«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
L’ORO DI NAPOLI
Giuseppe Marotta
Rizzoli
Certo si può morire dovunque. Al mio paese, quando qualcuno decede, si verificano puntigliose gare di cordoglio, con svenimenti, crisi di sconforto e tentativi di suicidio dei consanguinei, peraltro sventati da agili sopravvenuti che riescono quasi sempre a impedire queste clemorose dimostrazioni di estrema solidarietà. Essi immobilizzano prodigiosamente, come si vede fare dai santi negli ex voto, i dissennati e madidi individui sull’ultimo centimetro del davanzale da cui stavano per spiccare il tragico salto; poi li rigettano nella piccola folla che assorda il cadavere, e della quale fa parte, dando prova di non meno fazioso strazio, anche qualche sconosciuto passante. Piú tardi, alla famiglia spossata, gli amici recano cibi e vino. È anche questa una competizione, che nelle case visitate dalla sventura porta l’abbondanza; come ricordo d’aver mangiato il giorno della morte di mia nonna, io per esempio non mangerò mai piú.
Comincia così La morte a Napoli, uno degli elzeviri che Giuseppe Marotta scrisse per il Corriere della Sera e che compongono il libro e c’è tutto il profumo de L’oro di Napoli in quell’incipit: il tragico, il grottesco, la generosità, la cialtroneria e l’onnipresente folla che sciama dalla strada e si addensa per mettere in scena l’ennesima rappresentazione teatrale, con le parti, i ruoli, il copione e i solisti che improvvisano. Il coro lacrimoso e cacofono accompagna.
Certo, a leggere i vari racconti, l’immagine che emerge di Napoli è quella caricaturale e pulcinellesca della tradizione popolare fatta di vicoli dove si tira a campare inventandosi qualcosa ogni giorno e dove, nonostante la miseria inevitabile, pulsa un’umanità talmente ricca e talmente sorridente da rendere anche la miseria non piú una sventura ma il giusto prezzo per la fortuna di essere nati a Napoli.
Accadde insomma che una mattina qualsiasi, mentre due o tre insolite visitatrici s’indugiavano presso l’altare, una specie di gemito si diffuse dal piedistallo e la statuetta volse lentamente il dorso alle beghine.
Quando tutto il vicolo irruppe nella chiesetta, Sant’Anna aveva ripreso la sua posizione normale; ma di lí a poco il prodigio si ripeté e centinaia di occhi videro. Lacrime e panico lo interpretarono nell’unico senso possibile: che la santa si risentisse dell’abbandono in cui da anni l’avevano lasciata.
L’indomani l’intero rione era impraticabile; la folla vi dilagò con massiccia lentezza, come lava.
Uomini e donne, oberati di colpe, sentendosi responsabili dei piú remoti e imprecisi peccati, come sempre ci accade quando il sovrannaturale ci sfiora, sfilavano pallidi e muti tra le vecchie pietre. Un pianto di bambino, una nuvola scura, il piú semplice e identificabile rumore assumevano infausti significati, annunziavano terribili imminenze.
È formidabile Marotta nel restituire il senso della folla che reagisce compatta come una compagnia teatrale alla centesima replica; muovendosi a ondate crescenti, questa volta rispondendo alla credulità superstiziosa di un’immagine sacra che avrebbe preso vita. In realtà era solo un imbroglio di don Bernardo, “soave mentecatto” lo definisce Marotta con una grazia rara. “La folla vi dilagò… come lava”, è un’immagine grandiosa.
Un libro che mette di buon umore quando si ha voglia di sentir raccontare ancora quelle vecchie storie che ormai non racconta piú nessuno.
… L’oro, Milano(la foto imbrattata di Alda Merini)Napoli Trapani Tunisi Africa …
Una cento storielle; uno ddoje e tre e quatto, cinche sei sette e otto centenare e centenare fattarielli, senza nessuno che li abbia scritti, ma raccuntate a voce.
Una sponda, ‘nu mutivo, ‘na jonta, ‘nu pucurillo, ‘na stirelle cinoè ‘nu fattariello, per iniziare a dicere quaccosa da Milano a Napule, provincie passanno p’a Siclia e fernì nco’’a le Ande(l’operaio edile di trapani che con estrema ferocia dignità-identità si è tolto la vita; il popolo tunisino che vuole rompre le catene della miseria e dell’oppressione: essi, a modo loro, racconto Lo cunto de li cunti.)
Dalla foto imbrattata di Alda Merini alla pisciata in piazza del Plebiscito a Napoli. E di cui le statue parlanti della facciata principale del palazzo Reale hanno da ridire e proporre una soluzione fino a che il fatto increscioso non si ripeta.
Toc!Toc!
Buonasera.
