«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
GLI EGOISTI
Bonaventura Tecchi
Bompiani 1959
[Libro disperso]
Questo è un libro disperso esemplare: pubblicato nel 1959, anno in cui vinse il Premio Bancarella, ristampato da Bompiani in numerose edizioni (quella che ho letto io è del 1967 ed è indicata come XXVI edizione), poi scomparso, poi ripubblicato da Piemme nel 1999 e infine nuovamente disperso da anni.
Eppure, Gli egoisti di Bonaventura Tecchi è un bellissimo libro che merita di essere riletto anche oggi, forse soprattutto oggi, nonostante le critiche che gli si può muovere. Cercherò di spiegarvi i motivi per rileggerlo andando a ripescarlo in qualche biblioteca o nell’usato e spero davvero di riuscire a convincere qualcuno di voi.
Inizio però dalle critiche e da un episodio curioso, che capita quando si leggono libri usati: la presenza ingombrante di un lettore precedente.
Capita, dicevo, sarà capitato anche a voi, di leggere un libro usato e trovarvi segni, annotazioni, commenti; le tracce più o meno marcate del passaggio di chi vi ha preceduto. Qualche volta sono curiose, di solito sono insignificanti. In questo caso sono ingombranti e mi hanno molto infastidito, ma mi danno anche lo spunto per l’attacco di questo commento.
Il mio predecessore ha lasciato due cose in eredità ai posteri:
– leggère, ma numerose, correzioni a matita sul testo;
– un foglietto di circa 10 cm. di lato, accuratamente strappato a mano da un foglio quadrettato più grande, uno di quei vecchi fogli con i quadretti rettangolari, di altezza doppia che si usavano per contabilità.
Le correzioni. Numerosissime, come detto, ma insistenti, ripetute, cadenzate maniacalmente e unicamente su tre presunti errori: sistematicamente, egli ha corretto “se stesso” in “sé stesso” (sbagliando); ha corretto il dittongo mobile “uo” in “o” in tutte le forme verbali (“muoversi” in “moversi”, “suonare” in “sonare” etc., di nuovo sbagliando, perché è vero che la regola grammaticale generale dice di farlo, ma se avesse letto una grammatica, o se, banalmente, avesse prestato orecchio al mondo invece di ascoltare solo la propria accidia, avrebbe saputo che tale regola ha sempre avuto applicazione assai altalenante e nella lingua, che è un corpo vivo non un catafalco, si sono imposte forme irregolari, per cui, solo un fanatico spiritato dice “moversi” o “sonare”); ha corretto alcune doppie consonanti (“obbiettivo” in “obiettivo”, “intravvedere” in “intravedere”, contraddicendosi poiché la forma generale vorrebbe il raddoppio della consonante, ma l’uso ha visto il prevalere della forma con consonante semplice, e comunque entrambe le forme sono ammesse da qualunque dizionario). A onor del vero, una correzione, unica, l’ha azzeccata: “a mò di” corretto in “a mo’ di” (giusto, la forma accentata “mò” o “mo” senza accento sta per “adesso”, mentre “mo’” con l’apostrofo è la forma apocopata – “apocopata” l’ho imparato ora dalla grammatica, eh… – di “modo”, come “po’” lo è di “poco”).
Questa lunga e tediosa disquisizione sulla maniacale grettezza di questo lettore che legge impugnando una matita, pronto a storpiare un testo per dar spazio alle proprie ipocondriache disperazioni mi serve per inquadrare la mano che ha vergato il biglietto, che invece è interessante per il commento al libro.
La grafia è minuta, sempre a matita, ben appuntita, molto precisa, da contabile, appunto, scabra, sintetica. Sicuramente un uomo non giovane, la carta è meno ingiallita delle pagine, potrebbe risalire a 15-20 anni fa. Ve lo riporto integralmente:
ETIMOLOGIA p.13: Imbecillità. [sottolineato]
—+—
Troppo schematizzato l’impianto.
Toni un po’ “provinciali” e démodé [sottolineato]: accusa l’età!
