2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Raccattacadaveri – Juan Carlos Onetti

Raccattacadaveri - OnettiRACCATTACADAVERI
Juan Carlos Onetti
Traduzione di Enrico Cicogna

Feltrinelli  1969

[Libro Disperso]

Inizio a scrivere questo commento che ancora non ho finito il libro, cosa stranissima e illogica secondo le mie traiettorie mentali, ma in questo caso necessaria per smaltire un poco, e solo un poco, non ambisco a fare di più, di quella torre di frasi che si sta accumulando

È la sorpresa e lo stupore, sorpresa e stupore della propria sorpresa e del proprio stupore. È l’ammirazione costernata della propria cecità. È il godimento della scoperta che palpeggia le pagine ingiallite.
È quella sensazione gorgogliante e indubitabile come la fame che rovista nello stomaco, di avere gli occhi posati su una pepita d’oro raccolta tra il fango e i sassi di un torrente punteggiato da carcasse di immondizia che sporgono come roccioni.

Raccattacadaveri, scritto da Juan Carlos Onetti, pubblicato nel 1964, edito in Italia nel 1969 da Feltrinelli, fuori catalogo penso da epoche immemori, ormai quasi solo rintracciabile in alcune biblioteche ben fornite (la Biblioteca Sormani a Milano ce l’ha (e l’immagine è la foto della copertina della sua copia), anche la Biblioteca Sala Borsa di Bologna, a Roma pure so che si trova nelle biblioteche comunali, altrove non so), delle cui parole forse rimane traccia in memorie appesantite dagli anni o in qualche sparuto segugio che ha annusato la pista e l’ha seguita, paziente, coriaceo, testardo, solitario, con la fiducia assurda degli alchimisti, è un libro di una bellezza accecante.

C’è una buona notizia però: le Edizioni SUR ripubblicheranno tutte le opere di Juan Carlos Onetti. A marzo 2013 uscirà Il Cantiere, non so quando sia in programma Raccattacadaveri, ma dovrebbe rivedere la luce, se tutto andrà bene.

Raccattacadaveri è un libro, ma in generale Onetti come autore, che io non riesco a leggere tutto di fila, in immersione, perchè mi abbaglia. Devo prendermi delle pause, lasciare che le pupille si rilassino. Questa è una di quelle pause. La sua prosa contiene paragrafi che devo rileggere due, tre, quattro, anche cinque volte, e non perché non li capisca, ma per lo stupore. E ogni volta, a ogni rilettura, il suono delle parole si accorda sempre meglio e lo stupore si assesta, si ingrassa di nuovo senso.

Bisogna anche dar merito, un merito enorme, a Enrico Cicogna, il traduttore, ma non solo, colui che portò in Italia Onetti e parte della grande letteratura sudamericana del Novecento. La traduzione di Raccattacadaveri offerta da Enrico Cicogna, complessa come per tutta l’opera di Onetti, per la lingua ricchissima e il ritmo mai lineare, pieno di sfumature semantiche e di accordi musicali, è un capolavoro nel capolavoro. È palpitante, densa, gioca con le parole, azzarda, fa di tutto per restituire e rimanere a ruota del turbinare della prosa di Onetti, e ci riesce, il risultato è straordinario, niente a che vedere con quella lingua narrativa neutra e asettica di molte traduzioni. Si percepisce il trasporto, la passione e la presa che Cicogna è riuscito ad avere sul testo per riprodurlo, in questo come ne La vita breve (libro di Onetti edito da Einaudi che seguirà la settimana prossima).
C’è un verbo che usa spesso Cicogna, bizzarro, mai udito prima, stravagante ma emblematico delle tante evoluzioni linguistiche e che riassume in sè tutta l’abilità del traduttore, la sua inventiva e la capacità di restituire in un’altra lingua la voce di un genio della letteratura: palpebrare.
Non usa “chiudere le palpebre”, “battere le ciglia” o altre espressioni comuni per indicare quel piccolo movimento automatico che, di solito, richiede poi propaggini circonvolute e arrancanti per essere condito di senso. Dice soltanto “palpebrare” e in quel verbo è impressa tutta la carnalità, la grassezza, il sudiciume, il torpore di una prostituta o di un lenone o di un ipocrita, la consistenza di un corpo che pulsa nelle sue contrazioni e che la fantasia e il talento di Onetti sono riusciti, con un’unica pennellata, a rendere vivo.

