«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
CICATRICI
Juan José Saer
Traduzione di Gina Maneri
laNuovafrontiera 2012
Grande libro questo Cicatrici di Juan José Saer, autore argentino che, per come la vedo io, va direttamente ad accomodarsi a fianco dei grandissimi Cortázar e Onetti. Il libro è del 1969 e se si pensa alle meraviglie letterarie che hanno prodotto gli autori del cono sud di quell’epoca, libri di bellezza stratosferica, viene da chiedersi quale divina combinazione sia intervenuta a fare sgorgare sorgenti tanto pure in modo così ravvicinato, contiguo, quasi assonanti.
Forse sono state le nebbie e l’aria malsana del Rio della Plata combinate con le frequenti ingestioni di mate, le melodie del tango e la frequentazione di bordelli, l’indolente sprofondare dell’America del Sud alla vigilia delle dittature degli anni Settanta, la fascinazione parigina e la brutalità della carne sudata e dei sessi che si inturgidiscono e si adescano, la ricerca delle origini europee frenata dai piedi piantati nella palude porteña, forse tutto questo, forse molto altro, forse solo il ghiribizzo di una dea, forse nessun motivo né ragione né destino, ma solo vortici circolari che si sono innescati come uragani sull’oceano e trascinati uno con l’altro, immedesimati, fuoriusciti dal cono roteante per creare nuove tormente, masse d’acqua sollevate da un unico, infinito letto atlantico, per salire, salire, fino al sublime della musica in parole, delle immagini in parole, dei pensieri, dell’amore e della morte, della vita, della commedia e della tragedia, del vagabondare lungo percorsi tracciati con sangue e fango, intrisi dell’odore di genitali e di vestiti poco puliti, tutto quanto, tutto questo reso vivo con le sole parole.
Cicatrici è un libro strepitosamente bello in ogni sua essenza e sostanza. È un libro fatto di quattro cerchi che ruotano, ognuno racchiude un proprio spazio, un ambito, un’ossessione, un malessere, una commedia tragica e tutti i cerchi, lentamente, si spostano in una Buenos Aires Santa Fe piovigginosa, sporca, ricoperta di fanghiglia, notturna anche durante il giorno, nebbiosa, fumosa, si spostano scivolando mentre continuano a girare in quello spazio torbido, si avvicinano uno all’altro, fino a sfiorarsi, a volte si toccano, si sovrappongono per una parte, infine si intersecano, tutti e quattro per un unico punto, per una morte.
Saer scrive con una prosa ritmica, cupa come il suono di un tamburo, scrive con la penna dell’ossessione, ripete, ripete, ripete, i suoni dell’angoscia, del vuoto, parole che scendono sulla pagina come una pioggia incessante, quella pioggia che infradicia la città, i personaggi e il libro, scrive dell’ineluttabilità del ruotare eternamente attorno a un perno che si conficca nella vita di una persona, e la costringe a ruotare, ruotare, ogni volta più stanca, a ogni giro smagrita, dissolvendo le energie e i pensieri e l’esistenza in un moto oscenamente ossessivo, fino alla rottura, quando la bestia da soma si schianta, svuotata perfino delle viscere.
Quattro cerchi che ruotano e scivolano, come ecchimosi violacee e pulsanti che si spostano alla deriva sopra un corpo martoriato; il giovane cronista, l’avvocato, il giudice e l’uomo qualunque, quattro figure per quattro storie che si sfiorano, si intersecano e condividono l’ossessione del proprio disfacimento circolare: l’ossessione del precipitare nel vuoto per mano dell’oscenità della propria madre; l’ossessione della perdita dell’ultimo residuo di senso della vita tra le carte di un tavolo da gioco; l’ossessione di una coscienza che riconosce di non essere mai esistita attraversando le strade di una città in dissolvimento nella nebbia, dilavata dalla pioggia, popolata da scimmie di un mondo irreale ma vero; infine l’ossessione pura, che basta a se stessa, l’ossessione mortale, quella definitiva, quella sulla quale si imperniano tutte le altre e attorno a cui ruotano.
Quattro storie chiuse su se stesse eppure porose, che s’infettano una con l’altra, si incuneano, si compenetrano come sessi pigri. Faccio quello che non si dovrebbe fare di fronte a un’architettura tanto perfetta e cesellata: scelgo. Scelgo il terzo cerchio, il giudice, le strade, la nebbia che smangia gli alberi e i piloni del ponte sospeso, la pioviggine che detta il ritmo della narrazione, la coscienza che non è mai esistita in quel corpo di uomo.