—+—
Finale retorico
IMBECILLITÀ 13
DEMONIO 325
Ecco, questo è il testo. Per i curiosi, la definizione di “imbecillità” che Tecchi riporta a pagina 13 è questa: «Imbecillitas, dicevano i latini dei vecchi, cioè bisogno di un baculum, d’un bastone dritto ed efficiente…»
Lasciamo scivolare via interpretazioni psicologiche sull’attenzione del lettore per questa definizione e procediamo oltre.
Le due note finali riguardano le occorrenze dei termini nel libro: “imbecillità” compare 13 volte, “demonio” (o simili, più spesso “demònico” è citato nel testo) compare 325 volte. Quindi, costui, oltre che vergare a matita correzioni sbagliate, ha contato le occorrenze di queste due parole e l’ha voluto comunicare.
Un pazzo forsennato, no? Non vi sembra un maniaco in preda a follia derelitta uno che si accosta in questo modo a un libro? A me sì, senza dubbio.
La cosa si fa interessante.
Il motivo è che i commenti che trascrive nel foglietto sono invece condivisibili. Condivisibili da un certo punto di vista.
È vero che l’impianto del libro sia molto schematico. Tecchi ordina e separa personaggi e storie, li caratterizza in modo forte, quasi li stereotipizza, poi procede in maniera lineare dipanando la trama.
È vero che il tono sia provinciale: c’è un uso di termini e costrutti desueti (penso già desueti negli anni ’50 quando è stato scritto), ci sono lunghe descrizioni naturalistiche che riportano a immagini rurali idilliache, traspare una certa nostalgia e soprattutto ci sono un’educata formalità e un manierismo nello scrivere che, questo sì, può essere giudicato provinciale, retrò, quel manierismo da borghesia della sterminata e arcaica provincia italiana. Sì, è un libro di un’altra epoca, forse già quando è stato scritto lo era.
Infine, è ancora vero che il finale scivola nella retorica: Tecchi si aggrappa a Sant’Agostino, il maestro dei maestri, per trovare un senso e un barlume di luce nella tragedia che descrive: profonda, profondissima, una tragedia che scava fin nelle fondamenta dell’essere umano. Si affida al maestro dei maestri e sceglie la voce di un giovane prete straniero per recitare il messaggio di speranza rivolto a Roberto, l’unico degli egoisti, i protagonisti del romanzo, che dal male trova la forza per capire e, forse, per salvarsi. È una soluzione che si affida al messaggio cristiano e ai maestri della Chiesa, una soluzione ripetuta molte e molte volte, e che al lettore folle, ma anche a me, per questo suona retorica, nel senso di voler chiudere ripetendo un messaggio di speranza salvifica e un insegnamento calato da una voce superiore. Avrebbe potuto chiudere e basta, lasciando ognuno a fare i conti con se stesso, solo e senza parole a far da guida. Era una possibilità, Tecchi ne ha scelta un’altra. Io non lo biasimo, il lettore rancoroso sì.
Dicevo prima “Condivisibili da un certo punto di vista.”
Già… dal punto di vista del lettore con la matita in mano che verga correzioni inconsistenti, ovvero il punto di vista di una mente rinchiusa in se stessa, mai aperta al testo che le scorre davanti e che sottotraccia, ma neanche troppo, si inoltra lungo un sentiero periglioso e ostile, spaventevole, che incute terrore e orrore. Tecchi cerca di scendere nella notte dell’egoismo che spadroneggia l’animo umano ed è capace di imporre tutto: i propri pensieri, le proprie immagini, il proprio reale distorto; storpiando qualsiasi cosa: persone, vite, sentimenti, parole, tanto da diventare un tutt’uno a volte indistinguibile da quell’animo umano del quale ha preso possesso.
Questi sono gli egoisti del libro. Persone: comuni, normali, anzi, persone migliori della media, le persone migliori, con le vite migliori, i cervelli migliori, le abilità migliori, la sensibilità migliore, il cervello più fino.
