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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

De profundis – Oscar Wilde

De profundis - oscar wilde

DE PROFUNDIS
Oscar Wilde
Traduzione di L. Scarlini

Rizzoli

Leggere il De profundis di Oscar Wilde è senz’altro una buonissima occupazione del proprio tempo; presumere di commentarlo, invece, è tutt’altra faccenda. Il motivo è molto semplice: è inevitabile scivolare nella soggettività e nella parzialità più totale.

Il testo è celeberrimo e ha assunto la statura del simbolo. Simbolo dell’artista incarcerato da una società gretta e crudele; simbolo dell’amore calpestato; simbolo della disperazione più fosca; simbolo della purezza d’animo lordata da uomini meschini; simbolo dell’abbandono di ciò che si è stati.

De profundis può essere tutto questo e molto altro. Dire cosa in effetti sia, però, è difficile. Difficile per molte ragioni. La forma è la più diretta e intima: una lettera, lunghissima, articolata, altalenante tra passaggi di strazio e sofisticate discettazioni sull’Arte.
Il destinatario: il giovane amico, amato, la causa della disgrazia che distrugge per sempre la vita di Wilde, i processi e l’incarcerazione per bancarotta durata due anni. Un rapporto tra Wilde e il giovane che assume aspetti perversi di dipendenza e al contempo di superiorità di Wilde nei confronti del giovane rampollo aristocratico. Perversità che tuttavia prosegue anche nel dipanarsi della lettera, dall’accusa implacabile che Wilde gli rivolge, talvolta rabbiosa, all’auto-imposizione di non cedere nel suo amore per il giovane, dal tono talvolta accorato, altre volte quasi pedante. Il tutto immerso in una disperazione lucida e profonda per la propria condizione di recluso e di genio letterario e poetico caduto nella polvere, mentre la società che un tempo lo adorava ora lo deride e lo umilia.

Ma non solo. Wilde intreccia un percorso intimo attraverso il dolore con un’elaborazione intellettuale della sua storia e della sua condizione, mescola continuamente i riferimenti e i piani, così come mescola continuamente i toni con i quali si rivolge a se stesso e al destinatario della missiva.
Si sente la voce dell’uomo prostrato, ma pure quella della celebrità abituata ad essere adulata e osannata.

Questo è un testo che molto più di altri si presta a letture differenti, a seconda degli occhi che vi si posano sopra. Per le sue contraddizioni, per le molte articolazioni e per le profondità nelle quali si insinua. Può commuovere, affascinare, ma anche lasciare diffidenti, può farsi guardare con sguardo critico o analitico. Difficilissimo dire se piacerà o meno e a chi.

Chi mai mangiò del dolore i pani
Chi mai trascorse le ore della notte,
Piangendo in attesa del domani
Non vi conosce, Potenze Celesti

Erano i versi che la nobile regina di Prussia, trattata da Napoleone con tanta rozza brutalità, recitava nell’umiliazione del suo esilio: gli stessi che mia madre spesso citava nelle tribolazioni dell’ultimo periodo della sua vita: ho sempre rifiutato di accettare o ammettere l’enorme verità che essi racchiudono. Non la capivo. Mi ricordo bene che le dicevo di non voler mangiare il pane del dolore, o passare tutte le notti a piangere in attesa di un’alba ancora più amara. Non avevo idea che fosse una delle cose speciali che il fato aveva in serbo per me, che per un intero anno della mia vita, anzi, non avrei quasi fatto altro. Ma questa è la parte che mi è stata assegnata, e durante gli ultimi mesi, dopo tremende lotte e difficoltà, ho capito alcune lezioni nascoste nel cuore del dolore. I preti e le persone che usano le parole senza saggezza, qualche volta parlano della sofferenza come di un mistero. Questa è davvero una rivelazione. Si capiscono cose che non si erano mai comprese prima. Ci si avvicina all’intero corso della storia da un diverso punto di vista. Quello che si sentiva pallidamente, per istinto, nell’Arte, viene ora percepito intellettualmente ed emozionalmente con perfetta chiarezza di visione e assoluta intensità di sentire.
Capisco ora che il dolore, suprema emozione di cui l’uomo è capace, è allo stesso tempo modello e banco di prova di ogni grande Arte. […]
Dietro la gioia e le risate ci può essere un temperamento rozzo, duro, cinico. Ma dietro il dolore c’è sempre il dolore. Il dolore, a differenza del piacere, non porta maschera. 