Saer compone un capolavoro, forse con l’intero libro, certamente con questa terza storia. Un capolavoro notturno e imbevuto di acqua putrida che scorre e batte incessante sulle parole, e le parole sui lettori. Prosa ipnotica per la descrizione di un incubo opaco, un incubo che si appoggia pesante sugli occhi del lettore e lo trasporta in un interminabile attraversamento di strade, incroci, semafori, e di nuovo le stesse strade, incroci, semafori che vengono attraversati più e più volte, costeggiando muri privi di intonaco, intravedendo luci smorte di negozi e di autostazioni, dentro una nebbia a forma di palla attraverso la quale si scorgono scheletri di alberi gonfi d’acqua, cime sbranate, edifici che corrono incontro all’immobilità dell’automobile e scimmie, gorilla, gli abitanti della città sono ombre gobbe e scure, animalesche, rozze, digrignanti.
Un brano, lungo e feroce, stupendo.
Non c’è che la grande palla biancastra, le cui particelle girano su se stesse come minuscoli pianeti, e l’automobile che si muove dando l’illusione di restare ferma, tanto è uniforme la densità della nebbia. Ma all’improvviso, su un lato, la chioma smangiata di un albero che gronda acqua avanza lentamente e poi scompare, perdendosi alle mie spalle, così per un momento appare chiaro che mi sto muovendo, anche se appena mi immergo di nuovo nella nebbia più completa torna l’illusione dell’immobilità.
A quest’ora i gorilla staranno uscendo dalle loro tane, abbandonando i pagliericci maleodoranti, osservandosi le dentature cariate allo specchio del bagno, deponendo i propri escrementi, guardando la nebbia dalla finestra, rigirandosi innocenti nei letti in cui hanno copulato con le loro femmine dal sesso purpureo, tra ruggiti smorzati e lamenti brutali; le femmine staranno guardando i loro maschi dal letto, li sentiranno muovere nelle cucine male illuminate dove si preparano la colazione prima di andare al lavoro. Socchiuderanno gli occhi, si raggomitoleranno nel tepore delle coperte e si rimetteranno a dormire fino a metà mattina. Poi si alzeranno e andranno al mercato a comprare da mangiare, mentre i maschi vergano segni inintelligibili su grandi libri contabili in uffici dai soffitti altissimi e i pavimenti di legno. Li vedo aprire i portoni, lanciando i primi rutti intontiti, guardare la nebbia e camminare poi curvi sotto la pioviggine fino al primo incrocio, alla fermata dell’autobus. Sull’autobus si pigeranno uno contro l’altro strofinandosi i culi carnosi e alitandosi sulle facce ancora gonfie di sonno. Emetteranno suoni gutturali, scrollando la testa, aprendo gli occhi a dismisura e muovendo le mani in gesti incomprensibili.
Libro di una bellezza livida travolgente. Scritto da un maestro. Indimenticabile.
Dopo il meraviglioso Felisberto Hernández, bravi un’altra volta a tutti quelli de laNuovafrontiera.
Libro magnifico. L’abilità e la grandezza di Saer stanno nell’essere così intellettuale e allo stesso tempo arrivarti dritto al cuore; è ossessivo e ripetitivo, poetico e ironico, è folle, è pieno del caos della vita.
La trama non è rilevante, l’omicidio è lo spunto per raccontare la complessità e la profonda essenza di noi umani, e Saer lo fa attraverso le parole e i gesti di Angel, di Sergio, di Ernesto e di Fiore, ai quali affianca altri personaggi. Le quattro parti che compongono il libro potrebbero essere lette anche con una sequenza diversa e si capirebbe ugualmente. L’unica differenza è di carattere temporale, si parte dal primo racconto che si svolge in 5 mesi, fino ad arrivare all’ultimo che si svolge in un solo giorno.