Gli egoisti di Bonaventura Tecchi è un libro démodé e manieristico in superficie, che nasconde però un cuore buio, oscuro, terribile e durissimo. Sono egoisti gli uomini del suo romanzo, egoismo maschile.
La convinzione del suo egoismo, di un caratteristico egoismo maschile, gli si presentò davanti, con piena chiarezza. Per sfiducia, per mancanza di fiducia nella possibilità di una intera comprensione, egli non aveva parlato, egli non si era confidato; per orgoglio l’aveva lasciata sola nella parte della nostra vita che più ha bisogno di non essere lasciata sola.
E vittime degli egoisti sono le donne, come le due protagoniste, Isabella e Jeanne, amate, desiderate, rispettate, necessarie, ma immancabilmente escluse e relegate in uno spazio limitato che le soffoca. Oppure se stessi, quando l’orgogliosa indipendenza e autonomia, il caparbio confliggere col mondo e con le persone, la fuga dall’amore necessario, infine, nei giorni della debolezza inevitabile, diventano macigni sotto i quali ci si dissolve.
[…] è una di quelle donne che hanno bisogno del corpo per parlare, in cui solo il corpo dice la verità. Tutto il resto son chiacchiere.
Così Roberto descrive Isabella, e il loro è l’amore più forte, sono i personaggi più puri, più liberi; eppure Tecchi anche a lui, l’artista, il poeta, il giovane, mette in bocca l’espressione dell’egoismo feroce.
Gli egoisti è il libro dei non-detti e dei non-fatti, e si sa, lo ricorda anche Tecchi, che le parole non dette sono sempre più importanti di quelle pronunciate.
Un grido di dolore gli balzò dal petto. Il grido della coscienza del suo egoismo, della sua cecità: e, insieme, l’impressione di trovarsi, anche qui, di fronte a un enigma, l’enigma della solitudine umana, dell’impossibilità di comunicare l’uno con l’altro.
Non-detti e non-fatti che trascinano nella catastrofe, nella tragedia, insieme alla collaborazione tra bene e male che rosola lo spirito su una graticola accogliente, lo consola e gli dà fiducia, ma infine lo tradisce, sprofondandolo nel fango.
Non già che dubitasse della collaborazione tra bene e male. Questa rimaneva fondamentale intuizione della sua vita, base del suo conoscere il mondo. E una prova della spaventosa cooperazione tra bene e male l’aveva anche ora, in quell’incominciare a vedere e a capire, in quell’albore della coscienza del proprio egoismo, che nasceva soltanto adesso, dopo l’estrema esperienza del male…
Bonaventura Tecchi esplora meandri dell’animo umano dove si annida la malattia, quella dell’egoismo, tanto insidiosa e malvagia quanto la tisi che attacca i polmoni, poi si nasconde mentre continua incessante a corrodere le funzioni vitali. Lo stesso per questi uomini, alcuni ormai scarnificati, incapaci più di vedere alcunché fuori dal sarcofago di egoismo, altri come Roberto, intravedono una spiegazione, scorgono la propria coscienza, ma a prezzo di dolore estremo, causato, poi subito.
Ritorno allo stile démodé e ai toni provinciali per la chiusa.
Saltabeccando tra testi di epoche ormai passate e testi contemporanei, non si può non accorgersi del gusto dei tempi che è cambiato. Oggi lo stile predominante è rapido, mediatico, frenetico, frasi secche, personaggi sempre in moto, azioni, avvenimenti, dialoghi serrati. Il senso della storia è dato da ciò che accade ai protagonisti, e spesso i protagonisti hanno vite turbolenti o favolose, o anche turbolentemente e favolosamente meschine, la tragedia, così come il successo sono frutto delle azioni. Si è ciò che si fa e ciò che si fa deve essere fatto freneticamente.
