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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Lasciamo che parli il vento – Juan Carlos Onetti

Lasciamo che parli il vento - Onetti

LASCIAMO CHE PARLI IL VENTO
Juan Carlos Onetti
Traduzione di F. Tarquini

Feltrinelli 1979

[Libro disperso]

Onetti, Onetti e sempre Onetti, ormai l’avrete capito che non mollerò fino alla fine, quando avrò trovato e letto l’ultimo e scritto qualcosa di rocambolesco, per vanità, per egoismo, anche per amore solitario. Questo Lasciamo che parli il vento è del 1979, sia l’originale che l’edizione italiana di Feltrinelli. Introvabile o quasi. Cercatelo in biblioteca, lî c’è.

Segue quelli che già conoscete, La vita breve, dove tutto ha inizio, Brausen e l’invenzione di Santa Maria, poi Raccattacadaveri e Il cantiere, il capolavoro bicefalo, due libri per la storia di Larsen sullo sfondo di Santa Maria. L’ho già detto e ridetto: Larsen, uno dei personaggi piû formidabili che sia mai stato narrato.

In questo libro dalla copertina bella in modo oltraggioso se paragonata agli indifendibili obbrobri che presenta attualmente la medesima casa editrice, la quarta di copertina, la bugiardina, come il foglietto dentro le scatole dei medicinali, è particolarmente infida. Neanche cita Raccattacadaveri, inspiegabilmente, il libro delle puttane, come puttane sono le donne di Lasciamo che parli il vento, e definisce questo libro “la sintesi e il culmine della grande allegoria della condizione umana delineata nei precedenti romanzi di Onetti”.

No, io invece non lo penso affatto.
Questo libro non è né la sintesi né il culmine dell’opera di Onetti o di una sua allegoria. È invece il libro del ripiegarsi di Onetti dopo aver toccato le vette siderali della narrazione e dell’immaginazione letteraria con i precedenti. Inizia con questo libro la sua discesa, il crepuscolo ineluttabile, ancora si lascia trascinare tra i tuguri e gli effluvi delle taverne di Santa Maria, ancora si sofferma a osservare le notti putride e i corpi caldi e sfatti, ancora danza sulle teste di personaggi piegati dall’alcool e dai cadaveri delle pulsioni. Ancora si ossessiona con Brausen il creatore, l’inesistente creatore dell’inesistente Santa Maria, con Larsen che compare spettrale in un cameo, come anche il Dottor Diaz, fuggevole comparsa, e di nuovo Brausen, ingombrante, fastidiosa presenza premonitrice di una fine imminente.
Però manca la magia inebriante dei precedenti. Manca quello scintillio di mille lucciole nella tenebra, manca il turbinare di coloriture, di profili spigolosi, di puttane e rottami, di perbenisti e capitalisti straccioni, di carne e deliri lucidi. Manca l’arte sublime delle parole.

E per i lettori italiani, manca anche la traduzione strepitosa di Enrico Cicogna.

Lasciamo che parli il vento è una storia di frammenti. La storia di un luogo immaginario immaginato da un personaggio immaginario, nel quale si muove Medina, figlio di altre storie, precedenti, il quale immagina due vite, due frammenti di vita, due scheggie uscite da due storie diverse, frammenti di Santa Maria mutevole e immobile, plastica e polverosa. E anche questi frammenti Onetti li frantuma in ulteriori frammenti, che si incastrano a malapena, li lascia, li riprende, come se non importasse, come se l’unica cosa che importasse fosse di consumare il proprio tempo senza cercare un senso nella fiamma che brucia pigra e indifferente, o forse cercandolo solo in ciò che si perde, in ciò che si rifiuta, in frammenti di vita che si staccano dal fusto e procedono per inerzia separandosi sempre più, forse un giorno ritrovandosi oppure dissolvendosi nel caldo afoso o nella notte odorosa di colonia da poco e sudore di donna.