Juan Carlos Onetti è uno di quegli autori che nella mia personale cosmogonia letteraria vivono nell’empireo dei grandissimi, là dove perdono di ragionevolezza e di identità le classifiche, i raffronti, il gioco presuntuoso di mettere sulla bilancia da farmacista un arto di quello con un arto di quell’altro e cercarne, insensatamente, un peso che non hanno. Là volano gli immortali, e non importa se la leggerezza o la noia o i bilanci di chi non lascia traccia li ha destinati all’indifferenza, là sono quelli che hanno fatto del romanzo un’arte tra le più favolose, quelli che dipingono una Sistina o compongono un Requiem con le parole; quelli dei quali puoi riconoscere la presa sulle parole come dei Maestri si può riconoscere la singola pennellata o la successione di poche note; quel gesto unico e inimitabile, inspiegabile, del tutto fuori dalla possibilità di comprensione e spiegazione, quell’impulso che produce il sublime, l’espressione circolare che racchiude la bellezza, che non necessita interpretazioni e che nessuna interpretazione può riprodurre.

Era un uomo di oltre cinquant’anni, con una peluria a piumino intorno alla pelle rosea del cranio, con la faccia flaccida e glabra, con sporadiche fiammelle d’astuzia e d’interesse sotto la canizie precoce delle sopracciglia. S’accomodava, corretto e pesante, sul sedile circolare della sedia, teneva unite le scarpe piccole e lucide, e descriveva curve nell’aria con la mano sinistra, o la presentava a palma rovesciata sulla coscia. Forse sapeva di cosa stava parlando quando imponeva il racconto della sua vita, ed enumerava o diminuiva ingiustizie; quando la voce ridente ripercorreva luoghi comuni: il capitalismo, l’oligarchia, le cooperative agricole e il laburismo inglese; quando lasciava intendere che tutto ciò era stato, se non un prologo deliberato, un antecedente fatale dell’esistenza di un postribolo a Santa Maria.
Assentendo, rannicchiato accanto al camino, dove bruciava e si spegneva la bracciata di rami verdi che aveva portato il ragazzo, Diaz Grey cercava di riassumere tutto ciò che quell’uomo grasso veemente e iteratore ignorava di se stesso. ‘È nato qui, sulla costa, e le superfici del fiume, della sabbia, della campagna, lo hanno a poco a poco isolato e l’hanno annullato per cinquant’anni, mentre la frequenza del vaporetto gli ha dato, gli mantiene l’illusione di partecipare agli avvenimenti lontani che ritiene decisivi. Non è una persona; è, come tutti gli abitanti di questa fascia del fiume, una determinata intensità d’esistenza che occupa, si invasa nella forma della sua particolare mania, della sua particolare idiozia. Perché noi ci distinguiamo soltanto per il tipo di autonegazione che abbiamo scelto o che ci è stata imposta. Un piccolo paese da burla, dalla costa fino ai binari che limitano la Colonia, dove ognuno crede alla propria parte e la recita senza spirito. E perciò anch’io, quando mi distraggo, quando non sto più all’erta e partecipo, sono il dottor Diaz Grey, faccio il medico, l’uomo di scienza con nozioni meno discutibili di quelle delle vecchie che provvedono ai parti, alle indigestioni e al malocchio nelle capanne della costa. E anche questo poveraccio, che mi sforzo di amare, ha smesso da parecchi anni di essere l’autentico e per sempre ignorato Euclides Barthé; e tutti, senza sospetto, lo vedono sostenere la parte del farmacista, dell’erborista, del consigliere municipale e — ora fino alla sua morte — del profeta dei postriboli santamariani.’

Eccola l’inafferrabile grandezza di Juan Carlos Onetti. L’avevo già riletto almeno tre o quattro volte questo brano eppure, ora che l’ho trascritto, di nuovo mi ha preso la sorpresa mentre ne ascoltavo la forma delle parole, le “fiammelle d’astuzia” sotto la “canizie delle sopracciglia”, il “prologo deliberato”, il “Non è una persona” che “si invasa nella forma della sua particolare mania”, le rileggo ancora mentre le trascrivo per la seconda volta e mi domando, senza retorica, ma solo con stupore, puro, sincero, incomprensibile stupore, cosa si veda, cosa si senta per riuscire a scrivere in questo modo straordinario.

