2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Il talento – Cesare De Marchi

IL TALENTO
Cesare De Marchi
Feltrinelli

[Libro disperso]

Ero combattuto. Tra scrivere un commento che si sarebbe potuto riassumere con «Ma va al diavolo, De Marchi!» e uno completamente opposto.

C’ho rimuginato due giorni, mettendo in fila le varie impressioni, riascoltandomi mentre leggevo e osservando i pensieri che vagavano portandosi appresso questo libro. Alla fine ho deciso, e ne sono convinto, di scrivere il commento completamente opposto.

C’è un breve antefatto che vi racconto subito, e poi riprendo alla fine per porre una domanda un poco polemica. In mezzo, come al solito, cerco di raccontare che libro ho letto.
L’antefatto è che fino a qualche settimana fa io non conoscevo assolutamente né questo libro e neppure l’autore. Mai li avevo sentiti nominare, uno e l’altro. O forse sentiti e dimenticati, che è la stessa cosa.
Il nome di Cesare De Marchi l’ho sentito in occasione di un dibattito che si è svolto durante le tre giornate di Roland. Il tema aveva a che fare con la crisi dell’editoria, “l’anno nero” del mercato editoriale, lettori che scompaiono, fuggono o tradiscono, come-fare-come-non-fare, di chi è la colpa, ma che diavolo succede?, proviamo a fare così, no si dovrebbe fare cosà, eccetera, eccetera. Quel tema lì.
Si stavano accapigliando in tre: Alberto Rollo, storico editor di Feltrinelli, Giuseppe Genna e Christian Raimo, editor pure loro ( de Il Saggiatore e di Minimum Fax, rispettivamente) e in più scrittori. Le ragioni della discussione accesa non sono molto importanti da riassumere adesso, tanto più che in quei dibattiti è difficile articolare fino in fondo un ragionamento complesso e si procede a battute; quello che importa è che a un bel momento Alberto Rollo sbotta dicendo, suppergiù, «Ad esempio Cesare De Marchi, che è uno dei migliori scrittori italiani!»; e con questo voleva intendere che uno dei migliori scrittori italiani, pubblicato da Feltrinelli, meglio precisare, non lo legge nessuno, mentre altri libracci indegni vendono caterve di copie. Gli altri due hanno annuito facendo «Eh sì, effettivamente… Cesare De Marchi…». Al che mi sono risvegliato dal torpore e ho preso mentalmente nota: Cesare De Marchi.

Il talento ho scoperto essere il suo libro più celebre, oltre che vincitore del Premio Campiello 1998, ma a me di questo insignificante dettaglio non importa nulla, e quindi eccolo qua.
Il resto dell’antefatto ve lo racconto alla fine, insieme alla domanda un poco polemica.

Ora forse vi chiederete perchè ero combattuto e per un po’ ho pensato di mandare al diavolo questo libro e il suo autore.
La ragione è che Il talento è un libro tanto bello quanto irritante il cui protagonista e voce narrante biografica , tal Carlo Marozzi, è una figurina sbiadita di archetipo italico, vittima e inetto, ingenuo e cialtrone, donnaiolo accalappiato e deserto sentimentale.
È l’italiano medio Carlo Marozzi, nato negli anni Cinquanta, adolescente nei Sessanta, giovane uomo nei Settanta e uomo maturo negli Ottanta e Novanta; è l’uomo che fa della mediocrità la sua arma di sopravvivenza, tanto da rendersi un paradosso ambulante: uomo di eccezionale mediocrità, una mediocrità superiore alla media.
Mediocre in tutto. Una famiglia di origine mediocre, un’infanzia mediocre, una scuola mediocre e non terminata, lavori che cambiano ma sempre ben agganciati sui binari della mediocrità, amori mediocri, sotterfugi mediocri, imbrogli mediocri, menzogne mediocri, lussi mediocri—l’auto sportiva rivenduta perché sommerso dai debiti—fortune mediocri— un colpo di buona sorte al casinò romanzato come intuito preveggente.