Visto che tutti scelgono, lo faccio anch’io, e lo faccio in modo provocatorio. Tra i quattro personaggi principali che con le loro ossessioni cercano di sopravvivere al dolore della vita, scelgo Delicia, la giovane domestica che passa ore a guardare fuori da una finestra “da dove si vedeva solo qualche ramo del fico, il tetto di paglia mezza marcia di una specie di lavatoio e, tra i rami del fico e soprattutto d’inverno, quando era senza foglie, alcune porzioni di cielo.” Delicia, che presta tutti i suoi soldi guadagnati in un anno e mezzo e che conserva in una scatola di latta, a Sergio, senza fare domande, consapevole che tanto li perderà tutti al gioco. Delicia che risponde sempre che sta bene, che non ha mai desideri, che alle 5 in punto (anche se non ci sono orologi in casa) porta tutti i giorni il mate a Sergio, che cerca di pulire i muri bruni dagli scaracchi del nonno. Delicia che s’infila nel letto di Sergio quando lui sconfortato e arreso si rende conto che gli altri “non osano, e barano”, Delicia che forse rappresenta il numero zero del punto banco, l’infinito.
Mi piace anche Marquitos, e la sua amicizia per Sergio. Delicia e Marquitos hanno con Sergio relazioni di gratuità, mi sembrano persone libere.
Il terzo racconto l’ho vissuto come angosciante e violento, quelle scene di sesso descritte con “movimenti violenti con ansiti, grida soffocate, sospiri, lamenti, risate, colpi”, la polvere sanguinolenta, la polvere rossa, quelle immagini infernali mi hanno evocato scene di tortura. Forse Ernesto, invertito, (una parola che non si usa più) abbandonato dalla moglie, che percorre ossessivamente le stesse strade in auto, vede ovunque ed è ossessionato da quei gorilla sguaiati e violenti perché gli ricordano dei golpisti.
Poi c’è la violenza dell’ultimo giorno, con le anatre ammazzate senza pietà, e la Gringa, elemento perturbatore con la sua torcia che punta in faccia al marito accecandolo, che viene abbattuta come una quarta anatra.
Il giovane cronista Angel mi è simpatico, di Tomatis ci si innamora. La madre di Angel che gli ruba il gin e passa a dare del “lei” al figlio, è dannata e fantastica, e la moglie di Sergio che manda a dire al marito che se non smette di giocare si avvelena col veleno dei topi, e lo fa, mi ha ricordato il personaggio della moglie nel libro La casa degli spiriti della Allende, che annuncia al marito che non gli avrebbe più rivolto la parola, e così fa.
Se ho amato così tanto questo libro, molto merito va alla traduttrice che me lo ha consigliato, essendo una mia amica, e che ho invidiato per avere trascorso tante ore sulle pagine di Saer.
Bella recensione per un libro stupendo. Solo due piccole puntualizzazioni: la città non è Buenos Aires ma Santa Fe (anche se non viene mai nominata). E l’ampio stralcio citato è una traduzione della sottoscritta (come il resto del volume recensito). Citare i traduttori non è una cortesia nei confronti degli stessi, ma un obbligo di legge. Oltre che un segno di attenzione e di rispetto, anche nei confronti dei lettori. Grazie.
Gentile signora, la ringrazio per l’apprezzamento e l’indicazione della città, ma il suo ultimo commento mi risulta francamente irritante.
Le avrei risposto come fatto a un suo collega che con gentilezza me l’ha fatto notare per un testo da lui tradotto, ovvero scusandomi per la disattenzione e naturalmente inserendo l’indicazione del traduttore il cui lavoro ho in massimo rispetto.
Dopo che mi è stato segnalato li ho inseriti e, compatibilmente col mio tempo, procedo ad aggiornare anche i commenti precedenti.
Invece, se lei mi sbandiera obblighi di legge, che non credo di avere non essendo io un editore e non avendo alcun interesse commerciale relativamente ad alcun libro, e addirittura una mia scarsa attenzione e rispetto per i lettori allora la cosa suona parecchio antipatica.
Se ritiene che tale obbligo di legge riguardi anche me per avere trascritto un breve stralcio da lei tradotto (immagino che questa potrebbe essere l’unica motivazione) me lo segnali e procedo a rimuovere immediatamente tale stralcio e a chiudere questa sgradevole conversazione.