Riprendo la lettura.

E il titolo, Raccattacadaveri? Mi vien perfino da ridere mentre mi dico “Diosanto, ma come si fa a far scomparire un libro con un titolo del genere? Ma com’è possibile?” Onetti non lo dice subito cosa significa Raccattacadaveri; è il nomignolo del protagonista Larsen, Raccattacadaveri o anche solo Raccatta. Non lo spiega quando lo presenta, ci vogliono almento una settantina di pagine per saperlo, e io non ve lo dico, nonostante sia un’altro di quei pezzi memorabili, va scoperto solo dopo quelle settanta pagine, non prima nè dopo. Vi dico però chi è Larsen, Raccatta, Raccattacadaveri, il lenone del postribolo di Santa Maria, con le parole di Onetti.

Sapeva fare in modo, senza chiederlo, che la donna offuscata pagasse il conto della propria sbornia; in quel modo, i giorni futuri venivano sgombrati da interpretazioni errate o confuse. E ogni volta, nell’epilogo di quelle notti di nozze, quando il cadavere adiposo o scheletrico che si era appena aggregato alla sua collezione o gregge si risolveva a sospendere, sempre provvisoriamente, il pianto o il vomito o le stanche frasi di affetto mormorate tra la spalla e l’orecchia, Raccatta alzava verso il soffitto della stanza la sigaretta infilata nel bocchino e meditava per qualche minuto su quel fallimento e su quella sensazione di fallimento che si avvinghiavano a tutte le donne dopo i quarant’anni, e che sembravano aspettarle in agguato fin dal principio, fin dalla nascita o dalla adolescenza, come un brigante su un viottolo. O che le donne si portavano dentro e alimentavano col proprio sangue e un giorno inevitabile partorivano per venirne soggiogate, e dare poi la colpa della sua esistenza agli altri, al mondo, al Dio che si figuravano dopo il traguardo dei quaranta.
Questo senso di naufragio — che Larsen vedeva realizzarsi indipendentemente da qualsiasi circostanza immaginaria — questa condanna biologica alla disillusione, affratellava a lui tutte le donne. Ma, nello stesso tempo, dato che il fallimento femminile era irrimediabile e che lui, invece, non aveva ancora detto l’ultima parola, poteva agire nei loro confronti come il fratello maggiore, poteva capirle in anticipo, senza bisogno di sentirle mentire, poteva dirigerle e usare il loro denaro per accontentarle con stimoli di poco prezzo, quotidiani, concreti.

Signore, prendete un respiro profondo prima di proseguire, se ancora volete farlo. Rileggete il brano. È terrificante e meraviglioso quello che esce dalla penna di Onetti. Esce un personaggio, Larsen, Raccattacadaveri, immortale nella sua perfezione spettrale e viscerale.

Se ne La vita breve Onetti è magmatico, sbatte onde di costruzioni immaginifiche e desolate su altre onde altrettanto desolate e immaginifiche, incessante, lungo tutto il libro fino al finale nel quale i piani, sempre meno distinti, si fondono in una rappresentazione che galleggia sui personaggi, sulle storie, perfino sui suoi libri; qui, in Raccattacadaveri, Onetti distende la scrittura lungo una storia, di prostitute e di borghesi, di Raccatta e del dottor Diaz Grey, di Julita vedova pazza e Jorge sedicenne troppo maturo e dolorosamente innamorato. Scioglie la sua penna visionaria sulla trama dell’ipocrisia cattolica e borghese e su quella dell’indolenza del tempo irreale che scorre nell’inesistente Santa Maria, nel palpebrare di Maria Bonita, tra le cosce grasse e consumate che stringono un bicchiere di vodka, e nella ferocia onesta e sudicia di Larsen, Raccatta.

Ogni idea di ridicolo e di spionaggio era lacerata, dissolta, dal senso di eroismo passivo, di dovere sociale compiuto che essi andavano creando e irrobustendo, quasi con monosillabi, lungo tutto il crepuscolo e fino a notte alta. Trovavano sostegno, inoltre, nelle sensazioni di pericolo che nascevano dalla solitudine, dalla durezza delle pistole sotto l’ascella, dalla distanza monotona che scendeva, girando, verso il fiume invisibile e verso le catapecchie di Enduro, pensavano di essere testimoni e giudici, erano convinti che le corte righe irregolari che tracciavano di tanto in tanto alla luce del cruscotto avrebbero potuto modificare un destino, alterare un’idiosincrasia.

