«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LA VITA BREVE
Juan Carlos Onetti
Einaudi 2010
Una sinfonia grande, maestosa, con gli archi, gli ottoni, i fiati, il pianoforte, l’intera orchestra che cresce nel suono aggrovigliato delle molte melodie, cresce come una marea, a ondate che si allargano e si accavallano, sempre di più, col direttore Onetti che sbraccia regale, accelera, impartisce tocchi a quella e a quell’altra sezione, poi ai singoli orchestrali, ognuno suona la propria tonalità, il suono rimbomba ma sempre più si sfilaccia in serpenti sonori che frenetici si intrecciano fino a diventare la sinfonia dell’incomprensibile, una monumentale, meravigliosa raffigurazione sonora dell’insensatezza dell’ambizione di descrivere.
La vita breve è un altro grande libro di Juan Carlos Onetti dopo Raccattacadaveri, ha l’aspetto e la consistenza del capolavoro, il capolavoro della vacuità di ogni ambizione realista e anche di ogni pretesa di poter raccontare la realtà dandole una sagoma ben riconoscibile.
È un libro difficile da leggere, Onetti mette a dura prova la resistenza intellettuale e fisica del lettore con una storia i cui piani scivolano sempre di più uno sull’altro fino a mescolarsi del tutto in una lunga scena finale da Teatro dell’Assurdo — meravigliosa, un pezzo di letteratura tra i più intrisi di bellezza — e con uno stile cianotico eccessivo di parole che montano una sull’altra, di infinite e puntigliose descrizioni che arrivano a ondate sempre più ravvicinate fino a schiantare la resistenza futile del lettore barricato dietro alla sua grottesca barriera di cartone della presunzione di comprendere e decodificare e sbrogliare quel groviglio demoniaco.
Quando l’ho chiuso e ho pensato al commento che avrei voluto scrivere, ho avuto un momento di terror panico — E adesso? Cosa dico?
L’impulso è stato di cercare altri commenti, recensioni, per trovarvi una traccia da afferrare e seguire, trovare una cornice, una qualsiasi.
Poi ho seguito, come sempre, l’istinto e la presunzione e non ho cercato cornici, ma mi sono messo a scaldare una pietanza avanzata dal giorno prima, di fianco alla finestra, soffiando fuori il fumo della sigaretta. E lì ho trovato la cornice che cercavo.
Bisogna essere onesti. Bisogna accettare ciò che si vede.
Commentare La vita breve disegnando una cornice, per dare una forma, per far emergere un abbozzo, per dire «Io ho capito!» è ingenuo, a meno di non sobbarcarsi un lavoro certosino di mesi per decodificare ogni frase, ogni aggettivo, e via via mettere insieme i pezzi di un mosaico sterminato, augurandosi che la Buona Sorte sia magnanima.
Non è quello che voglio fare io.
La mia cornice è che non c’è nessuna cornice, La vita breve ne tratteggia alcune per prendere l’abbrivio, poi le discioglie inesorabile, lasciando al lettore quella grande, maestosa sinfonia dell’incomprensibile.
Questo è quello che ha voluto Onetti: scrivere un libro sulla vita che risultasse indecifrabile, il magma primordiale di Santa Maria, privo di punti d’appoggio, sgretolando ogni cornice dentro le quali cercare conforto per raccontarsi una storia, facendo del suo protagonista tre protagonisti, circondato da altre figure anch’esse mutevoli, che si riflettono, si sdoppiano, trasfigurano, fino a diventare una folla di interpreti che, sbucando improvvisamente dalle pagine, recitano la loro parte e scompaiono, dissolvendo le esistenze di ognuno in una marcia verso la perdita di senso, e con questo verso la consapevolezza dell’assurdo, in scenari che esplodono sempre di più; una stanza in un appartamento, poi due stanze in due appartamenti, due vite parallele di una stessa persona che procedono fintanto che la prima, quella del protagonista Brausen, imputridisce come il seno reciso della moglie per lasciare il campo a quella di Arce, stesso uomo ma altro, a fianco della prostituta Queca, che ucciderà, ma non sarà lui a farlo, mentre cresce la terza vita, quella immaginata da Brausen per il suo romanzo, la vita del dottor Diaz Gray nel paese immaginario di Santa Maria, affondato nell’aria fangosa e inebriante che circonda Elena Sala, e il marito e il giovane Inglese.
Eccoli i tre piani che si stagliano chiari all’inizio del romanzo e poi si fondono, si confondono e confondono il lettore travolto dalla prosa alluvionale di Onetti, i piani scivolano, si scambiano di posto, si intossicano uno con l’altro; la disperazione mai essenziale ma vaniloquente di Brausen/Arce/Diaz Gray percola tra i piani, non c’è mai una luce, uno spiraglio chiaro che definisca i contorni e disegni le ombre, ma sempre e solo l’indolenza dell’arsura e dei letti sfatti, la prostituzione dei corpi e delle anime, la discesa verso l’unica forma di sincerità possibile, quella del proprio disfacimento.
