«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
NESSUNO ACCENDEVA LE LAMPADE
Felisberto Hernández
Traduzione di F. Lazzarato
laNuovafrontiera 2012
– Strepitosamente bello – Un genio puro – Racconti meravigliosi –
Apro così, sottotono e sobriamente, per cercare di convincere anche i più distratti a dedicare la loro attenzione strattonata da mille questuanti al talento smisurato e misconosciuto di Felisberto Hernández, autore uruguaiano che scrisse tra gli anni ’40 e ’60 e che laNuovafrontiera, sia sempre lodata per il coraggio, ripropone con questa raccolta, Nessuno accendeva le lampade, unico libro apparso in Italia di Felisberto Hernández, pubblicato per la prima volta nel 1972 da Einaudi con perfino un saggio accompagnatorio di Italo Calvino, non presente in questa edizione per, immagino, imprescindibili questioni di diritti.
Dal 1972 al 2012 passano quarant’anni. Quarant’anni per far conoscere nuovamente al pubblico italiano un autore che è stato adorato e incensato da alcuni tra i grandissimi: Italo Calvino già citato, poi Garcia Márquez e Julio Cortázar.
Disse Calvino: «Non somiglia a nessuno: a nessuno degli europei e a nessuno dei latinoamericani, è un “irregolare” che sfugge a ogni classificazione e inquadramento ma si presenta ad apertura di pagina come inconfondibile.»
E Julio Cortázar: «Ma proprio a quel punto, è ovvio, doveva capitarmi tra le mani un testo di Felisberto che non conoscevo (questi uruguaiani nascondono sempre le loro cose migliori), in cui avrei trovato un programma di lavoro che mi avrebbe offerto la giusta motivazione nell’ora del dubbio più profondo. “Non credo di dover scrivere soltanto quello che so – diceva Felisberto – ma anche il resto.” […] la frase di Felisberto era come una mano che mi porgeva la tazza di mate amaro dell’amicizia all’ombra dei glicini.»
Viene un po’ da arrabbiarsi con questo mercato editoriale schizofrenico che vende il peggio a vecchine annoiate in attesa del loro numero negli uffici postali e nasconde il meglio al buio dello sgabuzzino delle scope. Fate un esperimento, visto che siamo a fine anno: cercate tra quelle liste di “I migliori titoli del 2012” compilati col vigore atletico di un lanciatore di peso, e qualche volta con saccenza pilotata da un richiamo assordante, se qualcuno degli elencatori cita questo Nessuno accendeva le lampade.
Scommento che non lo troverete in nessuna (e se mi sbaglio ditemi chi lo cita che gli scrivo subito una lettera piena di elogi sperticati). Tra i libri che troverete, io scommetto che non ce ne è uno che vale un solo racconto di Felisberto Hernández e, anche se non li ho letti i libri degli elencatori, ho molte probabilità di vincere anche al buio.
Vi siete incuriositi e la vostra attenzione ha sgranato gli occhi per guardare da vicino questo bizzarro, di nome e di penna, Felisberto? E quindi, cos’ha di così favolosamente irregolare Felisberto Hernández? Questo:
La sala da pranzo era sotto il livello della strada e attraverso piccole finestre si vedevano i piedi e le gambe di quelli che passavano sul marciapiede. La luce veniva da un paralume verde e batteva su una tovaglia bianca; lì erano riuniti, come per una festa di ricordi, i vecchi oggetti di famiglia. Appena ci sedemmo, tutti e tre tacemmo per un istante; e gli oggetti che stavano sulla tavola sembravano preziose forme del silenzio. Le nostre mani appaiate cominciarono a posarsi sulla tovaglia: parevano abitanti naturali della tavola. Io non riuscivo a smettere di pensare alla vita della mani. Molti anni prima, altre mani avevano obbligato le stoviglie a prendere forma. Dopo molti andirivieni, sarebbero finite in qualche credenza. Quelle creature di porcellana sarebbero state al servizio di mani di ogni genere. Una mano qualsiasi avrebbe versato il cibo sui volti lisci e lucenti dei piatti; avrebbe obbligato le brocche a riempire e svuotare i loro ventri, e le posate ad affondare nella carne, a tagliarla e a portare i pezzi alla bocca. Alla fine le creature di porcellana sarebbero state lavate, asciugate e condotte nelle loro stanzette. Qualcuna sarebbe sopravvissuta a molte paia di mani e, tra queste, alcune sarebbero state buone con loro, le avrebbero amate e colmate di ricordi; ma dovevano continuare a servire in silenzio.
Letto? Surreale, vero? Questo gioco di umanizzare gli oggetti è il trucco che usano anche nei cartoni animati. Ma c’è dell’altro. Provate a rileggere.
Non c’è solo l’artificio narrativo di fare di alcuni oggetti dei personaggi.
Ci sono uno stile e un ritmo “irregolari”, come diceva Calvino, è un gioco di prestigio subliminale che non si percepisce immediatamente.
Due sono in realtà i giochi di prestigio che Felisberto Hernández compie.