Leggere Bonaventura Tecchi, così come molti altri libri di quaranta, cinquanta o sessantanni fa, fa balenare davanti agli occhi un’altra narrazione. Quella dei tempi lunghi, delle descrizioni, del ritmo pacato, dell’osservare riflessivo, ma anche del manierismo, delle convenzioni ingessate, della rigidità. Ed è, tornando a quanto già detto, una narrativa dei non-detti e dei non-fatti: ciò che si sottrae determina la storia, ciò che non accade è il motore del destino dei protagonisti, l’incomunicabilità veicola il messaggio.
Non voglio concludere sostenendo nostalgicamente che fosse meglio quella narrativa rispetto a quella odierna, spesso troppo televisizzata e formattata, perché sarebbe una generalizzazione retrograda da lettore rapace con matita in pugno.
Però sono assolutamente certo che perdere quella narrativa, dimenticare i Bonaventura Tecchi, abbandonare questi libri dispersi, rende tutti un po’ più egoisti, e quindi meno consapevoli e meno liberi.
Nota: ho parlato pochissimo, anzi quasi per nulla, della trama. Per scelta, preferivo commentare piuttosto che descrivere questo libro. Ma anche perchè c’è un’ottima recensione che consiglio molto nella quale invece la trama è descritta più compiutamente. L’ha scritta Bartolomeo Di Monaco e compare sul sito Pagina Tre.
Ho appena terminato la lettura di questo libro, devo dire a fatica, arrancando sul traguardo… Noiosettto devo dire, anche se ha degli spunti interessanti. Mi spiace :(
Sono una concittadina di Bonaventura Tecchi ed una sua appassionata lettrice. Mi sono imbattuta in questo bellissimo articolo mentre cercavo materiale per un lavoro che sto scrivendo. Ora sono sommersa dagli impegni, ma mi ripropongo di “tornare qui” per dire di più. Lascio una provocazione, un’idea sulla quale sto lavorando nelle brevissime pause di un maggio asfissiante dal punto di vista lavorativo.
Secondo me Tecchi, uomo che viaggia, germanista che lavora presso importanti università europee, intellettuale che frequenta il gruppo di Solaria (e che vi ha un ruolo tale da esservi il mentore di Gadda), direttore del Gabinetto Viesseux, corrispondente epistolare di Montale e di Marino Moretti (tra i tanti intellettuali e letterati che conobbe) non poteva non essere al corrente delle recenti rivoluzioni formali che mutano completamente il linguaggio letterario. Per questo, io penso che il suo scrivere dal sapore tardo-ottocentesco, retrò, “provinciale” e in totale controtendenza rispetto ai “conformismi” dei linguaggi d’avanguardia, sia, in realtà, una consapevole proposta stilistica volta a creare uno stacco netto dal tormento esistenziale della coscienza moderna che grida al mondo l’incomunicabilità, l’incomprensibilità del reale, senza avere la forza di oltrepassare la soglia che immetta “nel mezzo di una verità” (Montale ne “I limoni”), mentre Tecchi si attarda a leggere con francescana umiltà (bisogna leggere tutto Tecchi e incastonare Gli egoisti in questo percorso di lettura) tutti quei segni che rivelano la verità dell’amore che salva. Da qui nascono gli idilli e le descrizioni di un paesaggio incredibile che è metafora del senso della vita. Chi conosce e vive il paesaggio di Civita di Bagnoregio e della Valle dei Calanchi non può non scorgervi la dialettica tra morte e vita, tra male e bene che la natura vi ha scritto con grande chiarezza e in quel paesaggio, come dice Petrocchi, c’è la chiave di lettura dell’opera di Tecchi. Ho scritto di fretta, me ne scuso. Tornerò più chiara a scrivere meglio. Grazie per aver dedicato spazio a Tecchi!
Grazie Maria per il suo commento davvero interessante. Io non ho nemmeno una briciola della sua conoscenza di Tecchi, anzi la mia conoscenza si limita alla lettura de Gli Egoisti in questo mio tentativo di parlare anche di autori e libri, quelli che io chiamo “Libri dispersi”, che sono stati colpevolmente dimenticati. La sua interpretazione della scelta stilistica di Tecchi offre una chiave di lettura molto più ricca di quella semplice che avevo trovato io.
