«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
I SICILIANI
Gaetano Savatteri
Laterza 2006
Strana scelta, quella di Laterza, di inserire questo I siciliani scritto da Gaetano Savatteri nella collana Economica, visto che di economico non ha molto questa bella storia fatta di tanti camei di siciliani. Certo, qualcosa di economico lo si può sempre far saltar fuori strizzando delle pagine, però resta un mistero, per me, il motivo di questa scelta.
Ma torniamo ai camei. I siciliani sono tanti piccoli ritratti di siciliani, famosi o dimenticati oppure mai conosciuti, grandi uomini e grandi donne, giudici, imprenditori e vedove, ma anche baroni flamboyant che hanno vissuto in una loro personale belle époque anche quando questa era già morta e sepolta in tutta Europa, come Raimondo Lanza di Trabia, oppure nobildonne dal viso porcellanato come Franca Florio; incontriamo frati omicidi, cardinali con stole di dodici metri – «Sempre e solo per la gloria della Chiesa!» – briganti e rivoluzionari; anche vittime, tante vittime, quelle che conoscono tutti come Peppino Impastato e Giovanni Falcone, ma non solo loro, si parla di molte altre poco note, spesso donne, e di tanti carnefici mafiosi o padroni, comunque potenti, e poi conosciamo rivoltosi senza nome ma dalla storia affascinante – Maria Testadilana, così è passata alla storia quella donna poverissima, rozza, violenta e animale che ha seminato il terrore tra le soldatesche borboniche alla testa di un manipolo di rivoluzionari, selvaggi e brutali quanto lei, per poi finire i suoi giorni rinchiusa in carcere quando i borbonici riconquistarono Palermo – e insieme ai rivoltosi ci sono contadini, poeti, minatori di zolfare e cave di sale, veneti e mantovani che trasferitisi in Sicilia sono diventati più siciliani dei siciliani, scrittori: Pirandello dalla moglie pazza, Sciascia, Vitaliano Brancati, tutti legati alla loro rupe natia; scienziati: il mistero di Ettore Majorana e il Nobel per la medicina scippato ad Antonino Sciascia; emigranti di ritorno, capibastone in fuga dall’America, poliziotti, sindaci di New York e celebrati registi come Frank Capra.
Gaetano Savatteri incastona un cameo dietro l’altro tratteggiando con molta abilità i personaggi, restituendo soprattutto gli odori della Sicilia: della terra, dei fiori, del mare, del sangue, odori di lercio, di disperazione, di immobilità; I siciliani inanella una vita di seguito a un’altra, a ognuna dedica poche pagine; si legge così questo libro, senza soffermarsi, senza conoscere veramente quei siciliani ormai defunti ma che insieme hanno fatto la Sicilia, lasciandosi affascinare dalle rievocazioni di una terra che in pochi probabilmente conoscono davvero.
La Sicilia. Da queste pagine ne esce come terra di contrasti feroci, e questo lo si conosce già, dispensatrice di immensa bellezza e torbido orrore, che impregna con i suoi contrasti anche gli animi delle persone; animi siciliani di un candore brillante e turpi come iene al pasto; una terra che tutto ingloba in sè, talvolta abbraccia dolcemente, talaltra stringe con un nodo scorsoio; terra di fughe, ma sempre dolorose, col cuore spezzato; terra di immobilità atavica; terra perennemente in ritardo sulla Storia; terra dal passo lento, che non è quello del continente e neppure quello del mare; terra da amare follemente e disprezzare con violenza; terra indescrivibile, forse, impossibile da racchiudere in un libro.
Qualcosa riusciamo a conoscere, però. Conosciamo la durezza spietata delle parole che diventano pietre con le parole di Carlo Levi che descrivono Francesca Serio, madre di un figlio morto ammazzato dalla mafia.
Vicino al letto, seduta su una sedia, coperto il capo di uno scialle nero, sta, sola, Francesca, la madre. È una donna di cinquant’anni, ancora giovanile nel corpo snello e nell’aspetto, ancora bella nei neri occhi acuti, nel bianco-bruno colore della pelle, nei neri capelli, nelle bianche labbra sottili, nei denti minuti e taglienti, nelle lunghe mani espressive e parlanti: di una bellezza dura, asciugata, violenta, opaca come pietra, spietata, apparentemente disumana. […]
Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come di chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, è la Giustizia. La giustizia vera, la giustizia come realtà della propria azione, come decisione presa una volta per tutte e da cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa, Francesca diffida, e la disprezza: questa fa parte dll’ingiustizia che è nelle cose…
Oppure sentiamo «[U]na voce dall’abisso. Un urlo disperato che rimbalza attraverso i secoli, dal chiuso di una segreta, dal luogo del supplizio, dall’epicentro dell’umiliazione della dignità». Sono i versi di Simone Rao, marchese della Ferla, incarcerato per aver preso parte a una congiura, versi che graffiò sul muro della cella palermitana di una Sicilia che fu l’ultimo luogo d’Europa dove operarono le corti dell’Inquisizione.
Cui trasi in chista orrenda sipultura
vidi rignari la [gran] crudeltati
unni sta scrittu alli segreti mura:
nasciti di spiranza vui chi ntrati;
chà nun si sapi s’agghiorna o si scura,
sulu si senti ca si chianci e pati
pirchì non si sa mai si veni l’hura
di la desiderata libertati.
Molte sono le storie di imbroglioni che vengono raccontate, perché la Sicilia è anche terra di grandi imbrogli, di uomini d’ombra che tutto sanno ma nulla dicono, di avvocati gonfi di segreti portati nella tomba, di impostori di ogni genere.
Molte anche le storie di grandi uomini, che si presero cura dei matti di Palermo, Libero Grassi che si rifiutò di pagare il pizzo, il capitano Vincenzo Di Bartolo, che arrivò a Giava e Sumatra e fece ritorno.
Savatteri decide di chiudere la sua caleidoscopica carrellata di volti e vite con Frank Capra, il regista di Hollywood dei film sul sogno americano, emigrato bambino dalla terra natia. È forse il personaggio più insipido tra tutti: un vecchio dal sorriso ebete che nulla ricorda della sua infanzia e a cui nulla importa del paese natio: torna in Sicilia, si lascia festeggiare ma non vede l’ora di volare sull’Atlantico per rientrare a casa e non rimettere mai più piede in quella landa selvatica e vociante.
«Sono nato quando la nave è salpata» dice il vecchio regista, rinnegando radici e ricordi.
Forse, se interpreto bene, Savatteri vuole chiudere con uno strappo deciso alla nostalgia per la terra e per le radici che inevitabilmente, ma troppo facilmente, si schiuderebbe dalle sue pagine. La Sicilia è una scatola in mezzo al mare dalla quale è difficile uscire e per la quale è facile provare nostalgia, ma queste sono storie, storie di alcune vite. Altre hanno reciso ogni radice e hanno vissuto nel mondo.
Forse è questo che vuol dire: esistono le radici ed esistono le cesoie per reciderle, sta a ognuno di noi scegliere cosa fare.
Un bel libro, caldo, odoroso, per lo meno, letto con gli occhi di uno che di Sicilia non conosce quasi nulla. Non so come possa sembrare se letto con occhi siciliani.