«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL SUONO DEL SUO NOME – Viaggi nel mondo islamico
Cees Nooteboom
Traduzione di L. Pignatti
Ponte alle Grazie 2012
Cees Nooteboom è uno di quei pochi autori dei quali attendo ogni nuova uscita; passano un paio di anni dall’ultimo titolo e le mie occhiate sui banchi o nelle vetrine delle librerie stringono il fuoco sul suo nome, inizio a cercarlo, so che comparirà, deve comparire, è il tempo di Nooteboom.
E compare. E io lo compro e lo leggo.
Bello, meno bello, non importa, lo leggo sempre, ormai è un compagno di viaggio e i compagni di viaggio non si abbandonano mai.
Cees Nooteboom è prima di tutto un grande viaggiatore, poi uno scrittore; non sono sicuro sia anche un grande scrittore, forse non lo è, forse è un bravo scrittore che scrive del proprio essere un grande viaggiatore.
Lo scrivere e il viaggiare sono mescolati insieme e a fatica si può distinguere l’uno dall’altro, non solo nei suoi libri di viaggi, come il bellissimo Verso Santiago o questo Il suono del suo nome, ma anche nelle sue storie e nei suoi romanzi – quasi tutti pubblicati da Iperborea – il viaggio c’è sempre: persone in viaggio, pensieri in viaggio e parole in viaggio, partenze, distacchi e incontri.
Questo è il cuore di Cees Nooteboom.
Per questo dico che non so se sia un grande scrittore, perché non ha scritto e non scriverà mai un capolavoro. No, Cees Nooteboom non è scrittore da capolavoro nè da emozioni squarcianti.
È scrittore da melodie calde di un tramonto sulla Sierra spagnola, da sguardi che si perdono in una nuvola di sabbia che si alza dalla piazza di Timbuktu oppure da amori che si distaccano attraversando continenti in direzioni opposte, sogni che trasportano in luoghi remoti.
Sfumature, tinte acquose, ritmi lenti, poesia e attese, sogni canicolari e sguardi estatici sull’estraneità e l’inconoscibile del mondo.
È molto meglio che lo dica lui però, invece di farlo io.
I brani e le poesie di questo libro sono i racconti di un viaggiatore innocente, o forse dovrei dire di un viaggiatore in un tempo innocente. Ero giovane, e visitavo un mondo minacciato da altri pericoli: la bomba atomica, la guerra fredda.
Ero povero, e attraversavo un mondo di grande povertà e di bellezza inimmaginabile. Vedevo il sultano del Marocco in sella al suo cavallo, vedevo gli ufficiali che gli baciavano le mani, vedevo i cantastorie e gli incantatori di serpenti a Marrakech, sentivo il richiamo ripetuto del muezzin a Kairouan, Tangeri, Giakarta, Kuala Lumpur, Teheran, Qom e Dubai, osservavo l’intensità dei credenti nei piazzali delle moschee di Mopti, Isfahan, Dehli. Vedevo un mondo che volevo vedere, un mondo esotico, orientaleggiante, da mille e una notte, le forme femminili delle cupole d’oro e smalto, la seduzione della calligrafia araba sinuosa, pur rimanendo estraneo, così come ero estraneo alle sconfitte della Siria e dell’Egitto, alla tragedia disperata tra Israele e i palestinesi che funge da miccia in un mondo estremamente infiammabile. Ma tenersi all’esterno non è più possibile, l’esterno ci è entrato dentro e continuerà a farlo. Ho avuto il primo presentimento in tal senso nel 1976, con uno sputo nella città santa di Qom.
Cees Nooteboom mi affascina perchè mi placa col suo viaggiare facendosi trascinare dalla corrente e le sue frasi soffuse come onde di campo.
È uno scrivere oppiaceo il suo, con uno sguardo che contempla ciò che non si conoscerà mai.
Il suono del suo nome è una raccolta di brevi resoconti, note di viaggio, sguardi, per lo più, i suoi sguardi di viaggiatore che passa attraverso società che non conosciamo, noi occidentali, culture che non comprendiamo, mondi che ci sono estranei e sempre lo saranno.
Passa come un’ombra in luoghi desolati, sperduti oppure affollati in modo impensabile, brulicanti; corre dietro al soffio della morte che accarezza il volto di quelle persone, come un sospiro quotidiano; oppure rimane incantato dalla vita che resiste e procede in un contadino a dorso d’asino, in un falò sulla piazza di sabbia, in luoghi che sembrano adagiati alla fine del mondo.
Sono frammenti che vanno dagli anni Sessanta fino ai Novanta raccolti in paesi islamici del Nord Africa – Marocco, Tunisia, Mali – in Iran, in India e anche in Spagna, con le sue vestigia dell’antica cultura araba.
E il tratto, di nuovo, mi ripeto, lo so, è la meraviglia estatica che l’autore prova nel trovarsi faccia a faccia con la propria estraneità, nel confrontarsi con l’impenetrabilità delle culture. È l’ammissione, pacata e pacifica, dell’impossibilità di essere parte di ciò che si vede e quindi di sentirne la vera natura. Dei simboli, delle scritture, dell’estetica, della vita, dell’arte.
Le moschee sono prive di raffigurazioni, l’Islam non ha immagini sacre. Questo è noto. Lui lo vede e lo riporta. Quale sia il significato profondo, non lo si può sapere, perchè non se ne fa parte.
Non si può essere parte di culture alle quali non si appartiene. Però si può capire qualcosa e soprattutto si può vedere con i propri occhi che non c’è mai una sola società e un solo modo di vivere.
E poi all’improvviso, quasi a voler cancellare questa sensazione, succede qualcosa vicino a me, e in quello stesso istante è chiaro cosa sta succedendo: niente; passano solo due uomini, ancora più silenziosi del silenzio, uno vestito di teli a righe è in groppa a un asino, ma gli zoccoli dell’asino non si sentono, l’altro cammina a piedi nudi, sembra una tunica grigia con i piedi, e per quanto siano in tre non fanno nessun rumore. È un sospiro lento che arriva da dietro un angolo della strada, qualcosa di così antico che mi assale, uomini che non vengono da nessun posto, o forse dai latrati. Volto le spalle a quell’apparizione che si allontana. Il chiaro di luna colpisce il verde esplosivo, prendo strade di sabbia sempre più strette, e non c’e veramente nessuno, fino quando torno alla luce, e anche lì soltanto un vecchio che tasta tutte le porte – uno – e una donna sotto un telo nero che le copre la testa e tutto il resto, fino a terra, come farà a vedere – due – e seduti su stuoie, in una nuvola di hashish, uomini avvolti in teli che giocano a carte intorno a una candela – tre – lo straniero passa e vede, niente di più, e – quattro – un autobus, illuminato, ma senza nessuno a bordo, che arriva dal mondo buio, inesistente, l’autobus della Société National El Gouatel.
Dolce Nooteboom, non cercate in lui la scudisciata o l’affabulazione, ma lasciatevi solo cullare da una nenia appena sussurrata, di notte, quando fuori non c’è nulla.