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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Tempo di uccidere – Ennio Flaiano

tempo-di-uccidereTEMPO DI UCCIDERE
Ennio Flaiano
Rizzoli

Primo e unico romanzo di Ennio Flaiano, scritto nel 1947, pare su insistenza di Leo Longanesi, così apprendo dalla prefazione, e subito vincitore della prima edizione del Premio Strega (retropensiero: che forse al tempo aveva ancora un valore letterario).
Poi basta, Flaiano non scrisse altri romanzi (altro retropensiero: bizzarro come cambino i tempi: lui vince il premio con un bellissimo libro e non ne scrive più, oggi qualunque vincitore di premiucoli sforna compulsivamente almeno dieci libercoli con la regolarità di un metalmeccanico).
Pare, sempre secondo la prefazione, che non ne fosse particolarmente soddisfatto.

Chissà… uomo di stupefacente acume critico e autocritico, Ennio Flaiano, come poi dimostrò nella sua lunga produzione di racconti brevi e brevissimi, battute taglienti, analisi tragicomiche e aforismi caustici. Le ombre bianche e Diario notturno sono due esempi, uno della critica feroce, l’altro dell’amara autocritica.

Torniamo a Tempo di uccidere. Dicevo, un libro molto bello, per alcuni un libro meraviglioso. Ad esempio, proprio in questi termini si è espresso Peter Bichsel al Festival della Letteratura di  Mantova, elogiandolo più volte come uno dei pochi libri che rilegge regolarmente.
Io confesso di non aver sentito crescere questa passione perdurante, ma ciò significa poco o punto. Tempo di uccidere è a tratti bellissimo, senza dubbio uno dei romanzi della letteratura italiana del Novecento (e seguenti) che merita di essere riletto da chi lo fece tempo addietro e letto, parecchio più di altri, da chi cerca pagine accoglienti.

Questo è uno di quei libri nei quali la storia fa il libro e per questo non va anticipata. Quindi ne parlerò il meno possibile e in termini generici.
La vicenda si svolge durante la campagna d’Etiopia del 1935-36 e il protagonista, tenente dell’esercito italiano, è acquartierato nei pressi di Asmara con la sua compagnia. Tutto ha inizio da un mal di denti per il quale ottiene una licenza di quattro giorni per recarsi presso altri distaccamenti in cerca di un dentista.
Quindi parte, zaino in spalla, rivoltella, le razioni necessarie e mappa. Gli viene indicata una scorciatoia che attraversa l’arida zona collinare. La prende e si addentra lungo la pista malamente segnata da carogne di muli. Si addentra nella selvatica spietatezza dell’Africa e nelle altrettanto spietate ma civili ipocrisie dell’uomo occidentale.

«Allora, buona fortuna, signor tenente» e l’operaio si allontanò correndo. Quest’augurio finì per precipitarmi nel malumore: voglio dire che mi parve esagerato invocare l’aiuto della fortuna in quell’occasione. Non andavo in battaglia, né avrei attraversato le Alpi. Dovevo soltanto seguire una scorciatoia e arrivare in cima, sul ciglio dell’altopiano. Dovevo soltanto trovare un camion e la sera stessa avrei tagliato le pagine di un libro in un letto; il primo letto dopo diciotto mesi.
Pure, dopo che l’operaio m’ebbe gettato il suo augurio, come si getta una sfida, fui tentato di tornare indietro. Per scongiuro toccai il legno di una pianta; ma le piante di quella boscaglia erano di cartapesta, veri fondi di magazzino dell’Universo. «Soltanto un trovarobe senza scrupoli può averle messe in queste terre fuori mano» dissi. E a passo deciso imboccai la scorciatoia.

La storia è una storia di incomunicabilità, e per questo di interpretazioni presuntuose figlie della disperazione che si prova di fronte all’inconoscibile, sia esso esterno, come un ambiente ostile, popolato da iene, corvi e coccodrilli che terrorizzano anche quando si palesano solo in quanto ombre o suoni o innocue besiole, sia l’inconoscibile che si scopre nascosto nel proprio animo, lo svelarsi della propria natura in una condizione di privazione e difficoltà, una condizione che forza gli imbellettamenti borghesi a sgretolarsi. E quando cadono le maschere, spesso, dietro si rivela il lercio.

Il protagonista è tormentato da queste due forze centrifughe che lo spingono verso l’esterno: il cercare di comunicare e capire e il cercare di capirsi e giudicarsi, ma dall’esterno egli ne viene respinto: l’ambiente africano di Flaiano è costantemente ruvido, ostile, pietroso, infuocato oppure oscuro, terrorizzante, infido, malato, così come l’animo umano, del protagonista e di coloro che lo circondano, rivela per lo più bassezza, tradimento, vigliaccheria, mercanteggiamento, disprezzo e falsità.

Flaiano è bravissimo nel gioco di sponda tra le due forze, tra l’esterno e l’interno, il protagonista e gli altri, il presente dell’Africa miserabile e rovente e il passato che si proietta nel futuro della casa, degli affetti, del tepore domestico e della quotidianità cittadina, fino alle donne indigene e la “Lei” delle lettere, l’icona femminile della vita coniugale, tutto idealizzato fino a farne sagome cartonate che traggono vita e nutrono una tiepida illusione solo attraverso i ricordi e poche lettere piene di enfasi autoconsolatoria. Ciò che rimane schiacciato dal cozzare di quelle forze è il castello di ipocrisia. Quello che si rivela è la natura morbosa, allucinata dell’animale umano preda della paura, logorato dall’ansia di essere malato, terrorizzato dallo scoprire la realtà che si era nascosto, infine conscio della dimensione infinitesimale della propria esistenza.

Tempo di uccidere è il racconto di una storia nella quale molte persone muoiono, perchè il mondo è apaticamente spietato, per la guerra, per le malattie, per la rabbia, per il desiderio di possesso. Muoiono anche molte certezze che il protagonista, come facciamo un po’ tutti, si teneva saldate addosso come una seconda pelle.

Alla fine Flaiano si dimostra ottimista, quasi consolatorio, si adagia nell’alveo dell’inevitabilità di incontrare la luce alla fine del tunnel, in una sorta di cammino redentorio.
Chissà se è per quello che poi non ha più scritto romanzi o perché non si dichiarava soddisfatto. Forse.
Anche per questo Flaiano è uno dei grandi tra gli scrittori che l’Italia ha avuto in tempi moderni.

Un commento su “Tempo di uccidere – Ennio Flaiano

  1. Dalia
    2 gennaio 2022

    Un commento su misura per uno dei romanzi più belli della letteratura italiana del ‘900.
    Irrinunciabile anche per una conoscenza più approfondita dell’Italia coloniale partendo dai libri di Angelo Del Boca.

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Questa voce è stata pubblicata il 29 dicembre 2012 da in Autori, Editori, Flaiano, Ennio, Rizzoli con tag , , .

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