Il primo è di spostare freneticamente il punto di osservazione e la scena inquadrata. Lo sguardo della narrazione si sposta a scatti, come ostaggio di tic imprevedibili, nevrotici. Poi sposta gli occhi: prima li fa rigirare su se stessi e guardare da fuori a dentro, dopo li trasla appoggiandoli su una gamba ed è la gamba che guarda, su una stoviglia e la stoviglia guarda, su un uccellino ed è la volta dell’uccellino. È frenetico e surreale, sconcerta.
Riprovate con questo brano tratto dal racconto che dà il titolo al libro:
Poco tempo dopo cominciai a correre un po’ meno su e giù per il teatro e ad ammalarmi di silenzio. Sprofondavo in me stesso come in un pantano. I colleghi mi inciampavano addosso, stavo diventando un ostacolo ambulante. L’unica cosa che facevo bene era lucidare i bottoni del frac. Una volta un collega mi disse: «Sbrigati, ippopotamo!» Quella parola cadde nel mio pantano, mi rimase appiccicata e cominciò ad affondare.
Il silenzio e le parole. Felisberto Hernández riesce a far parlare il primo mentre lascia affondare le seconde. È un gioco di prestigio da maestro, ma ancora non basta. Ne fa un altro e questo è il suo capolavoro, una magia. Prima vi faccio leggere l’incipit del racconto Il cuore verde, poi provo di spiegarlo per come l’ho letto io.
Oggi ho passato, in questa stanza, ore felici. Non importa se ho riempito il tavolo di punzecchiature. L’unica cosa che mi dispiace è dover cambiare il giornale che lo ricopre; è lì da tanto tempo e l’ho preso in simpatia; è verdastro, le grandi lettere dei titoli sono arancioni e c’è la foto di cinque gemelli. Mentre il pomeriggio sfumava e il grande caldo si andava attenuando, io me ne tornavo alla mia stanza, stanco di camminare. Ero andato a pagare la rata di un cappotto acquistato in inverno. Ero un po’ deluso della vita ma stavo attento a non farmi investire dalle auto; pensavo alla mia stanza e ricordavo le teste pelate dei cinque gemelli come se fossero i polpastrelli di cinque dita.
Felisberto Hernández fa questo: scrive un racconto, lo scrive in modo magistrale, da ottimo scrittore: teso, circolare, essenziale. Un ottimo scrittore sarebbe soddisfatto. Al più limerebbe ancora qualche dettaglio qua e là. Ottimo lavoro. Ottimo scrittore.
Ma Felisberto Hernández non è solo un ottimo scrittore, è un grande scrittore di racconti, un genio letterario e quindi, giunto a quel punto di accettabile perfezione, compie una giravolta vertiginosa: apre dei buchi nel racconto. Lo monca punzecchiandolo, come il personaggio con il giornale, e così facendo crea delle cesure impalpabili nel ritmo sulle quali il lettore, anticipando il ritmo nella corsa della lettura, inevitabilmente sdrucciola.
…a pagare la rata di un cappotto…un po’ deluso dalla vita…attento a non farmi investire… pensavo alla mia stanza…le teste pelate dei gemelli…come polpastrelli… ci sono dei vuoti nel ritmo della narrazione, non solo dondolamenti di senso, ci sono dei vuoti scavati a posteriori lì dove prima c’era una continuità, ma i vuoti non sono solo dei vuoti, sono come il silenzio che parla mentre le parole affondano nel pantano, una sincope che spezza il fiato regolare del lettore e lo allarma in quella zona ancora non conscia ma sempre attenta a captare rotture di contesto, fratture nel terreno narrativo, silenzi abusivamente installati al posto di parole.
È come se un compositore dopo aver composto la melodia ne scavasse delle pause qui e là, pause inspiegabili e imprevedibili, che inquietano e fanno sobbalzare l’orecchio interno, creano un senso di disequilibrio imminente, uno sbilanciamento inatteso quando ci si credeva saldi lungo i binari del ritmo, e tutto questo fa salire dal petto un alito di tensione ansiogena inebriante e tossica. Come una spira di fumo oppiaceo o una visione accecata da frammenti di buio.
Questa è la magia dei racconti di Felisberto Hernández. Aveva ragione Calvino: inclassificabile, irregolare, inconfondibile. Un autore strepitoso.
Era da tempo che mi promettevo di comprare e leggere di De Amicis Cuore. Non solo non l’ho letto da grande, ma nemmeno da guagliunciello. Al di là del valore letterario in sé del libro e di ciò che trasmette, mi son detto, devo proprio leggerlo. Di questi tempi poi. Di questi tempi, Cuore è un libro che viene letteralmente deriso e mazziato mille volte per i valori che vorrebbe trasmettere alle nuove generazioni. Probabilmente anche schernito. Forse ammazzato con una scarica di pietre come avvenne per la filosofa Ipazia, che la versione cinematografica Agorà vuole assassinata da uno dei suoi schiavi innamorato di lei e divenuto poi aderente e soldato della setta cristiana dei parabolani, braccio armato della Chiesa. Da bambino poteva leggermelo qualcuno della mia famiglia numerosa, ma i miei fratelli e le mie sorelle erano tutti presi da altre cose. Mamma usciva la mattina presto e tornava sul tardi pomeriggio. Mio padre invece quando ero più piccolo, senza aprire bocca, mi fecero capire che era partito per un viaggio lungo lungo. I viaggi lunghi nascondo sempre il rovescio della medaglia. Avrei tanto voluto prendere un medaglia e vedere l’altra faccia di quella medesima medaglia.