Da molti anni mi ero reso conto che bisogna fare un solo fascio di tutti, cattolici, freudiani, marxisti e nazionalisti. Voglio dire di chiunque abbia una fede, non importa in che cosa; di chiunque pensi, sappia o agisca ripetendo pensieri imparati o ereditati. Un uomo che abbia fede è più pericoloso di una bestia affamata. La fede li costringe all’azione, all’ingiustizia, al male; conviene ascoltarli dicendo di sí, misurare in un silenzio cauto e cortese la gravità della loro lebbra, dar loro sempre ragione. La fede, poi, può essere riposta e alimentata nelle cose più insulse e soggettive: nella donna amata al momento, in un cane, in una squadra di calcio, in un numero di roulette, nella vocazione di tutta una vita.
Il lebbroso si esalta nello scontro, trasuda odori fosforici davanti a un’opposizione anche piccolissima o solo sospettata, cerca di affermarsi — di affermare la fede — calpestando teste o le più tenere sacre intimità. Per concludere — penso a Pablo e alla sua età, — un uomo contaminato da un qualsiasi tipo di fede arriva rapidamente a confonderla con se stesso: e allora è la vanità quella che attacca e si difende. Con l’aiuto di Dio gente così è meglio non incontrarla sulla propria strada; con l’aiuto proprio, è meglio cambiar marciapiede.

Questo è uno di quei brani nei quali sembra che entri all’improvviso la voce di Onetti, sembra la voce dell’autore invece di quella di un suo personaggio. Sembra Onetti che conforta il lettore confessandogli la propria colpa e la propria desolazione.
La fede come la lebbra. Malattia maledetta, eterna e inesorabile che condanna prima all’emarginazione, poi allo smembramento.
Non cercate speranza in Onetti. Non ne ha e non la offre.
Ma non per questo vi venga da pensare all’aridità. No. Non c’è aridità, mai, c’è sempre una vena calda che scorre nelle sue parole e nelle sue immagini, c’è un’estetica e un respiro, c’è una dignità e un orgoglio, sempre, nelle prostitute come in Larsen Raccattacadaveri, nella perversione disperata come nel Commissario Medina.

Leggo:
“Quale menzogna sta tra lui e me — pensava Medina —, e mi costringe ad amarlo ancora, a tentare di imporgli un genere di felicità diverso da quello di cui gode adesso e che io mi ostino a considerare una disgrazia? E poi perché mi ostino? C’è sotto una menzogna, un sentimento contraffatto; non si tratta dell’amicizia, non è soltanto che io voglia salvarlo dall’alcoolismo e dalla droga che, ne sono certo, gli offre o gli vende Frieda. Salvarlo dall’umiliazione e dalla sofferenza. La realtà è che non ho mai amato oltre il bisogno di comportarsi come un essere umano tra altri. C’è qualcos’altro, una cosa più forte e pulita dell’affetto, dell’amicizia e di qualsiasi altra forma dell’amore; non so di che si tratti, però assomiglia di certo alla dignità e all’orgoglio.”

Leggo ancora:
E seguitavano ad avanzare, senza saperlo, attraverso il vino della prima messa, la lotta per il pane quotidiano, l’ignoranza e la stupidità.
Avanzavano contenti, distratti, quasi senza dubitare; così innocenti, rilassati o rigidi, verso il pozzo finale e l’ultima parola. Così sicuri, ordinati, quieti, eloquenti, imbecilli.
Il pozzo li attendeva senza una vera speranza, o interesse. Camminavano allegramente, alcuni appoggiati ad altri; certi continuavano solitari e sorridenti, parlando con se stessi a bassa voce. Per lo più discutevano progetti e parlavano del futuro e del futuro dei loro figli, e delle piccole e grandi rivoluzioni che sorreggevano dentro libri tenuti sotto il braccio. Uno di loro gesticolava con le mani mentre altri discorrevano di ricordi, amanti e fiori avvizziti che portavano lo stesso nome.

«E quindi?» forse direte voi.
E quindi, quello che vi dico io è e sarà sempre di leggere qualunque cosa abbia scritto Juan Carlos Onetti, perché la grandezza è tale e tanta che anche nelle opere minori o ripiegate o crepuscolari essa comunque rifulge.

Però vi metto ancora una volta in guardia dall’insidia vigliacca della curva a banana, quella che a seconda di come la si prende può essere bellissima o terribile.
Lasciate che parli il vento è una curva a banana, fate attenzione se iniziate a leggere Onetti da questo libro, se prendete male la curva a banana rischiate di rovinarvi l’incontro con uno scrittore meraviglioso.

Per chi si ricorda del mio aneddoto giovanile che ho raccontato per spiegare la teoria letteraria della Curva a Banana, il commento finisce qui. RIngrazio per l’attenzione e offro una stretta di mano vigorosa o un abbraccio, come preferite.

