«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
FERDYDURKE
Witold Gombrowicz
Feltrinelli
Favoloso Ferdydurke! Libro funambolico di quello straordinario funambolo della letteratura che è stato Witold Gombrowicz: istrionico, folleggiante, rivoluzionario, strabiliante, popolano, bambinesco, affilato, poetico, scaravoltante.
Che cos’è Ferdydurke?
Che cos’è?
Che cos’è?
Un romanzo?
Un pamphlet?
Un saggio filosofico?
Uno scherzo?
Una pernacchia?
Una favola?
Una scoreggia?
Pornografia?
(no, Pornografia è il libro successivo di Gombrowicz)
Un dito in un occhio?
Un dipinto?
Un’epopea?
Una satira?
Una denuncia?
Una lamentela?
Una farsa?
Una tragedia?
Che cos’è?
Santiddio, che cos’è Ferdydurke?
Si diventa pazzi a voler cercare una risposta a questa domanda; sì pazzi, pazzi imbambolati, rincitrulliti, bacati, rammolliti; Ferdydurke non si fa prendere, si lascia avvicinare da noi e dalle nostre scarpacce bitorzolute e mentre stiamo già protendendo le manacce salsicciose pregustando lo stritolamento che gli infliggeremo a quell’indemoniato, lui si volta, molla una scoreggina, sghignazza e sbiscia via.
Non lo prenderemo mai, non saremo mai in grado di essere veloci come lui, leggeri come lui, sfrontati come lui, abili come lui, un prestigiatore di parole del quale non indovineremo mai i trucchi, ce li fa sotto al naso tanto è bravo… «Siore e siori… adesso c’è, adesso non c’è più… la pallina rossa nella mano destra la pallina blu nella mano sinistra, chiudo… soffi mia bella signora, soffi con quella bella boccuccia sua… e adesso riapro le mani, attenzione siore e siori… la pallina rossa nella mano sinistra e la pallina blu nella mano destra… non c’è trucco non c’è inganno, solo magia, la magia di Ferdydurke».
Funambolico, il libro più funambolico che io abbia mai letto.
Un capolavoro, un capolavoro tutto maiuscolo. CAPOLAVORO.
Ma sentite qua cosa combina. Lui vi fa uscire pazzi dal tanto che vi chiedete «Che cos’è? Che cos’è?», per centosettantadue pagine vi scucula, finché si decide a darvi una mano e vi sentite sollevati, «Grazie a Dio» dite, «Finalmente me lo dice» fate voi marmocchietti. Eggià, state un po’ a sentire che cosa vi dice il divin funambolo.
Sarebbe pure opportuno stabilire, decretare e determinare se si tratti di un romanzo, di un diario, di una parodia, di un pamphlet, di una variazione su un tema fantastico, di un saggio… se vi prevalgano lo scherzo e l’ironia oppure i significati profondi, il sarcasmo, la caricatura, l’invettiva, l’assurdo, il puro nonsense, il puro divertissement… o se per caso non si tratti invece di una posa, di una mistificazione, di una guittata, di un artificio, di un’insufficienza di umorismo, di un’anemia del sentimento, di un’atrofia dell’immaginazione, di un attentato all’ordine e di una débacle della ragione. Ma la somma di tutte queste possibilità, tormenti, definizioni e parti è talmente vasta, talmente incommensurabile e insondabile che, vagliato scrupolosamente il vagliabile, non resta che mettersi la mano sul cuore e confessare di non saperne un accidente… e buonanotte ai suonatori.
Capito come stanno le cose? Mi credete adesso? Vi fidate se vi dico che se prendete in mano Ferdydurke vi apprestate a entrare in una funambolica giostra di parole come mai prima avete visto? Siete avvertiti, Giovanotti, mo’ vediamo che fate.
E ancora non ho detto niente su cosa c’è scritto in questo Ferdydurke, di che parla… parlerà di qualcosa, no? Certo, c’è una storia. La storia di Gingio, un trentenne che viene irretito dall’esimio professor Pinko e infantilizzato. Infantilizzato? Sì, lo rimanda a scuola, in terza liceo, dicendogli «culetto, culetto, vai con gli altri bei culetti», mentre gli altri mocciosi quindici-sedicenni si dividono tra i tradizionali e i I, i giovani uomini e i giovanotti; e se le danno, a nomi, a beffe, a facce e poi pure a cazzottoni.
E Gingio che fa? Gingio si infantilizza, lui, il trentenne.
Questa è la storia, detta in due parole, ma non dimenticatevi cosa dice Gombrowicz a pagina centosettantadue: «non resta che mettersi la mano sul cuore e confessare di non saperne un accidente».
Però meglio tornare al divin funambolo per farsi spiegare un po’ meglio cosa ci sia scritto in Ferdydurke (a proposito, sapete cosa vuol dire “Ferdydurke”? No? Non lo sapete? Niente. Non vuol dire niente. È una parola senza significato in qualunque lingua ed è un nome che non compare mai nel libro.)
Leggo (e trascrivo) dal preambolo Per evitare malintesi, contenuto nell’apparato critico che correda questa edizione. Lo scrisse Gombrowicz nel 1937, poco dopo la prima edizione polacca.