In sala parto non ero stato che una comparsa, introdotta e subito rispedita fuori: e comparsa incominciai a sentirmi anche a casa, dove Alice aveva occhi solo per la bambina, e per me tutt’al più ordini, ordini che mi gettava da una stanza all’altra senza perdersi in formule di cortesia, e più spesso con voce seccata. Quanto alla piccola, per la quale era andata a pescare chissà dove l’assurdo nome di Ariela e gliel’aveva affibbiato con una soddisfazione paragonabile soltanto al mio dispetto (che io feci l’errore di non dissimulare): quanto alla bambina, dicevo, non mostrava il minimo interesse per la mia persona e gli unici sguardi che mi rivolgeva, mentre poppava alacremente al petto che io non riuscivo più ad avvicinare, erano severi e pieni di sospetto. Insomma il tenero gioco degli affetti famigliari si svolgeva tutto tra madre e figlia; io, terzo incomodo, mal tollerato perfino come spettatore, ne ero escluso.
La mesta constatazione mi richiamò l’omissione di cui ero stato fatto oggetto nella mia infanzia e poi ancora nell’adolescenza fino all’atto liberatorio col quale, sulla soglia della giovinezza, avevo lasciato la casa materna. Tanta strada per ritrovarmi al punto di partenza! Così, benché per carattere io non abbia nessuna propensione all’autocommiserazione e preferisca divertimenti anche futili agli inutili piagnistei, in quel momento non potei fare a meno di sentirmi particolarmente sfortunato, se non proprio perseguitato dalla sorte. 

Mediocre, mediocre, mediocre… tutto nella vita di un uomo normale, un Carlo Marozzi qualunque, un uomo senza qualità, se si è in vena di citazioni, è mediocre.

In questo senso il libro è irritante, perché Cesare de Marchi ironizza, già da quel titolo beffardo, sui presunti talenti che ogni buon italiano dispone sempre in gran misura, e racconta la storia di una generazione e di un’epoca—e nel far questo ha molto in comune con quel gran libro generazionale che fu La vita agra di Luciano Bianciardi—ma forse fa anche di più: definisce il canone di un vero e proprio prototipo umano, ripercorrendo la mediocre vita di un personaggio insignificante eppure pieno di talenti.
Talenti che si riassumono in due tratti specifici: gli occhi azzurri e la convinzione di essere sempre alla vigilia di una svolta, quella che gli renderà giustizia dei suoi meriti stropicciati e gettati nel secchio da una sorte avversa e una società ostile.
Quali sarebbero questi meriti? Nessuno, se non forse l’essere sopravvissuto a una famiglia di origine la cui mediocrità immota (del padre) o rancorosa (dellla madre) gli hanno sottratto l’agognato diritto alla felicità. Oltre a questo, niente altro da segnalare a parte l’unico atto di reale amore che l’anima di Carlo Marozzi riesce a produrre, nei confronti del fratello maggiore, “mongoloide”.
Carlo Marozzi è per tutto questo, quindi, quel che si dice “un galantuomo”, come lo fu suo padre, come quasi chiunque lo è.

Un prete grasso e sudato comparve davanti alla bara e, premendosi a più riprese sulla fronte il fazzoletto appallottolato, tenne un discorso di commiato da mio padre nel quale cercò volonterosamente doti da elogiare senza alla fine trovar di meglio che qualificarlo “un galantuomo”.
Questa parola mi aprì gli occhi della mente. Mio padre era stato un galantuomo!, ossia: non aveva dato fastidio a nessuno, aveva diviso il suo tempo inoperoso tra le Poste e il televisore, portato a casa lo stipendio a fine mese e mangiato in silenzio qualunque cosa arrivasse in tavola; non aveva mai attizzato liti domestiche, semmai si era sforzato di sedarle, e qualche volta aveva persino preso le mie parti contro mia madre, in genere ottenendo un effetto contrario a quello cercato. Si potrebbe potuto giudicarlo un uomo insignificante, ma non era sbagliato definirlo un galantuomo.

«Ma va al diavolo, Cesare De Marchi!», mi era venuto in mente di dire, per non confessare invece «Non serviva che me lo ricordassi, maledizione!», perché nel suo raccontare una vita fatta di normale nulla, normale grettezza, normale illusione, normale mediocrità, normali rapporti umani inesistenti, normale insignificanza, De Marchi traccia una sagoma nella quale un giorno o l’altro ci siamo ritrovati in parecchi, e non fa piacere sentirselo raccontare.

Ma questo è pure il motivo per cui sapevo di avere anche l’opzione opposta, quella che ho scelto: riconoscere che solo un grande scrittore è in grado di disegnare una sagoma così aderente a un’essenza impalpabile, eppure ben chiara a tutti quando la vedono negli altri o se la sentono addosso, come è la normale, insignificante mediocrità di un’esistenza.