Chi non se lo ricorda o chi è arrivato dopo, ha due possibilità, anzi tre: Uno) Non gli interessa del mio aneddoto giovanile e quindi il commento finisce qui come per quelli sopra, ringrazio etc. etc.; Due) Può leggere il mio commento a Pulp Roma di Tommaso Pincio nel quale compare la suddetta storia della Curva a Banana; Tre) Si legge solo la storia della Curva a Banana che ricopio qui sotto visto che è passato già un po’ di tempo e gli aneddoti si possono anche ripetere di tanto in tanto che non è mica un reato.

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LA STORIA VERA DELLA CURVA A BANANA E LA CONSEGUENTE TEORIA LETTERARIA

Vi racconto la storia della curva a banana di Via di Casaglia a Bologna, che c’entra con la faccenda di dove iniziare a leggere un autore, perché anche gli autori, magari non tutti, ma molti sì, fanno delle curve a banana.

Intanto, come tutti saprete, per fare una curva, soprattutto in discesa, ci sono due fasi fondamentali: quello che si fa prima di iniziare la curva e quello che si fa mentre si percorre la curva. E come tutti, spero, saprete, è più importante quello che si fa prima di iniziare la curva, che se si fa bene poi il resto va via liscio, altrimenti sono problemi e ci si deve affannare mentre si percorre la curva.
Questo vale in generale, ma tanto di più vale con le curve a banana.

“Che roba è una curva a banana?”, direte voi.

Una curva a banana è una di quelle curve che sembrano larghe e placide e in effetti iniziano in questo modo, poi però d’improvviso si stringono invece di aprirsi, come avevano dato a intendere, e se uno non è attento o non ha fatto le cose per bene, poi si trova a dover remare controcorrente.

Su per Via di Casaglia a Bologna, che è una delle molte strade che portano sui colli, c’è la più bella curva a banana che abbia mai visto; io la adoro, anzi la amo, ogni volta che la percorro in discesa provo un piacere meraviglioso, la guardo arrivare e penso “Eccoti qua, lo so, lo so, guarda come sembri innocente, io a te ti conosco” e a conoscerla la si percorre larghi all’inizio, poi appena si stringe ci si infila dentro che è una bellezza.

È la curva più bella del mondo, secondo me.

Ma non tutti stanno attenti e allora per loro diventa fetente.
Fu quello che successe al mio amico Giulio, che quando eravamo ragazzini andavamo su per Via di Casaglia con le biciclette. Avevamo tutti degli scassoni infernali o delle grazielle con la sella da motorino (io ne avevo una così e all’epoca era cosa sciccosissima, come saper fare le impennate); Giulio invece aveva una bici da corsa, che poi non era proprio una vera bici da corsa, ma una normale bici da uomo che aveva mezzo trasformato in una tipo-da-corsa.
Quindi, quel giorno stavamo scendendo e si andava forte e Giulio con la sua bici tipo-da-corsa andava molto più forte di noi altri del gruppetto degli scassoni e delle grazielle e ci aveva distanziato di parecchio lanciato a razzo tutto incuneato sul manubrio basso.
Fin quando non siamo arrivati alla curva a banana e abbiamo trovato la bici tipo-da-corsa di Giulio in mezzo alla strada. Ci fermiamo e qualcuno dice: “Eh, ma Giulio dov’è andato?”
Allora guardiamo e lo troviamo steso a pelle d’orso nel fosso dietro il guardrail.
Non si era fatto niente, si era solo schiantato quando la curva a banana aveva stretto ed era rimbalzato contro la siepe della casa e poi rotolato nel fosso.

Ecco, questo per dire che, probabilmente (ma la prossima volta che lo incrocio glielo chiedo), al mio amico Giulio la curva a banana di Via di Casaglia non deve aver lasciato un buon ricordo, mentre per me è la curva più bella del mondo.

Per certi autori vale la stessa cosa, se ci si infila in una curva a banana dei loro libri senza preparare bene la curva, si rischia di finire stesi dietro al guard-rail, al contrario, invece, sembrerà come una lunga chiacchierata bellissima con un amico o una storia d’amore.

2 commenti su “Lasciamo che parli il vento – Juan Carlos Onetti

  1. Nicola
    24 ottobre 2016

    Stupenda recensione.

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Questa voce è stata pubblicata il 23 febbraio 2013 da in Autori, Editori, Feltrinelli, Onetti, Juan Carlos con tag , , , , .

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