Da pochi giorni è apparso il mio libro Ferdydurke. Dato che si tratta di un’opera scritta in uno stile assai lontano dalla normale letteratura, vorrei evitare alla critica qualche possibile malinteso. […]
Il problema principale di Ferdydurke è il problema della forma. […]
Occorre trovare una forma per tutto ciò che nell’uomo è ancora immaturo, non cristallizzato e non sviluppato, come pure un lamento per la mancanza di speranza di questo postulato: questa è l’emozione principale del mio libro. Mi preme dimostrare che la nostra cultura non è né completa né intera, non essendo che una fragile costruzione sopra la ribollente anarchia che poco per volta sta facendo crollare tutto il sistema culturale delle nostre convenzioni. […]
Ma – e qui il libro diventa qualcosa di più eccentrico – dato che io stesso, come autore, sono pure un “figlio dell’epoca”, questa problematica relativa all’inferiorità, mi affascina proprio perché è anche una questione che mi riguarda da vicino. Pertanto Ferdydurke è in una certa misura immaturo e infantile non soltanto nel suo contenuto essenziale ma anche nella forma. La mia preoccupazione è stata quella di esprimere non soltanto l’immaturità altrui ma anche la mia. […]
Esso mette in scena il conflitto dell’uomo con l’uomo e il suo ambiente, così come il conflitto dell’uomo con la sua propria immaturità, con ciò che resta in lui di epoche quasi antidiluviane. Si presuppone di mostrare l’aspetto tragico dell’evoluzione. Mostra le convulsioni che ha dovuto subire la nostra povera “ghigna” pressata dai grandi e ineluttabili processi storici. Prova ad esprimere – e questo è il punto più importante – il conflitto eterno tra l’uomo e la sua forma, conflitto tanto doloroso oggi come nel corso dei secoli. C’è un vero e proprio odio, e paura e vergogna, dell’uomo nei confronti dell’informe e dell’anarchia. Non si tratta a rigor di termine di un pamphlet, di una polemica, di una critica, ma più semplicemente del lamento di un individuo che si difende dalla dissoluzione, che reclama spasmodicamente una gerarchia e una forma, e allo stesso tempo si rende conto che qualsiasi forma lo sminuisce e lo limita: si difende dall’imperfezione degli altri, perfettamente cosciente della propria. In questo senso un tale lamento è oggi il lamento di ogni uomo indipendentemente dal suo “aspetto”.
Non so se ora sia più chiaro. Almeno dovrebbe essere chiaro che Gombrowicz non sta scherzando nel suo folleggiare con la storia.
La storia ha due fratture. Si interrompe due volte per lasciare spazio a una voce diversa, sempre funambolica, anzi, forse ancora di più perché fuori dalla storia e diretta. Parla a te, lettore.
I due capitoli si chiamano Filidor foderato d’infanzia e Filibert foderato d’infanzia, rispettivamente preceduti dalla Premessa a Filidor foderato d’infanzia e dalla Premessa a Filibert foderato d’infanzia.
Così girarono il mondo, tirando a quel che capitava con quel che capitava. Cantavano canzoni e soprattutto si divertivano a spaccare i vetri delle finestre. Gli piaceva molto anche sputare dal balcone sui cappelli dei passanti, e non vi dico la gioia quando riuscivano a beccare qualche pezzo grosso in carrozza. Filidor si specializzò al punto che riusciva a sputare dalla strada su quelli che stavano al balcone. L’Anti-Filidor, invece, spegneva le candele tirandoci sopra una scatoletta di fiammiferi. Adoravano soprattutto tirare ai ranocchi con la carabina, e ai passerotti con l’arco, e anche stare su un ponte e gettare in acqua pezzetti di carta e fili d’erba. Ma la voluttà suprema era comprarsi un palloncino da bambini e corrergli dietro per campi e per boschi, evviva, evviva! aspettando di vederlo scoppiare col botto, come colpito da un proiettile invisibile.
E quando negli ambienti scientifici qualcuno rammentava le loro glorie passate, le lotte spirituali, l’Analisi, la Sintesi e la loro fama irrimediabilmente svanita, loro si limitavano a rispondere con aria sognante:
“Già, già, il duello… che botti, ragazzi!”
“Ma professore,” esclamammo io e Roklewski che nel frattempo s’era sposato e aveva messo famiglia in via Kruzca. “Ma professore, lei parla come un bambino!”
Al che il vegliardo ritornato bambino rispose:
“Tutto è foderato d’infanzia.”
Sono giunto alla fine. Che altro mi rimane da aggiungere a questo libro di funambolica e folleggiante bellezza? Due cose, che vado ad elencare di seguito:
1) Confesso di non saperne un accidente, a prescindere.
2) Lo diceva Kundera ne Il sipario di leggere Gombrowicz, lo diceva e aveva ragione, per la miseria se aveva ragione.
Puoi aggiungere Gombrowicz all’elenco dei Libri Dispersi. Motivato dai tuoi articoli volevo leggere qualcosa ma è tutto scomparso dalla faccia dell’editoria (riemergono lacerti sul fondo del web a cifre irriguardose).
Che brutta notizia.