Bel libro questo di Giorgio Vasta, che ho conosciuto a Roland scritture “Macchine e animali” ed è un tipo simpatico, per questo ho deciso di leggerlo.
Non che faccia molta differenza, ma ci tenevo a dire che Vasta è uno simpatico, tutto qua (anche Ascanio Celestini e Paolo Nori sono stati simpatici, ma li ho sentiti solo mentre erano sul palco ed entrambi sono professionisti del palco per cui l’effetto è ormai collaudato).

In più questo Il tempo materiale è il libro d’esordio di Giorgio Vasta, senz’altro un bell’esordio, detto piano e piatto evitando quel tono scivoloso da «poverino, è un esordiente, trattiamolo bene» che spesso sento o leggo in giro e che mi fa andare in bestia visto che “esordiente” fa semplicemente rima con “deficiente”, non è un’assonanza rivelatrice di un’essenza, e quindi, se uno scrive un bel libro è un bel libro, se scrive una schifezza è una schifezza, esordiente o veterano che sia, tanto che io mi immagino pure che uno scrittore esordiente, a sentirsi trattare con quel tono da chioccie compatenti avrebbe voglia di rispondere con un succoso sputo in un occhio a quelle solfe.
Ultima cosa che dico per chiudere il prologo prolisso è che questo libro è stato tra i finalisti del Premio Strega 2009 e per fortuna che non lo sapevo se no avrei rimuginato prima di prenderlo, questo per la grande simpatia che nutro verso il Premio Strega; se poi l’avesse vinto allora non l’avrei letto manco morto, che io faccio come con le pubblicità dei prodotti del supermercato: più loro mi rompono le balle con la pubblicità e meno li compro che così me li immagino a fare le riunioni a dire «la pubblicità non tira, c’è la crisi»… no, no, tira, tira, ma dall’altra parte.

Detto questo, Giorgio Vasta ha scritto anche altro, ma io ho iniziato da qui e mi sembra di aver scelto bene, niente schianto nella curva a banana (per chi non sa cosa sia la faccenda della gente che si schianta nelle curve a banana, se proprio ha del tempo da perdere in facezie, trova tutta la spiegazione della mia farneticante teoria nel commento a Pulp Roma di Tommaso Pincio).

La storia è bizzarra. Ci sono tre ragazzini undicenni palermitani, media borghesia, niente scatafasci umanitari: Scarmiglia, Bocca e quello che narra, la cui famiglia è formata dalla Pietra, che è il padre, lo Spago, che è la madre e il Cotone, il fratellino.
Siamo nel 1978, clima di tensione, Brigate Rosse e rapimento Moro, i telegiornali non fanno che parlare di quello.
I tre ragazzini decidono di diventare brigatisti in fieri, nel senso che loro non sanno esattamente cosa voglia dire e nessuno sa che loro lo sono diventati, men che meno lo sanno le Brigate Rosse o la Polizia; teorizzano, si indottrinano a vicenda, si danno nomi di battaglia—compagno Volo, compagno Raggio e compagno Nimbo, rispettivamente—fondano una cellula terroristica denominata NOI (Nucleo Osceno Italiano), che suona più come un’avanguardia surrealista-nichilista d’inizio Novecento che come un gruppuscolo della sinistra extra-parlamentare degli anni Settanta, e poi fanno i terroristi spargendo terrore nel quartiere palermitano.
Mi fermo qui con i dettagli della storia, non anticipo altro.

Voglio invece dire qualcosa su come è scritto questo libro, perchè lì sta la sua natura, e anche il suo peccato.
Vasta scrive mettendo una lente distorcente o un vetro smerigliato davanti al lettore. Già la storia dei tre undicenni che diventano teorici dell’eversione e militanti terroristi è evidentemente deforme, le stesse parole che fa pronunciare ai tre sono abnormi in bocca a degli undicenni.
Ma questo è un effetto voluto, è l’effetto della smerigliatura, non è uno di quegli scivoloni grotteschi che si leggono in tanti libri nei quali ci sono bambini che si vuol far credere possano discettare come intellettuali in pensione.
Lo stesso effetto lo si ha per tutto, in questo sta l’evidenza e la coerenza di Vasta: tutto è distorto dalla lente e frastagliato dal vetro screziato. Ogni cosa. La città, le strade, la scuola, perfino le nuvole e il cielo, i cani, i gatti, i piccioni e le aiuole, il parco pubblico e la spiaggia. Anche le persone, tutto, tutto distorto in una prospettiva oblunga e graffiata.
Giorgio Vasta è bravo nel far questo, disegna l’intera scena attraverso questo filtro sporco.
Lascia solo un frammento non storpiato, un piccolo oblò trasparente che segue un unico personaggio: la bambina creola e attraverso di lei la storia si scioglierà.

Per il resto, i gatti sono rognosi e infetti, i parchi pullulano di serpi, il piccione è aggressivo e lotta con cani inselvatichiti, la scuola e i palazzi e le case sono smozzicate, scrostate e illuminate da una luce obliqua, la gente è rozza e dialettale, dove il dialetto è simbolo di barbarie umana, turpitudine, stato animale. È uno squarcio di una Palermo livida e deprimente, un buco del cesso, una latrina sporca come lo è l’universo intero.
Ecco la lente che distorce e la prospettiva oblunga. Questo libro lo si legge attraverso questo filtro.
Vi copio un pezzetto.