Anche lo stile che usa De Marchi è elegante ed irritante, e mi ha irritato per una buona metà del libro. Una prosa circonvoluta e ridondante, svolazzante di aggettivi dal gusto medio-borghese dozzinale di un’Italia degli anni Sessanta, aggettivi che si posano sulla pagina come centrini all’uncinetto su testiere di poltrone consunte o al centro di tavole massicce e inutilmente ricciolute; mausolei casalinghi dell’agognata conquista di un’apparente decoro di classe che si è sollevata dal pantano della ruralità pezzente per issarsi nel proletariato urbano smanioso di lezzi triviali e gite in automobile. È lo stile da prima commedia all’italiana di Dino Risi con il volto di Nino Manfredi, lo stile del galantuomo di buon cuore ma troppo limitato perchè abbia una qualche efficacia, educato alla grossa e per questo sempre sopra o sotto le righe, semplice, apatico, istintivo, diffidente e generosamente illuso. Il solito cazzone, riassumendo con una ben nota espressione popolare dotata di ricca eloquenza.

Così celestialmente abbigliato mi arrischiai oltre la soglia di alcuni ristoranti di lusso, nei quali, non potendo naturalmente portare Maria, invitai vere donne: signore schizzinose e crudeli, come ne incominciai a conoscere a presentazioni di libri, conferenze e simili occorrenze mondano-intellettuali, alle quali per la verità venni inizialmente attratto dal rinfresco annunciato in calce al cartoncino d’invito che gli editori, largheggiando inspiegabilmente, spedivano anche a me: e lì mi aggiravo lungo il buffet[…]
Purtroppo non erano donne che potessi tenere per più di una serata: accettavano bensì il mio invito a cena, mi accompagnavano a casa e spesso non opponevano che una condiscendente resistenza a me e alle molle del mio nuovo materasso, ma quando poi, il giorno dopo, ripensavano con mente fredda alla modestia del mio alloggio, emendavano istantaneamente la loro condotta facendosi negare a tutte le mie successive istanze telefoniche.

Aveva ragione Alberto Rollo, gran scrittore Cesare De Marchi e gran libro Il talento. Leggerò anche il nuovo di Cesare De Marchi, L’uomo col sole in tasca, appena uscito.

Fine del commento; ora completo l’antefatto e faccio la domanda un poco polemica.

Eravamo arrivati che avevo preso mentalmente nota del nome di Cesare De Marchi. La settimana seguente ho individuato Il talento come il libro che volevo e mi sono recato presso una nota e storica libreria milanese della quale avevo conosciuto, sempre a Roland, il libraio (non faccio il misterioso, è la libreria Centofiori).
Non l’avevano, ma questo me lo ero immaginato (non per mie doti divinatorie, ma solo per aver verificato che il libro, edito da Feltrinelli, non era disponibile in alcuna libreria della catena Feltrinelli di Milano, Bologna e Roma), però risultava ordinabile, quindi l’ho ordinato. Tempo di consegna un paio di giorni, un SMS mi avrebbe avvisato. Passa una settimana e chiamo per sapere del mio libro. Risposta costernata dalla libreria: «Non capiamo… non lo consegnano… forse con il prossimo invio». Passo in libreria per un altro libro dopo un paio di giorni e chiedo nuovamente informazioni. Ancora niente, ancora perplessità stampata nella smorfia del libraio. Nuovo controllo, è ordinabile; altra verifica più approfondita sui magazzini milanesi. Risposta: esisteva un’unica copia nei magazzini di distribuzione di  Milano. Telefonata a qualcuno e finalmente la conferma definitiva: quell’unica copia sarebbe arrivata il giorno dopo.

Il motivo della scarsità di tale opera mi è risultato immediatamente evidente una volta avuta in mano: l’edizione economica è uscita nel 2000, la copia del libro mostrava ancora il prezzo in lire, 13.000 lire, corrispondenti a 6,71 euro, prezzo che ho pagato.
In sintesi, non lo stanno più ristampando e vanno a esaurimento dei superstiti decennali.