Dunque. C’è una storiella che si racconta in città a proposito delle statue poste ai lati, sulla facciata principale del palazzo Reale di piazza del Plebiscito a Napoli.
E’ una storiella, che noi qui quando raccontiamo chiamiamo ‘o fattariello e così per ogni cosa che si rievocano del passato e del presente ci si esercita cuntanno ‘o fattariello. E’ una storia di statue quella che voglio riportare perché ascoltata quando appunto ero piccolo, e altri prima di me, almeno una volta hanno ascoltato nell’infanzia della loro vita, e mi recavo, con altri guagliuncielli, giù alla litoranea e sugli scogli di santa Lucia per tuffarci in mare.
In varie occasioni ho raccontato ‘o fatteriello delle statue parlanti sia a mia moglie e poi più di una volta, mentre cresceva, a mio figlio. Si sa che i racconti frangono e si acquattano nelle età dei ricordi e della memoria per poi essere trascinati nel fiume della vita.
Sia i bambini sia gli adulti di ogni età(compreso il Don Liunàrd di Maria di SkipBlog), specie quelli che non sapevano né leggere e né scrivere, si cimentavano, con l’apporto della mimica e della gestualità del teatro di strada, innanzitutto o soltanto oralmente. Non a caso gli antichi romani soggiornavano a Arco Felice,Bacoli, Cuma e Puteoli, si divertiva noma non solo, nel mettere in scena delle opere teatrali insieme agli abitanti dei luoghi sopra citati, per la loro arte naturale alla recita di tragedie, farse e spunti comici. Recitando si vivevano più vite; e si lottava, col sorriso sulle labbra, contro le angherie, i soprusi, le tasse e le violenze del potere. O almeno si lottava sviluppando una propria filosofia di vita. L’impero romano era troppo forte per combatterlo con le armi. Ecco la recita.
Praticamente per molti secoli, qui, la narrativa era formato dai fattarielli, e per di più orali. Eccezion fatta per la genia reale che già a meta Seicento si dilettava ad ascoltare Lo cunti de li cunti( o Pentamerone) scritto da G.B. Basile.
I fattarielli orali, allora e per molti versi anche oggi, sostituivano le fiabe e le favole del popolino. Anzi, i fattarielli(cunti o racconti), vecchi e nuovi, erano per il popolino le fiabe e le favole classiche. E ancora oggi in pasto(come se le condizioni in cui esso vive, fossero un fatto naturale, conseguente al tipo di vita naturale che si svolge quotidianamente nei vicoli del centro storico e ancora di più nelle malfamate, desolate e squallide periferie. Palazzoni e strade assediati da un deserto esterno ed interno. Accerchiati dal freddo dell’esistenza anche nella torrida estate. Clemente splende il sole; il sole è di tutti.
Provenendo da via Toledo si entra in piazza Trieste e Trento e dopo pochi passi si è nella piazza più grande e antica della città. Proseguendo e anche restando fermi al centro, davanti all’ingresso del palazzo Reale, a destra si vede il mare e il Vesuvio e più giù gli scogli di santa Lucia. A sinistra, più giù, a poche centinaia di metri, il porto, da cui, fine Ottocento e inizio Novecento, partivano i bastimenti, pe’ terre assaje luntane, carichi di coloro che non aveva né cielo da vedere né terra da camminare.
Per cuntà/raccontare il nostro fattariello/storiella dobbiamo partire provenendo da dove siamo entrati, perché è la fissità delle pose delle quattro statue a stabilire la sequenza logica della narrazione.
Le statue (parlanti) incastonate nelle nicchie della facciata principale sono: Ruggero il Normanno, Federico II di Hohenstaufen, Carlo I d’Angiò, Alfonso I d’Aragona, Carlo V d’Asburgo, Carlo di Borbone, Gioacchino Murat, Vittorio Emanuele II di Savoia. Le garitte vennero realizzate solo nei primi anni del XVIII secolo.
La prima statua, con il braccio e l’indice teso a terra, accusa e dice: – Chi è ‘o fetente c’ha pisciato ccà ‘n terra?
La seconda statua, una mano aperta sul petto, dice:-Io non saccio niente-
La terza statua dice: E’ un vero schifo. Chissà dove andremo a finire –
La quarta statua dice: – Arrestate ‘o pisciasotto. Adda pagà c’o sango –
La quinta statua tace, ma sembra pensare: – Forse tiene i reni deboli –
La sesta statua sfrontata e con la faccia tosta dice: – Songo stato io –
La settima statua: – Non hai vergogna e te ne vanti pure –
L’ottava e ultima statua, inalberata la spada, tuona tanto da far vibrare i vetri delle finestre
del Teatro San Carlo e del palazzo Reale e sentenzia:
– Tagliammelo ‘o pesce, accussì la finisce di ‘n zuzzenia, spurcà –