Ne ho un altro di libri di Tecchi da leggere, L’isola felice, che avevo cercato perché riguarda la Sicilia, e dopo il suo commento scala la subito la pila di quelli da leggere.
Grazie ancora e aspetto il suo ritorno.
hai sollevato il ricordo di uno dei libri che giravano a casa dei miei genitori, letto con molto interesse da mia madre e per questo letto poi anche da me che ero sempre alla ricerca di … pagine scritte! Chissà dove è finito. Mi ricordo che mi piacevano le descrizioni dei luoghi , in particolare di Eze, che il recensore di pagina tre colloca, credo errando , in Svezia, mentre mi pare che si tratti della cittadina della costa azzurra. Anche io compro talvolta libri usati e vorrei sempre trovarci qualcosa di scritto dentro, che so: un nome, un piccolo commento, un appunto di vita, come quelli che anche a me sfuggono dalla matita quando leggo un libro, invece… non trovo mai niente! Ma spero sempre per il prossimo mercatino dell’antiquariato , per il prossimo libro usato. Ho ricomprato recentemente “Come era verde la mi vallata” nella medesima edizione Medusa di casa dei genitori, e La valle della luna di London, libro che presi nella biblioteca di mio nonno , all’atto dello svuotamento e vendita della casa, e poi perduto. Dunque libri come memoria e pezzi vita…
È bella questa immagine di libri che “giravano per casa” dei genitori come amici o familiari e, magari, perché no, possono riprendere a girare anche nelle nostre case. È un’immagine che scalda.
Buon Natale a chi viene da lontano.
E a quelli di terra nostra.
Buona Natale ai non credenti o atei.
E a quelli che non commentano mai.
Buon Natale a chi si lascia cadere mani,
dita e silenzio in grembo.
Buon Natale ai poeti vecchi e nuovi.
E a quelli sparsi nell’universo.
Buon Natale al poeta Alda Merini,
a Pablo Neruda e alla donna delle pulizie.
Buon Natale alle parole degli ultimi.
E a quelli che non aspettano.
Buon Natale alle frasi d’amore mai dette.
E quelle sconfinate di luce.
Buon Natale alla voce dimenticati.
E a carezze, sospiri e voli ai ceppi.
Buon Natale agli amori degli occhi.
E a quelli di fuoco, lava e lapilli.
Buon Natale a te che non hai gli occhi.
E a te che stai morendo.
Buon Natale al sole che riscalda.
E alla pioggia che ride sovente.
Buon Natale ai bambini orfani.
E al freddo nelle ossa.
Buon Natale a quell’uomo ragazzo.
Alla ricerca disperata dell’amore.
Buon Natale a chi deve affacciarsi
e aspettare. E sperare la bontà.
Buon Natale a chi a Natale non c’è.
E piange di nascosto nostalgia.
Buon Natale a chi nascendo è perso.
E dimenticato, perché invisibile.
Buon Natale a me così disperato.
E a chi non mi ha mai conosciuto.
Ciao. Arrivederci. Addio.
E buon Natale.
Post Scriptum:
Togli le due parole iniziali e mettine
almeno una che colpisca non tanto
al bersaglio grosso … ma sottopelle;
per quanto mi riguarda, provo a
mettere vita, per cui avremo:
Vita al sole che scalda.
E alla pioggia che sovente ride.
Vita ai bambini orfani.
E al freddo nelle ossa.
Vita a chi non c’è.
E piange di nascosto nostalgia.
Vita al papa che calza scarpe griffate.
E grazia il cameriere che mesceva
vino pregiato, invecchiato per decenni,
in botti di rovere.
Vita ai bambini orfani.
E senza pane.