L’antefatto si conclude qui. Ora la domanda che rivolgo virtualmente ad Alberto Rollo inteso come importante esponente dell’editoria, che chiamerò l’Editore, ma anche inteso in carne e ossa per il molto apprezzato, ancorchè forse involontario, consiglio di lettura.
Consideriamo la figura del Lettore, altro archetipo ma di una fauna composita fatta da lettori forti, medi e deboli (o categorie equivalenti), quindi un archetipo uno e trino, diciamo; consideriamo anche la sua disperante e progressiva estinzione, a dar retta alle statistiche.
Infine consideriamo Il talento di Cesare De Marchi, esempio questo di bel libro di un ottimo autore che non legge nessuno (categoria foltissima questa, non va dimenticato) che chiamerò il Libro, ma non solo: che non c’è in nessuna libreria e quindi nessuno può vedere, del quale nessuno scrive sulle arrancanti pagine culturali di molti quotidiani e riviste perché si parla quasi solo di novità o storie sensazionali, e infine che nessun editore cerca più in alcun modo di promuovere, se non per sbaglio durante una discussione in un pubblico dibattito.

La domanda è questa: secondo lei Editore, come fa il Lettore a leggere il Libro se, pur esistendo, nessuno gli dice che esiste? E se il Libro, a suo giudizio, Editore, è tra i più meritevoli (culturalmente e commercialmente) di essere letti, perchè nessuno dice nulla al Lettore?
In altri termini: è come sostenete, cioè che i Lettori scompaiono e non comprano più Libri degli Editori, o, al meglio, ricompaiono solo per comprare pochissimi titoli di libercoli di gran fama, oppure sono i vostri Libri, Editori, che sono scomparsi alla vista dei Lettori e quindi per questo non vengono più acquistati, tranne i pochi pubblicizzatissimi casi letterari?

Ecco, una risposta articolata, non vanamente risolutoria, non semplicistica e sloganistica, che tenti di inquadrare tale problema complesso senza celare gli spigoli fastidiosi, io ancora non l’ho sentita e mi sembra strano, mentre abbondano dibattiti sulla crisi del libro, l’estinzione dei panda-lettori e le proprietà taumaturgiche salvifiche lourdesiane padrepiesche degli ebook.

3 commenti su “Il talento – Cesare De Marchi

  1. Maurizio Mancini
    30 novembre 2014

    bellissimo libro e se si tratta di un inno alla mediocrità non resta che le leggere Stoner di John Williams così saltiamo al di là dell’oceano e ci tuffiamo in un altra storia altrettanto bella e altrettanto ” sotto tono “.

  2. Fiamma
    6 novembre 2012

    Il talento mi perdonerà, come non-lettrice non commento. Su Roland e la scoperta dei libri la risposta alla domanda è contenuta nella domanda stessa: il lettore incontra il libro grazie a un altro lettore, a un libraio che prova a fare da tramite intelligente. Dall’editore mi aspetto che renda il proprio catalogo accessibile in digitale, ben oltre quel 5-10% che oggi copre le novità, i classici, quello che è ordinabile in copia fisica dal bravo libraio. Nello scaffale infinito della rete Cesare De Marchi non sparisce se il lettore continua a cercarlo. Grazie Marco per chiederlo a gran voce, è un merito ;)

    • 2000battute
      6 novembre 2012

      “a un libraio che prova a fare da tramite intelligente”, il che presuppone che chi pubblica libri, l’Editore, intelligente non lo sia. Io mi rifiuto di accettare questa logica, dell’Editore che si limita a scegliere, secondo una propria e incontestabile logica aziendale, cosa pubblicare, produce degli oggetti, di carta o di bit in questo caso non mi sembra rilevantissimo, e poi si limita a qualche campagna promozionale sulle novità, finita la quale questa massa di oggetti indistinta viene consegnata all’efficacia del passa-parola o del libraio intelligente. I dati dicono che in tutto questo c’è qualcosa di serio che non funziona e la soluzione a mio modo di vedere non è solo rendere più disponibili questi oggetti (ristampe, libri digitali o print-on-demand). In questa massa indistinta di oggetti ci sono libri ottimi, libri buoni e libri pessimi. L’Editore lo sa (se non lo sa è grave). Io mi aspetto che faccia la sua parte, perché tutti non li può vendere e così come ha fatto fino ad ora, il risultato è che vende solo quelli che per qualche motivo ricevono in un intervallo breve, maggiore pubblicità o maggiore passa-parola, non quelli che potrebbero continuare a essere letti per più tempo.
      Stanno mandando al macero il valore enorme del proprio catalogo e dovrebbero muoversi in fretta perché rischiano di perdere una o due generazioni di lettori, questo io penso.

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Questa voce è stata pubblicata il 3 novembre 2012 da in Autori, De Marchi, Cesare, Editori, Feltrinelli con tag , , , .

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