Apro (quasi a caso).
Nota: il brano è tratto dall’edizione Feltrinelli del 1982 (vedi copertina), non più in catalogo; la traduzione è di Enrico Cicogna, la stessa dell’edizione Einaudi del 2010.
Era il tempo dell’attesa, dell’infecondità e dello sconcerto; tutto era confuso, tutto aveva lo stesso valore, identiche proporzioni; un significato equivalente, perché ogni cosa era sprovvista di importanza e accadeva fuori dal tempo e dalla vita, senza più un Brausen che ponderasse, ancora senza un Arce che imponesse l’ordine e il significato.
La stanza diceva di no e io picchiavo la Queca, sempre più disinteressatamente, con meno odio e meno disprezzo, col rammarico più ammorzato, con minore bisogno che fosse ubriaca.
La città era giunta nel mezzo dell’estate e tutti credemmo che si fosse situata per sempre nel centro del caldo immobile, indolente e ansimante da un’alba rossa fino alle notti nerissime ed esauste in cui ognuno di noi si sforzava di conservare l’ultimo fiato per accogliere l’impreciso avvenimento, la realizzazione e l’inizio promesso dalle foglie mineralizzate degli alberi, dai grandi spazi dei viali e delle piazze, dalla furtiva, irritante discesa del sudore sulla pelle.
Ecco la prosa cianotica e alluvionale di Juan Carlos Onetti, l’incomprensibilità che monta pagina dopo pagina, “l’irritante discesa del sudore sulla pelle”, metafora perfetta dello sforzo necessario ma senza speranza che questo libro pretende dal lettore che voglia affrontarlo e respirarlo tutto, fino al finale meraviglioso.
Il finale, eccoci arrivati. Là dove tutto si mescola e perde definitivamente ogni contorno, anche il libro stesso perde il proprio fondendosi con un altro libro di Onetti, Raccattacadaveri (un [Libro Disperso] in piena regola, fuori catalogo da un pezzo e conosciuto da pochi) dell’immaginifica invenzione di Santa Maria. La suprema bellezza di questo finale sta in una festa di carnevale con un re, un alabardiere, un torero e una ballerina; personaggi grotteschi nella loro irrealtà e in fuga in un luogo inesistente, Santa Maria, il paese immaginato da Brausen, il personaggio del libro. Non c’è più alcuna cornice che separi la realtà dall’immaginazione, la vita dell’autore da quella dei suoi personaggi, non c’è più neppure la parvenza di decorosa consistenza fornita dagli abiti, solo maschere tragiche e farsesche, l’ultima recita di una fuga, anch’essa inesistente.
Grande libro, per chi accetta di faticare molto e contemplare la propria incapacità di comprenderlo.
l’ho appena finito. E come te ho cercato in giro commenti, recensioni quasi con la sete di essere illuminato da altre chiavi di lettura.
Grazie per il tuo contributo. E’ stato in viaggio di scoperte e smarrimenti. Fino a che in certi punti, nell’abisso della confusione ho pensato che Edoardo fosse il quarto protagonista. Il finale del capitolo Thalassa l’ho dovuto rileggere tre volte!
Confesso anche la lettura di questo libro prima di addormentarsi, se -da un lato- confonde ancora di più le idee, dall’altro apre incredibilmente un’apprezzamento onirico (ho sognato che Brausen faceva questo, oppure l’ho letto?)
E un ultimo accenno al fatto che Onetti inserisce se stesso come personaggio? É il personaggio che divide il nuovo ufficio di Brausen (ormai Arce).
un libro davvero indescrivibile.
PS: In Bolaño, 2666, la città immaginaria di Santa Teresa (che senza dubbio é Ciudad Juarez) vuole, secondo te, richiamare -solo per un’allusione lontana- la Santa Maria di Onetti?
Sai che mi emoziona sentirti parlare con tanta emozione di Onetti e della fondazione del mondo di Santa Maria?
Mi risento e mi rivedo quando passai io per la prima volta su quelle pagine.
Ora spero che tu faccia tutto il cammino nella storia di Santa Maria… cambierà anche nome… le trappole di Onetti.
Per Bolaño davvero non ne ho idea, sembra difficile pensare a una coincidenza, certo Bolaño conosceva Onetti, ma chissà forse stiamo romanzando troppo.
P.S.: SUR ha appena ripubblicato Raccattacadaveri, con la traduzione originale di Enrico Cicogna, che mancava da molti anni. Questa è una grande notizia perché è il libro indispensabile di Onetti, a mio parere