2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Le rondini di Montecassino – Helena Janeczek

helena-janeczek_le-rondini-di-montecassinoLE RONDINI DI MONTECASSINO
Helena Janeczek
Guanda 2010

Belllo questo libro. L’autrice è Helena Janeczek che vive e lavora in Italia da molti anni, tra l’altro come redattrice dell’ottima Nazione Indiana. Non ho capito bene se sia italiana, oppure tedesca di origine polacca, o solo ebrea polacca, italo-polacca… va bé che importa? io facco che sia una scrittrice italiana di origine ebraica e discendenza polacca.

Cosí ci sono tutti gli elementi che servono per entrare nella storia de Le rondini di Montecassino: c’è l’Italia durante la liberazione dal nazifascismo che si stringe nella voragine della battaglia di Montecassino del 1944 e l’Italia che si specchia ai giorni nostri dentro quei ricordi lontani; c’è la storia del popolo e della nazione polacca smembrati prima dai nazisti e poi dai sovietici, ci sono i lager, nazisti con i forni o siberiani con il gelo che stacca mani e piedi; c’e la storia degli ebrei polacchi, due volte vittime, come ebrei e come polacchi.

Se da questa breve sintesi il libro può sembrare una ricostruzione storica, in realtà lo è solo in parte. Helena Janeczek è molto onesta, lo spiega, interviene in prima persona, narra la storia, anche più di una storia, e narra del suo narrare, spiega cosa ha fatto. Una cosa che dice è che non ha cercato di compiere il lavoro di storico, ma quello di narratrice. Ha seguito i fili che le si presentavano dai ricordi familiari e quelli che via via nella ricerca delle origini ha incontrato, raccontando cosí piccole storie, in parte reali e in parte immaginate, di persone quanto più diverse tra loro che alla fine, in quel 1944 si sono ritrovate a combattere, morire o sopravvivere miracolosamente ai piedi della rocca dell’abbazia di Montecassino.

Perché la storia della battaglia di Montecassino, oltre a ciò che è stato riportato dalle cronache per quanto riguarda il bombardamento dell’abbazia e le tattiche guerresche, è la storia di soldati provenienti dai quattro angoli del mondo riuniti in quella carneficina, una delle tante provocate dall’uragano di distruzione che sconvolse il mondo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Non fu semplicemente “tedeschi arroccati contro alleati angloamericani impegnati nell’assedio”. Fu molto diverso.
Parteciparono soldati francesi e truppe coloniali francesi, e proprio queste sfondarono la linea del fronte e calarono come selvaggi sui paesi della piana, truppe di maori neozelandesi, gurkha nepalesi, battaglioni indiani, canadesi e anche truppe regolari italiane. E partecipò anche il Secondo Corpo d’Armata dell’esercito polacco. Il cuore della storia e l’innervatura di tutto il libro.

Da questo crogiolo di uomini risucchiati da tutto il mondo, spesso raccolti tra i più miserabili o tra quelle popolazioni che con il sacrificio di sangue speravano di conquistarsi una dignità agli occhi dei potenti, Helena Janeczek inizia estraendo alcune storie, due in particolare, per raccontare come sia potuto accadere che ragazzi appena maggiorenni, a volte anche minorenni, da luoghi remoti come il Texas o la Nuova Zelanda, siano finiti a morire nel fango e sui sassi della Ciociaria.
Poi inserisce un’altra storia, diversa, ambientata ai giorni nostri, nella quale due ragazzini romani, Edoardo e Anand, italiani entrambi, il primo di origine polacca, il secondo di origine indiana, un estate decidono di andare a Montecassino per distribuire volantini alle comitive di polacchi in visita nel tentativo di ricevere testimonianze sui molti polacchi che perirono durante la guerra, probabilmente in Italia, ma dei quali non sono mai state rinvenute informazioni.

