«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
ULTIMO ROUND
Julio Cortázar
Traduzione di E. Mogavero
2007 ALET
Questo non è un libro per tutti. Credo di no. È un libro per chi ama molto Julio Cortázar, per chi vorrebbe che il gioco del mondo di Rayuela non smettesse mai. Onori e gloria alla piccola casa editrice ALET per averlo pubblicato.
Vi racconto del mio incontro con Ultimo round. È successo diversi mesi fa quando ho preso in mano per la prima volta questo libro. Mi trovavo a Bologna, nella libreria Coop Ambasciatori, quella su tre piani con dentro Eataly e pure il voluminoso Romano Montroni che sembra ogni tanto dirigere la macchina con cipiglio da capitano del vapore, e ogni tanto sembra vagolare annoiato in cerca di occupazione, si siede a leggere, si improvvisa cassiere, fa cose così. L’ho sempre visto come un simpatico personaggio quasi picaresco, fin dai tempi, secoli fa, della prima libreria Feltrinelli sotto le Due Torri.
Comunque ero lì e avevo da poco finito di leggere Il gioco del mondo (Rayuela), l’incredibile fuga dalla realtà che è quel libro, viaggio interstellare, oppio per l’immaginazione, massaggio shiatzu per le passioni, carne e cervello mescolati fino a perdere i contorni di un divano, una finestra, un tavolo, un luogo, il proprio luogo. Maga… oh Maga! Quel ritratto di donna, quanto infinito fascino gli hai soffiato dentro. Insomma, ero nel pieno dell’incantesimo cortázariano e guardavo cos’altro potevo prendere, quando mi scivola in mano questo Ultimo round.
Ci sono libri e libri. Intendo fisicamente, fattualmente, in quanto oggetti dotati di corporeità.
Ci sono libri e libri. Come ci sono donne e donne, sempre inteso fisicamente, fattualmente, nella loro corporeità. O uomini e uomini, scegliete voi, io faccio riferimento a quello che conosco meglio.
E tra libri e lettori, così come tra donne e uomini (vedi sopra, se volete fare donne-donne o uomini-uomini, sostituite a vostro piacimento, il discorso non cambia), passa, a volte passa, una sensazione inspiegabile di intimità tra estranei.
Succede.
A me succede. Coi libri, ma anche con le persone.
«È il mio tipo», vale per gli umani come per i cartacei (scusate amanti degli ebook, ma per i digitali non vale, per me, almeno).
Pure di più. La dico tutta, anche se può sembrare che stia esagerando, ma che importa, finti pudori.
I cartacei, come gli umani, hanno una pelle, un’epidermide, che può essere toccata.
Chi non ha mai provato la sensazione di far scorrere i polpastrelli sulla pelle di un’altra persona?
Succede, non sempre, forse solo qualche volta, ma succede, a me succede, che quando le punte delle dita scivolano e indugiano su di un pezzetto di epidermide, a un tratto è come se, a ogni minimo incontro delle due epidermidi, si accendesse uno sciame di lucciole; migliaia di impulsi elettrici che sprigionano da quelle minuscole terminazioni nervose e corrono come pazzi su su lungo le braccia, fino al petto dove riprendono slancio per conficcarsi dritti dentro al cervello. E lì succede una cosa stranissima, perché non è solo un turbinamento sensuale che provoca confusione, ma comincia a parlare una voce, suadente, avvolgente come una coperta di lana morbidissima, e parla una lingua sconosciuta. Non si capiscono le parole, parla, parla, si sente questa voce dolce parlare senza comprendere quello che dice, ecco il momento dell’incontro, solo musica di parole, l’intimità estranea.
Bello anche soltanto ricordarlo.
E anche un libro sa accendere quello sciame di lucciole. Lo prendi in mano, lo accarezzi, senti quella voce dolce e sconosciuta, poi lo sfogli e scambi un sorriso.
«È il mio tipo».
La differenza principale con una donna è che un libro prima lo si accarezza poi ci si scambia un sorriso, con una donna, normalmente, succede il contrario.
(con questo non intendo dire che alla prima succeda necessariamente la seconda, soprattutto nel caso degli umani, anzi sono più le volte che sorridi e finisce lì, lo dico perché non vorrei sembrare uno che sta qui a darsi delle arie dongiovannesche).
Ecco come ho scelto Ultimo round, per fascinazione istantanea. Lo sfogliavo e vedevo che era diverso. È un’anomalia. Non rientra in nessun genere, lo si vede immediatamente. Fai scorrere le pagine e vedi racconti, vedi fotografie, disegni, disegni e fotografie in mezzo a racconti, poesie, poesie scritte per la lunga, altre immagini, e poi altri disegni, racconti brevissimi, racconti lunghi, leggi il risvolto di copertina per capire il perché di quell’anomalia e apprendi che è opera dell’autore, anzi addirittura quando venne pubblicato nel 1969 era in grande formato, quasi come un giornale e come un giornale era impaginato, era una composizione di entità distinte che insieme formano un tutt’uno coeso, allora pensi all’anomalia voluta dallo stesso Cortázar, proprio lui ha voluto che a te, quando lo guardi, ti sembri un’anomalia.
In questo modo ricomincia il gioco del mondo, il non-romanzo che si dipana e si smembra, ricomincia quel fumo oppiaceo inebriante che ti ha condotto fino lì. Se si è letto Rayuela, si sa che da Julio Cortázar bisogna lasciarsi incantare e seguirlo lungo le spire di sigaretta che lui stesso insegue.
E all’anomalia io non so resistere. Ma poi, perché resistere?