PS: Dietro la copertina de Il libro di Natale. In questo caso Natale è un bambino, il quale ogni giorno raccoglieva pagine di ogni tipo in maniera di poterci scrivere sopra. Ma Natale non sapeva scrivere. Come fare allora? Natale andava nel palazzo sgarrupato e cambiava stanza ogni qual volta vi entrava dentro. Da solo. E così ogni volta iniziava ad aprire il libro: le pagine le aveva cucite ad un bordo e questa maniera poteva girarle. Però anche se erano di vario colore come ad esempio la carta del pane, delle buste, del retro dei cartoni delle scatole di scarpe e così via. Non sapendo scrivere, Natale parlava alle pagine e le pagine si riempivano di spiringuacci: in quelle pagine di spiringuacchi c’erano i racconti magici di Natale e dei bambini sperduti sulla faccia della terra
La mattina ci alziamo presto e stiamo tutti inguacchiati di sonno. Vorremmo dormire, ma le nostre mamme o le nostre sorelle o la voce del fantasma della Bella ‘Mbriana ci svegliano, buttandoci fuori dai letti che qui chiamimao strappentini perché sono piccoli come la cuccia dei cani; oppure ci tolgono lenzuola e coperte, quando ci stanno. Ci conosciamo tutti quanti e come piccoli fantasmi usciamo dai bassi, dai fondaci e dai portoni scassati o inesistenti. Eccoli uscire, sono Rosario ‘o Sicco, Michele Sferrazzo, Maria ‘a Chiattona, Gennaro Triccaballacca, Carmela Genovese, Giovanni ‘o Bellillo, Teresa ‘a Mariola, Leonora ‘a ‘Nfame, Giacomino ‘o Tbc, Vito ‘a Bicicletta, ‘Maculata, Rocco ‘o Pidocchio, Tonino ‘o Lattaro, Peppino ‘o Ferraro che poi così come Culo Chiatto e altri guaglioni prenderanno la strada dell’eroina, Salvatore ‘o Batterista come Geggè … ma mi fermo qui a nominarli: di quelli come noi stanno in tutto il vicolo, nell’intero quartiere e per capirci in tutta la città.
Siamo un sacco di gente; siamo assai ma proprio assai assai, come un esercito come si vede nei film di Maciste e i babilonesi; ma però anche se è un esercito è un esercito tutto sciamannato che esce a uno alla volta dalle file delle case e dei bassi. Ci salutiamo, sorridiamo, ci fermiamo a parlare e poi ognuno o a gruppi prendiamo la strada della fatica, anche la strada della disoccupazione fuori ai bar è una fatica: bisogna sempre aspettare qualcuno che ti viene a chiamare: mò come allora agli angoli delle strade e nelle piazze la mattina presto ci trovi i guaglioni neri come il carbone: aspettano che qualcuno scende da una macchina e gli dica : Vieni tengo del lavoro per te. E quando ti vengono a chiamare per sfacchinare qualcosa ti guardano e si mettono a scegliere. Ci manca solo che dicano: Apri la bocca e fammi vedere la dentatura. Succede proprio così, come nel film il Gladiatore o in quegli altri in cui si parla della Bibbia e di Dio: i caporali e i signori di allora prima di compare o vendere uno schiavo se li guardavano ben bene nel caso fossero malati e mal messi fisicamente, altrimenti spendevano i soldi inutilmente.
Abbiamo dai sei ai dieci anni e passa d’età e sono pochi quelli che vanno a scuola, la scuola è una cosa per la gente appatanata, quella che tiene i soldi e non ha niente da pensare. Insomma i signori perbene dei piani di sopra. Noi siamo quelli che anche se abitiamo sopra al quinto piano facciamo parte sempre di quelli di sotto, cioè dei bassi fronte strada. Spesso il pavimento dei basoli del vicolo continua nei bassi. Nero e grigio fuori e nero e grigio dentro. Il nero e il grigio erano presenti dappertutto, e per combatterlo si guardava il sole, si cantava la malinconia e si parlava ad alta voce per scompaginare l’eredità della miseria e della fame. I nostri mestieri erano: calzolai, muratori, fabbri, imbianchini, baristi, salumai … emigranti … operai … disoccupati e disoccupati organizzati …
Si lavorava, si lavorava eccome quando ti prendevano lavorava, ma ti scucivano le pacche e ti pisciavano in mano come paga settimanale: una miseria per comprare appena da mangiare. E la sera a lavoro ci andavano pure le buttane del quartiere e i ragazzi che facevano le marchette i cui padri latitavano depressi o a ubriacarsi in qualche cantino di vino di cartelle, cioè adulterato e le mamme arrangiavano facendo le donne delle pulizie. Consiglia aveva quindici anni ed era figlia di Mariella ‘a Zellosa. Torillo se ne innamorò, ma quando una sera vide che nel suo basso faceva entrare certe uomini fuori quartiere cacciò un coraggio di leone e anche se non era il suo fidanzato ufficiale la uccise di mazzate. Andò in galera a scontare anni e anni di carcere, poi lo fecero uscire perché aveva un tumore inoperabile e ora é la al cimitero nuovo di Poggioreale.