Ho atteso tanto e nonostante l’età, aspetto ancora. Spesso mi affaccio dal balcone per vedere a grandezza naturale la figura di mio padre, a me, sconosciuta e misteriosa, sul cammino del ritorno. E per ironia della sorte, quando qualcuno intraprende come fece mio padre o i miei nonni, questi viaggi così lunghi, loro che per una vita intera non si erano mai mossi dal loro quartiere nemmeno per andare in un altro paese limitrofo per comprare ad esempio del vino, dell’olio, degli insaccati, formaggio o frutta di stagione, improvvisamente intraprendevano questi viaggi infiniti e per il fatto che erano infiniti, non avrebbero più visto né l’antico uscio di casa e tanto meno la strada del ritorno. Forse non erano a conoscenza e non avevano coscienza che probabilmente la vita con tutte quelle strade li avrebbe fatti penetrare nel labirinto dell’umanità.
Ecco che dovevo e devo ovviare a questa mancanza: non aver letto il libro Cuore di De Amicis. Il libro cuore parla, a differenza degli altri libri parla. Un libro che parla non è una cosa di tutti i giorni. Certo adesso l’editoria ha pensato di sfornare questi libri audio letti da bravi e valenti attori. Ma è una cosa diversa dal libro Cuore che invece parla. Forse esagero dicendo che il libro cuore è un cane … No, vi prego aspettate un attimo … No, non sto impazzendo, dico soltanto che se i cani parlassero o potessero parlare, parlerebbero come il libro Cuore. Penso che la canezzità abbia subito fin dalla sua comparsa sulla terra un ingiustizia e una infermità gravissime. Mi chiedo inoltre perché mai nei film di animazione e nei cartoni animati i cani ridono, nel senso che muovono i muscoli del muso, e addirittura parlano. Dio o chi per esso non ha concesso loro l’uso della parola, mentre invece l’essere umano con tutti i suoi limiti, lo umanizza. Chi è più umano, disumano e non dio tra Dio e l’uomo?
Ma quella sopra è solo una digressione.
I miei figli per Natale, appena dopo che è nato un bambino di nome Gesù nella lontanissima Nazareth, mi hanno fatto trovare sotto l’albero di Natale finto ma in tutto e per tutto uguale a un albero vero con la differenza che dopo la Befana, la quale è bruttissima, però fa i regali, specie ai bambini poveri e buoni … mi hanno fatto trovare un e book, cioè un libro elettronico dove potrò registrare un mucchio di libri, comprandoli tramite digitalizzazione e a un prezzo quasi a metà con il libro cartaceo.
Beh, questo fatto qua, cioè della bugia, credo che sia una bugia grande quanto una casa … anche la casa più piccola e fredda, diventa lo stesso una bugia grande quanto un continente lontanissimo come è lontanissimo quel bambino di nome Gesù e la sua città e sua mamma che si chiama Maria, molto giovane rispetto al marito che fa il falegname e si chiama Giuseppe ed è molto vecchio. Per non parlare di quei re magi che non ho visto se non nel presepe sempre muti, mentre nei film i re magi si fanno trasportare da questi cammelli con bisacce colme di belle cose che se i cammelli potessero dire la loro non cosa cosa succederebbe. Già, perché se gli animali potessero parlare, compresi i cani e i cammelli, guarda caso privati della parola parlata(si poteva anche dargli il dialetto di un sotto dialetto come quello delle balene negli abissi degli oceani), chissà cosa direbbero e anche cosa scriverebbero, per esempio della loro condizione di massacrati e maciullati sempre comunque.
In pratica mio figlio mi ha mostrato come funziona l’e book. E poi mi ha caricato alcuni libri che hanno prezzi diversi, ma anche libri, come i classici che costano zero euro. A me piace molto G. Simenon per il fatto che lui è un minatore dell’animo umano, ma per quanto bravissimo, lascia il tempo che trova … però per il momento ho Elementi archiviati(5) così immessi: Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello(posseggo anche il cartaceo); Novelle per un anno, sempre di Pirandello;Nessuno accendeva le lampade di Felisberto Hernàndez; Le metamorfosi di Ovidio; e … per essere di parola verso me stesso, di De Amicis Cuore, di cui ho letto fino a: LA SCUOLA 28, Venerdì.
Hernàndez è bravo e straniante e mi fa pensare che sia la summa magica e moderna di Franz Kafka.
Cuore, invece, stranamente con poche cose, ti colpisce nell’intimo, se per intimo intendiamo i sentimenti del vissuto.