Ultimo round non è un romanzo, non è una raccolta di racconti e non è un saggio; non è un’autobiografia e non è un libro storico, neppure è un libro illustrato o un libro di viaggio, non sono favole e non è filosofia. E nemmeno un libro erotico.
Non è nessuno di questi e allo stesso tempo è tutti questi messi insieme.
Ultimo round è un Arlecchino, un mosaico, un patchwork, un pastiche, è Julio Cortázar che crea l’intimità tra estranei, tra lui e i suoi lettori, senza maschera, senza trama, senza personaggi, non c’è storia e ci sono decine di storie, e immagini e poesie. C’è tutto messo insieme in un’impalcatura di storie. Not text but texture.
Tutto il brano aveva il valore di un responso oracolare [NdA: qui Cortázar fa riferimento a un brano di Vladimir Nabokov tratto da Fuoco pallido del quale riporta la versione originale in inglese]: Not text but texture. La consapevolezza che doveva essere la trama a creare il testo e non quest’ultimo a tessere convenzionalmente la trama e mettersi al suo servizio. E trovare così some kind of correlated pattern in the game, la struttura del gioco che avrebbe coordinato con naturalezza events and objects with remote events and vanished objects. All’interno di quella prospettiva aveva trovato molto tempo prima la sua ragione di essere 62 [NdA: qui fa riferimento a Componibile 62, libro che scrisse esplodendo ed estremizzando ancor più il Capitolo 62 di Rayuela], esplorazione dell’esplorativo, esperimento della sperimentazione, senza però rinunciare alla narrativa, all’organizzazione di un altro piccolo mondo in cui ci saremmo potuti riconoscere e divertire e avremmo potuto camminare insieme a Feuille Morte e fare naufragio con Calac e Polanco. Ma proprio a quel punto, è ovvio, doveva capitarmi tra le mani un testo di Felisberto [NdA: Felisberto Hernández] che non conoscevo (questi uruguaiani nascondono sempre le loro cose migliori), in cui avrei trovato un programma di lavoro che mi avrebbe offerto la giusta motivazione nell’ora del dubbio più profondo. “Non credo di dover scrivere soltanto quello che so – diceva Felisberto – ma anche il resto.” Davanti a una narrazione in cui la rottura di ogni ponte logico e soprattutto psicologico era stata la condizione preliminare dell’esperienza, a tentativi talvolta esasperanti per la rinuncia volontaria ai punti di appoggio convenzionali del genere, la frase di Felisberto era come una mano che mi porgeva la tazza di mate amaro dell’amicizia all’ombra dei glicini.
Ecco perché io credo che Ultimo round sia un libro da leggere se già si ama Julio Cortázar: perché si è già disposti a farsi portare ovunque voglia lui.
C’è molta Francia in questo libro, e anche molta Argentina e Sud America guardati da un Cortázar lontano ormai da molti anni. C’è il Cortázar che respira l’aria di ribellione e di rottura del ’68 parigino, e il Cortázar che canta per la rivoluzione cubana. Poi c’è il Cortázar che folleggia con le parole, scrive poesie smontabili le cui terzine possono essere ricomposte in qualunque combinazione si voglia (ricordate Rayuela e la doppia lettura?), altre con delle parole mancanti, con versi che rimangono sospesi in un vuoto che dà loro il senso.
Ci sono testi brevissimi e surreali, degli scherzi, scritti chissà come e chissà quando in un impeto creativo e goliardico.
Poi ci sono anche racconti più lunghi, profondi, inquieti, a volte sconcertanti, con i quali Cortázar dispiega le grandi ali e vola in cielo come un’aquila maestosa.
Insomma è difficilissimo riuscire a descrivere cosa ci sia in Ultimo round, tra ricordi di Cortázar, storie mezze biografiche e mezze inventate, discussioni su politica, Argentina ed erotismo, burle, la sensualità dell’esplorazione epidermica della sua compagna e il racconto onirico della fascinazione venata di eros per una ragazzina immaginaria, raccontini di fette spalmate di marmellata, storie di gatti, storie senza capo nè coda, la descrizione mozzafiato della poltiglia umana che brulica alla Howrah Station di Calcutta, e così via in un turbine di immaginazione sfrenata che accosta dolce e aspro, alto e basso, reale e immaginario, luna e sole. Not text but texture.
Vi posso solo consigliare di cercarlo in una qualche libreria o biblioteca e provare ad accarezzarlo e sfogliarlo, poi vedete se succede qualcosa. Può succedere di tutto con Cortázar, da niente allo sciame di lucciole.
Canada Dry
So che ricorderò il soffitto
dove le macchie di umidità erano un gatto, un numero, una mano mozza.
So che ricorderò il fracasso
di uno sciacquone in una lontana camera d’albergo
la sua triste cataratta tascabile, il suo ripetersi inevitabile.
Chacun ses madeleines, chacun ses Albertines
Per sempre sarai una calamita di immagini,
mi porterai quelle più torbide e vane con il gesto
con cui nella calda oscurità della stanza
accendevi le sigarette della sazietà,
vedo profilarsi i nostri corpi nudi fianco a fianco,
le più infime e torbide cose,
l’unghia spezzata che ti faceva soffrire, il triste
rito di andare a lavarti e tornare, le schiavitù.
Abbiamo condiviso solo i bar e le strade
prima di amarci contro tre specchi:
cos’altro potrebbe rendermi il tuo ricordo?
Ma so conservare le cose tristi e dozzinali, portarle
nella stessa tasca in cui tengo quella vita
che illustrerà le biografie. Va’, piccolo fantasma,
il bagno è lì accanto,
io fumerò aspettandoti,
ricominceremo. Il soffitto
disegna un gatto, un numero, una mano mozza.