Adesso la pioggia è vera. Viene giù a fiotti, a espulsioni rancorose. Mentre acceleriamo il passo per raggiungere la fermata dell’autobus in via Roma, dalla carreggiata ci schizza addosso l’acqua sporca. Arriviamo alla pensilina, aspettiamo. Bocca si accorge che sull’altro lato della strada c’è il corpo del cane. È carbonizzato, c’è ancora il fumo che si solleva e qualche fiamma che la pioggia sta spegnendo.
Saliamo sull’autobus. Ancora facce, tra il metallo grigio tubolare e i sedili di legno color miele pieni di scritte incise con le chiavi. Andiamo in coda, mi metto contro il finestrino che in alto non è del tutto chiuso, prendo l’aria. Il fondo di via Roma è fatto con i sampietrini, l’autobus non ha ammortizzatori e si balla. La pioggia fuori aumenta ancora; dentro tutti si tengono l’uno all’altro, in una solidarietà irreale. Io sto in equilibrio addossandomi con le braccia conserte e il petto contro il finestrino, strizzandomi l’acqua addosso. Alle fermate sale altra gente, devo spostarmi ma non voglio toccare la sbarra. Mi incastro in un angolo, non serve a niente, ne salgono altri ancora, mi spostano e allora afferro la sbarra, forte e con disgusto.Per distrarmi e non sentire gli odori e le voci e la mia mano guardo fuori la strada bagnata, le pozzanghere infinite, la doppia fessura nera dei tombini con l’acqua reflua che gorgoglia sopra, l’acqua nera che allaga i cortili e i catoi, sommerge i banchi del mercato, i vicoli, il fegato animale.

Questo è lo stile de Il tempo materiale, uno stile che io definirei metallico e gastritico.
Proprio così: metallico perché freddo, duro, a spigoli vivi, con quel sapore spiacevole che lascia in bocca il metallo; e poi gastritico perché aspro, rancoroso, contratto in un raschio acido, astioso.

Metallico e gastritico.
Mica male scrivere un libro così.
Però qui sta anche il peccato di Vasta: quello di sovraccaricare la prosa di detriti lessicali, sporca la frase sovraggettivandola, la scena è pesante di qualificazioni.

Ecco che, apro a caso, il fogliame è “casuale”, e diventa “una parete” di rami e foglie “nere”; il cespuglio è “sferoidale” che affiora “a mezzo metro” dal terreno e poi ancora è fatto di rametti “ostili” e di foglie “livide”, è un “globo blu” che è insieme “cassaforte e strumento di divinazione”.
La lettura si inceppa, come se venisse continuamente sgambettata e spintonata, occorre fermarsi e riflettere… “fogliame casuale”, “cespuglio sferoidale”… bisogna ripeterselo… “fogliame casuale” “cespuglio sferoidale”… poi si procede e ci si inceppa di nuovo… “globo blu”… “globo blu”.

Un altro esempio, rileggete il pezzetto di prima. Cosa vede dal finestrino dell’autobus?
Una strada bagnata, e va bene, e poi? Pozzanghere; come sono le pozzanghere? “Infinite”. Andate avanti, una fessura, no, una “doppia” fessura dei tombini, come “doppia”? Pensateci un momento, non sono fessure, è una doppia fessura, sono tombini con una doppia fessura, io fatico a immaginarmeli, forse non li ho mai visti tombini con una doppia fessura, procedete, è “nera” la fessura, come tutte le fessure, sono nere le fessure, ma Vasta ce lo ripete, la doppia fessura è nera, e c’è l’acqua “reflua”, piove a dirotto, lo sappiamo, però leggiamo che c’è l’acqua “reflua”, non solo, è “acqua nera”, perché è buio, perché è sporca, perché è zeppa di marciume, e quest’acqua allaga tutto quanto, i banchi, i catoi, cosa sono i “catoi”?, i vicoli e il “fegato animale”, perchè il “fegato animale”?

Questo è solo un piccolo esempio di come scrive Vasta in questo Il tempo materiale, in modo metallico e gastritico, questo va bene, ma anche carico di attrito e allora la lettura talvolta stenta, fatica ad aprirsi un varco tra quei cespugli sferoidali che sembrano globi blu, pieni come sono di rametti ostili. Non è una prosa scorrevole, non lo vuole essere e va benissimo, però, forse, l’attrito è eccessivo. Io l’ho percepito come eccessivo, lasciando scivolare un poco di più lo sguardo del lettore non si sarebbe smontato l’effetto metallico e gastritico e si sarebbe guadagnato in ritmo e suono che così, soprattutto nel primo terzo, è frammentato, disarticolato.

L’ultimo appunto, completamente soggettivo, è sul finale. Ci sta quella chiusura, ma a me non è troppo piaciuta. Lì, nel finale, Vasta abbandona il metallico e il gastritico togliendo la lente deformante. Tutto si smussa, si rappacifica, ci conforta.
Preferivo non essere confortato, preferivo un finale che fosse una sciabolata, un colpo brutale, una crepa sul vuoto. Ma questo non ha molta importanza che tanto si sa che per ogni finale c’è a chi piace quando finisce male e a chi non piace quando finisce male, poi c’è a chi piace quando finisce bene e a chi non piace quando finisce bene, che quando finisce male doveva finire bene e quando finisce bene sarebbe dovuto finir male. Accontentare tutti è difficile.

Comunque, bravo Giorgio Vasta.

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Questa voce è stata pubblicata il 20 ottobre 2012 da in Autori, Editori, Minimum Fax, Vasta, Giorgio con tag , , .

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