Questa è una parte de Le rondini di Montecassino, composta dalla voce narrante di Helena Janeczek che parla di sè, da due storie immaginarie di giovani soldati provenienti dagli antipodi e da una storia di formazione e di introspezione di due ragazzini romani.

L’altra parte, la parte epica, come giustamente l’ha definita Giuseppe Genna pur senza distinguere tra fusto e fronde del romanzo, è la storia del Secondo Corpo d’Armata dell’esercito polacco, un esercito di soldati senza una patria dove tornare, che s’immolò a Montecassino e poi ad Ancona, Faenza, furono i primi ad entrare a Bologna liberata.
Helena Janeczek svolge questa storia in ordine cronologico, inframmezzata con le altre storie, tutte scritte molto bene, a volte con tono anche leggero, soprattutto quando entrano in scena i due ragazzini. Compone un mosaico di storie, a più voci e con tinte differenti. Però tra le sue storie, il pathos, il ritmo palpitante, talvolta fuligginoso, oppure tragico ma anche sorridente quando uno squarcio di luce si apre nel cielo ghiacciato, il rotolare di pietre, lo scorrere del sangue, il terrore soffocante o la gioia di un matrimonio ebreo-polacco celebrato in un gulag, la foresta con i lupi, l’orgoglio nazionale, l’orgoglio di popolo, le vittime delle vittime… il cuore, Helena Janeczek lo riserva tutto alla storia delle sue origini, alla storia della Polonia sbranata da due mostri, degli arresti e delle deportazioni, dei morti nei lager tedeschi e nei lager sovietici, cittadini intrappolati tra confini che svanivano e si riformavano, poi nello sterminato sistema dei gulag, polacchi ed ebrei in fuga, sbandati, dispersi nell’immenso ventre della Russia, fino al riformarsi dell’esercito polacco in esilio, con gli ex-deportati macilenti liberati dai campi di lavoro sovietici.

Stiamo vivendo il momento più difficile della nostra vita. La decisione che è stata presa a Yalta dai Tre Grandi fa della nostra terra e della nostra nazione spoglie dei bolscevichi e di colpo ci rende impotenti. Abbiamo lasciato migliaia di tombe di commilitoni sul nostro cammino che consideravamo la strada della nostra battaglia per tornare in Polonia. È per questo che il soldato del 2° Corpo polacco sente che l’ultima decisione della conferenza dei Tre Grandi è la massima ingiustizia, in completa contraddizione del suo senso dell’onore. Detto soldato chiede ora a me: qual è lo scopo di questa lotta? Oggi non sono in grado di rispondere alla sua domanda. Quel che è avvenuto è più che grave; ci troviamo in una situazione dalla quale, fino ad ora, non vedo via d’uscita. Non vedo che la necessità di ritirare quella parte dei miei uomini che è in linea per a) i sentimenti dei miei uomini che ho più sopra descritto e b) il fatto che né io né i miei comandanti in sottordine, sentiamo in coscienza, il diritto di chiedere nuovi sacrifici ai nostri uomini.

A parlare è il generale Anders, comandante del Secondo Corpo d’Armata polacco. Nonostante queste parole, proseguiranno per l’Italia, continuando ugualmente a combattere.

Ecco l’epica, drammatica e terribile, di un popolo in fuga da opposti orrori che Helena Janeczek racconta da narratrice, dal basso, con la sua voce, a volte ferma, altre volte flebile, riannodando i fili di piccole storie, quando può farlo o intrecciandoli lei stessa quando mancano, Racconta come ci sono arrivati i soldati polacchi in Italia, molti rimasti anche dopo la guerra, alcuni di loro, ebrei, che hanno rinunciato al sicuro approdo in Palestina per essere soldati polacchi, soldati del Secondo Corpo d’Armata tra i liberatori dell’Italia.

Il commento è finito, ma a chi vuole attardarsi ancora un poco, racconto un aneddoto personale.