Poi, inattesa, illogica, senza segni premonitori, fuori dalla storia, fuori dal libro, fuori dalla letteratura, fuori da qualsiasi regola o consuetudine o educazione o condiscendenza, ma solo e soltanto dentro a una sfera di parole che si fondono in un’alchimia mai tentata prima, ecco la voce di Onetti che prorompe nel testo e rivela, qui, come invece mai avviene ne La vita breve, forse per debolezza, forse per delusione o disprezzo, la genesi, il creatore, il suo odio.

È facile disegnare una carta del luogo e un piano di Santa Maria, oltre a darle un nome; ma occorre mettere una luce speciale in ogni negozio, in ogni androne ad ogni cantonata. Bisogna dare una forma alle nubi basse che vanno alla deriva sul campanile della chiesa e sulle altane con parapetti color crema e rosa; occorre distribuire masserizie disgustanti, occorre accettare tutto ciò che si odia, occorre trasportare gente, da non si sa dove, per farla abitare, insudiciare, commuovere, essere felice e sciupona. E, nel gioco, occorre che gli fornisca corpi, esigenze di amore e di denaro, ambizioni dissimili e coincidenti, una fiducia mai valutata nell’immortalità e nel merito dell’immortalità; devo fornirli di capacità di dimenticanza, di viscere e di volti inconfondibili.

E arriva il finale, tragico e grottesco, onesto e cinico, con un riferimento a La vita breve lasciato sgocciolare come per caso dalla folla di parole… Onetti, che mescola riferimenti tra i suoi libri… coi sudici benpensanti in marcia e in parata, le giovinette, il curato, il poliziotto, gli sbirri e il dottore.

Per gli amici sul serio, basta Maria Bonita.

Si chiude il grande Raccattacadaveri, la farsa dolente del postribolo di Santa Maria, il profilo aquilino di Larsen, Diaz Grey grigio e sogghignante, Marcos con l’Alfa rossa, Jorge e Julita.

“Merda,” dissi con una tenerezza, una pietà, una gioia che soltanto lei, che stava imputridendo appesa alla trave, avrebbe potuto capire.

8 commenti su “Raccattacadaveri – Juan Carlos Onetti

  1. Massimiliano
    10 gennaio 2016

    Devo ammettere che é stato difficile leggerlo ma ne é valsa davvero la pena, un modo di scrivere a cui non si é abituati e che da lustro alla parola letteratura spesso bistrattata.
    Fra poco attacco il cantiere, tenteró l’approccio in lingua originale, una sfida nella sfida.

    • 2000battute
      10 gennaio 2016

      Ah! In lingua originale? Ti invidio

  2. Maurizio Mancini
    2 dicembre 2014

    una prosa fantastica: la mente mi obbligava ad allontanare le pagine e, come quelle stupide cartoline piene di ghirigori che poi se le guardi di sbieco ti appaiono degli oggetti in tre dimensioni, cosi Onetti ti aggredisce dall’alto e ti appare chiaro dopo una attentissima lettura.
    ciao

  3. Maurizio Mancini
    2 dicembre 2014

    divorati tutti e due e adesso mi preparo con La vita breve.
    un grande ok, desolatamente e disperatamente.
    grazie per avermelo fatto conoscere!

    • 2000battute
      3 dicembre 2014

      Felice che ti sia piaciuto.

  4. Nicola Schena
    10 novembre 2014

    Puoi toglierlo dalla lista dei libri dispersi, finalmente. Grazie a Minimum Fax, che ha conservato la splendida traduzione di Enrico Cicogna: http://www.minimumfax.com/libri/scheda_libro/689
    Ciao e complimenti per il blog.

    • 2000battute
      12 novembre 2014

      L’avevo già tolto (non tolto, ma corretto) ;)
      Grazie comunque per la segnalazione e sì,
      W la traduzione di Enrico Cicogna!!!
      ciao

    • 2000battute
      12 novembre 2014

      L’avevo già tolto (non tolto, ma corretto) ;)
      Grazie comunque per la segnalazione e sì, W la traduzione di Enrico Cicogna!!!
      ciao

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