È un passaggio profondo questo, parole che squarciano e rievocano oscurità che non solo lui cela. Come questo molti altri. Ma molti altri ancora a me hanno richiamato agli occhi un senso di distacco. Wilde non smette i panni dell’Artista neppure in quella condizione di estrema prostrazione e lungamente, durante la lettera, sembra si sforzi di riabilitare quel piedistallo per il quale sdegnosamente rimprovera il suo interlocutore. Concettualizza, cerebralizza, intellettualizza la sua condizione e la sua parabola. Il suo essere un poeta e un artista che si eleva sopra i borghesi, ragione della sua fama, ma anche causa della fragilità umana che lo ha trascinato nella polvere, sembra inestricabile dal suo stesso concepirsi. Non se ne distacca mai, non volge mai lo sguardo altrove.

Alcuni hanno commentato con grande enfasi le lunghe riflessioni che svolge sulla figura di Cristo, come un segno della ritrovata fede e ispirazione religiosa dopo una vita dissoluta.
Niente di più travisante, a parer mio. Non c’è nessun ritorno all’ovile o figliol prodigo wildesiano in questo testo. Pura mistificazione di chi vuol far credere di leggere gli astri davanti a uno sciame di lucciole. Wilde lo dice chiaramente di non trovare alcun conforto nella religione.
Ma ancora di più, proprio nella parte corposa dedicata a Cristo, ciò che fa è invece di umanizzare Cristo, secolarizzarlo e storicizzarlo, renderlo un simbolo per i poeti e ancor più precisamente colui, terreno e umano, al quale si deve la sorgente del Romanticismo come movimento artistico. Per Wilde, Cristo è un artista romantico, non un dio. E a rimarcare la faccenda, sarà forse sfuggito a simili commentatori il passaggio dove Wilde cita nientedimeno che il principe Pëtr Alexeyevich Kropotkin, giustamente aggiungo io (e a chi si domanderà il perché, rimando al commento del bellissimo saggio di Alex Butterworth Il mondo che non fu mai ), come una delle figure più illuminanti e simboliche della sua epoca, anch’egli lungamente detenuto nelle carceri di mezz’Europa ma mai piegato nello spirito e nella mente.

Mi lascia pensieroso, il De profundis di Oscar Wilde. Certo è un testo che merita di essere letto, con occhio acuto, a cuore aperto, ogni modo va bene. Per chi già ha letto opere di Wilde e le ha apprezzate è un testo indispensabile. Io ne lessi un paio molto tempo fa e ricordo che mi piacquero ma non mi affascinarono, sempre per quel non-so-che di riflesso auto-indotto sulla propria grandezza di poeta e sugli splendori del Romanticismo che Wilde lascia percepire.
Il De profundis ha alcuni passaggi sublimi, ma più spesso mi ha resuscitato quella stessa antica sensazione di distacco. Come di una comunanza assente tra quelle parole e le mie, una musica che colpisce il mio udito senza avvolgerlo. Come di un tentativo, forse inconscio e disperato, di ergersi di nuovo nei panni del poeta celebrato e dell’uomo fragile, anche quando la vita per lui ormai aveva svoltato in modo definitivo.

In ogni caso è un testo plastico, plasmabile in molti modi. Un modo è quello di farne una riduzione teatrale. Per questo chiudo segnalandovi proprio una versione per il teatro che ha pubblicato Auditorium Edizioni nel 2012 curata da Claudio Marconi che è un attore milanese (e, aggiungo, è stato anche mio insegnante, oltre a essere un amico). È stato messo in scena nel gennaio 2012 al Teatro Arsenale di Milano, con le musiche di Matteo Pennese e Walter Prati e voce recitante, oltre alla regia, dello stesso Claudio Marconi. Qui un frammento.

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Questa voce è stata pubblicata il 12 gennaio 2013 da in Autori, Editori, Rizzoli, Wilde, Oscar con tag , , , , .

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