Noi tutti Rosso Malpelo lo abbiamo conosciuto di persona, ma non abbiamo paura di lui come spiritillo o fantasma che ci viene a trovare in sogno e ci fa mettere paura. Lui esiste in carne ed ossa e ce lo portiamo dentro, sulla pelle, nel sangue e certi momenti guardiamo la vita come faceva lui. Noi moriamo ogni giorno e lui ogni giorno vive. E non si tratta di avere coscienza oppure no, di capire la politica oppure addirittura essere un padrone o un fascista o un sicario prezzolato: Rosso Malpelo è nel nostro dna e possiamo solo ucciderlo ancora o farlo vivere mentre respiriamo, camminiamo, soffriamo o tradiamo. Non è poco e non è molto, ma è la nostra vita, la vita che fu di Rosso Malpelo.
PS 1: Scritto dietro la copertina del libro di Verga Tutte le novelle.
PS 2: Grazie del commento e della lotta che mi hai fatto intraprendere contro una tediosa giornata di grigiore.
PS 3: Quel che segue invce l’ho scritto dietro la copertina del libro di Fiodor Dostoevskij Umiliati e offesi, riletto tra Pornografia e Ferdydurke, terminato ieri mattina mentre ero in bagno per il solito bisogno giornaliero.
Le pagine dell’anima
Spiringuacchio le pagine dell’anima.
Ondate di rosso scuro e chiare folate.
Vele ancorate al vento tra i tetti.
Nel mare di luce l’arsa radura.
Pulsa a pezzetti affollati
il girovita delle rimembranze.
Il poeta
Il poeta è una ferita suppurata.
Il poeta è un isola sovraffollata.
Il poeta è l’unica verità.
Il poeta è il mondo assoggettato.
Il poeta è la falsità spogliata.
Il poeta è il cieco che vede tutto.
Il poeta è la voce afona dell’universo.
Il poeta è dio fatto carne.
Il poeta è l’anima animale dei primordi.
Il poeta è il musico delle parole.
Il poeta è l’ultimo degli schiavi.
Il poeta è la miseria umana
ricchezza mai appezzata .
Ma che meraviglia! Armando, il tuo commento ha illuminato la mia giornata di grigiore milanese. Grazie.
Adesso esco col sorriso pensando al tuo stupore nel trovare “Pornografia” di Gombrovicz tra i libri di tua moglie (e voi altri che lo so che state facendo i risolini smettetela subito che non c’entra niente “Pornografia” con quello a cui state pensando).
Aspetto i tuoi scritti dietro le copertine quando ne avrai voglia e tempo.