Un aneddoto un po’ da romantico e melanconico, devo ammettere, uno che se ci fosse stato quel fetente di Cornelio Nepote l’avrebbe definito un aneddoto da tritacipolle, ma non c’era quando è avvenuto e non c’e’ neppure ora, quindi pista libera, posso rilassarmi e raccontarlo.

Quando ho chiuso Le rondini di Montecassino era una domenica, la scorsa domenica, ed ero a Bologna a trovare i miei anziani genitori.  L’ho chiuso e mi sono ripetuto, quasi automaticamente, “il Cimitero dei polacchi di Bologna, la Janeczek non lo cita”.

Chi è di Bologna o ci ha vissuto abbastanza a lungo lo sa, ma per i non-bolognesi annuncio che a Bologna esiste un cimitero di guerra conosciuto col nome di Cimitero dei polacchi. Si trova all’estrema periferia est, al confine con San Lazzaro di Savena.
Io lo conosco da sempre, fin da bambino, l’ho visto passando per la via Emilia centinaia di volte, tutti lo conoscono, il Cimitero dei polacchi.

Lo conoscono? Mah! Sicuri che lo conoscano?
Se a Bologna chiedete dov’è il Cimitero dei polacchi, molti ve lo sanno dire, “Subito prima di San Lazzaro”. Se chiedete di cosa si tratta, quasi nessuno lo sa. “È un cimitero”… sì certo, fin qui… e “dei polacchi” che significa? “Che ci sono sepolti i polacchi?”… quali polacchi? che ci fanno dei polacchi morti a Bologna?… Ecco su questo penso che non molti risponderebbero a senso. Alcuni saprebbero che si tratta di un cimitero di guerra, quindi i polacchi sepolti, evidentemente, sono deceduti durante la guerra. Io sarei arrivato fin qui, di più no.
Aggiungo l’ultima informazione: mai, in tutta la vita, mi ci ero fermato.
Quindi, iniziate a capire la successione logico-temporale del mio pensiero-azione.

“il Cimitero dei polacchi di Bologna, la Janeczek non lo cita” + “Non ci sono mai andato” = “Parto alla volta del Cimitero dei polacchi di Bologna”

Così è stato. Autobus numero 19, fermata Parco dei Cedri, si scende dopo un terrificante sottopasso cementifero e un rondó smisurato, subito prima del ponte sul Savena. Si scende atterrando su una banchina posta in mezzo alla Via Emilia, con auto che vi sfrecciano davanti e dietro. Insomma, scendete dall’autobus e sprofondate nella solitudine pedonale, alzate lo sguardo e di fronte a voi si staglia la perversa sagoma di un McDrive. Pensate: “Dove cazzo sono finito?”
Poi vi voltate, l’autobus sarà già ripartito, e dietro di voi ecco il Cimitero dei polacchi.

Era chiuso, l’ho guardato da fuori, un cimitero di guerra fatto dagli americani, nel loro stile cimiteriale, croci bianche allineate sul prato; sono rimasto seduto sul muretto a guardare, scattando qualche foto, ho letto le targhe sul cancello, mentre sentivo il traffico delle auto dietro di me. Davanti a me c’era pace invece.

Ora, se qualcuno mi volesse chiedere “Cosa hai provato?”, la risposta sarebbe credo deludente, perché si affaccerebbe il cipiglio cisposo di Cornelio Nepote a grugnare e sputazzare… tze’ tze’ che domanda che domanda …

Non ho provato niente di trascendentale, tranne la sensazione, liberatoria, di aver dato un’identità a quei polacchi indefiniti del Cimitero dei polacchi: sono soldati del Secondo Corpo d’Armata dell’esercito polacco, gente che ha vissuto vite che io non posso neanche vagamente immaginare. Non è così poco come sembra, in fondo.
Poi ho tirato su col naso e ringraziato Helena Janeczek, ho aspettato che cominciasse a scendere il sole e me ne sono andato.

cimitero_polacchi_iscrizione

cimitero_dei_polacchi_croci

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