Metto qui insieme varie considerazioni di argomenti toccati in altri post. Credo sia interessante leggere un libro letto da qualcun altro che semmai scrisse a suo tempo il proprio punto di vista, critiche, apprezzamenti e altro. Io sono uno di quelli che, specie in passato, quando leggevo un libro, avevo il vizio di scriverci sopra, vedi le pagine bianche, ma anche dietro le copertine. Ne ho scritte di cose dietro le copertine, spesso inerenti all’argomento trattato dall’autore del libro, o racconti e poesie inventate di sana piante, ma anche imparentate col testo stesso. Giunsi al punto di titolare un mio possibile eventuale libro: Il tizio che aveva il vizio di scrivere dietro le copertine e anche sulle pagine bianche poste alla fine. Ricordo i libri della FABBRI EDITORE di classici italiani come quelli di Verga Mastro don Gesualdo, I Malavoglia(ultimamente ho letto due volte Rosso malpelo, ma questo non c’entra, semmai centra col fatto che a mia volta ho scritto un altro Rosso malpelo che semmai riporterò …)(sono talmente tante le cose che ho da ascrivere che mi prende una smania che mi accentra e mi espelle verso l’esterno che incombe con le sue piccole incombenze … ma anche questa è realtà all’interno della letteratura … ) e adesso andando in soggiorno ho scoperto sempre in quella collana e con dietro la copertina la dicitura Appunti di scrittura. Ebbene la copertina si avvolge su se stessa e mostra il bianco della pagina e i puntini sospensivi per scriverci sopra. Ecco, da questo punto di vista, credo che tutti nel momento in cui leggono dovrebbero poi scrivere di proprio pugno per svariati buoni motivi. Innanzitutto scrivere a prescindere da chi si è e quale lavoro o non occupazione si svolge. Anche perché ci si allontana più spesso dalla scrittura in prima persona, specie quella non finalizzata a pensare di scrivere perché si deve diventare scrittore … scrivere per scrivere; scrivere per confrontarsi con se stessi e gli altri, anche nel caso di un anonimo a distanza di 15 e 20 eccetera.
Sto leggendo Ferdydurke e ieri sera a letto ho terminato il IV capitolo. Curiosando tra certi libri dalla copertina rossa di mia moglie che si è portata appresso in casa nostra nel momento in cui ci sposammo, con mio stupore ho trovato sempre di Witold Gombrwicz Pornografia, credo attualissimo. In verità mi sta piacendo di più Ferdyduke che pornografia.
Cercando Verga ho trovato sempre della Fabbri, copertina azzurra, anche Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. L’ho aperto e cosa vi ho trovato delle cose scritte da me e qualche frase riportata da altri libri, come ad esempio:” lo sapevi che i sospettosi e i morti hanno una cosa in comune? Tacciono. ” da I nani di A. Pinter, frase scandita dal personaggio Mark. Più sotto c’è la data 12- 7 ’94, ebbene, trovo un mio scritto in cui ho scritto da dietro la copertina e per sette fogli, questo l’incipit: Dico e sottolineo che ho un vizio, un innocua una mania …
Ieri ho letto un post in un blog di una blogger diciamo storica e che in sintesi denuncia una certa crisi dei blog e la fuga dei blogger verso Twitter eccetera.
Bene!, quest’ultima considerazione voglio sottolinearla e legarla a quanto scritto nel tuo post(se posso permettermi di darti del tu), cioè di libri dimenticati o persi e dispersi, vedi le bancarelle. Credo che sia i blog letterari, racconti, poesie e discussioni letterarie, e sia il tuo e le tue recensioni, poco commentate ma non è questo il dato principale, anche se un riscontro numerico e di qualità andrebbe incoraggiato(avevo scritto foraggiato)senz’altro ma pazienza. Ma oltre che incoraggiate, penso che non bisogna sopprimere né i blog di qualità o quelli che si sforzanio in tutta onesta di esserlo e nè un blog di recensioni come il tuo, anche se le “masse” o le stesse “avanguardie” lo disertano. Al che chiederei: Perché questa diserzione e latitanza(ma bisogna vedere il numero di curiosi che vi accedono e non lasciano alcun commento. Forse c’è un timore reverenziale? Credo che tu stia facendo un ottimo lavoro, specie quando si scrive per amore e passione, ma anche con giudizi critici ragionati.
Adesso devo andare, ma mi piacerebbe, appena ho tempo di postare qualcosa che ho scritto dietro le copertine dei libri.
Perché anche è un modo di esercitare scrittura e memoria e solidità di pensiero e non semplice scrittura modiola.