Mi dispiace che abbia preso tanto male il mio commento. Se ho citato la legge non è stato certo per risultare antipatica o irritante, ma proprio per evitare di confondere le cose: non intendevo lagnarmi per una mancanza personale nei miei confronti, bensì ricordare che la citazione del nome del traduttore sarebbe anche un obbligo di legge (per chiunque, non solo per chi tragga profitto da una pubblicazione: art. 70, Par. 3 della legge sul diritto d’autore n.633/1941, e adesso sì che le sarò diventata simpatica come un coccio di vetro in un calcagno, immagino). Se giornalisti, recensori e blogger prendessero l’abitudine di citare i traduttori, non ci sarebbe bisogno di queste continue puntualizzazioni, francamente sfiancanti per chiunque, noi compresi. Dispiace in ogni caso registrare reazioni così piccate anche da parte di persone dotate di una buona sensibilità letteraria come lei, che per giunta dimostrano di saper distinguere una buona traduzione da una cattiva (l’ho letto, il suo post su L’indagine di Saer). Buone cose.
Ho un brutto carattere, me lo dicono sempre i miei amici e amiche. Ma per me il loro qualche volta è peggiore del mio.
Ora lei mi è simpatica invece, diciamo come una stretta di mano, finalmente sento un tono amichevole.
Ho imparato una cosa che non sapevo, art.70 della legge del diritto d’autore, e mi fa piacere.
Per le motivazioni le comprendo e le condivido, il mio era un ringhio estetico, per il suono sgradevole che mi era arrivato all’orecchio.
(le ho aggiornate tutte fino alla sua, appena posso faccio anche le altre.)
Invece mi dica de L’indagine che mi interessa il suo parere certamente molto più tecnico del mio, ormai si è sbilanciata.
Un sorriso.
Allora, siglata la pace, passo subito a dire che non ho letto la traduzione in questione, e se anche l’avessi fatto non sarebbe elegante mettersi a criticare pubblicamente il lavoro di una collega. Mi sembra però sacrosanto che un recensore parli male di una traduzione non riuscita, e mi sembra anche che gli strumenti per farlo non le manchino: ha infatti colto perfettamente l’importanza del ritmo nella scrittura di Saer, ipnotico e spesso ossessivo, e se le sembra che tale ritmo non sia restituito, che addirittura la lettura risulti faticosa, be’, allora il bersaglio è mancato. Comunque mi complimento ancora per la sua sensiblità: non sono poi tantissimi quelli che si rendono conto di quanto una traduzione possa incidere negativamente – e positivamente, si spera – sulla qualità di un’opera. Addirittura, pare ci sia chi arriva a sostenere: “Per me, se il testo e’ buono la traduzione non conta. Io per esempio ho letto Adorno e Steinbeck in pessime versioni italiane, ma mi sono piaciuti lo stesso!” ;-)
Peccato non l’abbia letto, la mia curiosità rimane inesaudita. Se le capiterà di leggerlo e avesse voglia di darmi il suo parere, in privato, lo ascolterei con molto interesse.
Che la traduzione non conta lo può dire solo chi legge senza ascoltare, il che per me vuol dire non saper leggere. Esistono alcune traduzioni atroci, molte che cercano di essere il più neutre possibile e alcune, poche, che sono capolavori. Io amo Enrico Cicogna ad esempio e le sue traduzioni di Onetti che forse non avrei amato così profondamente senza quell’italiano pirotecnico.
Be’, qui il discorso si farebbe lunghissimo, e non mi sembra la sede giusta per farlo. Che cos’è una buona traduzione, già. Enrico Cicogna è stato un grande, ma appartiene a una generazione di traduttori che lavorava in modo molto diverso da come si lavora ora, senza tanti strumenti che oggi abbiamo ma soprattutto con un’idea della traduzione che oggi pochi condividono. Discorso troppo lungo, ripeto. Magari in altra sede. Mi mandi magari un indirizzo privato, se vuole.
ecco qui
dnovims@gmail.com
Gran bel libro, e, come a tutti i libri che più hanno affascinato, anche a questo ho riservato una lettura lenta, attenta, con ampi momenti di rilettura ancora prima di finirlo. È tremendo, questo libro; ti avvolge e ti centrifuga nella sua circolarità. È vero, come dici, ch’è ingiusto scegliere, ma se me lo permetti lo faccio anch’io: e scelgo Sergio, scelgo la lunga digressione sul gioco del puntobanco, sull’intrecciarsi di passato-presente-futuro snocciolato lucidamente in ogni suo minimo aspetto e catena di causa-effetto. Bello, bello davvero, scritto molto bene questo Cicatrici.
E bella e centrata anche la tua recensione, il tuo pensiero.
non menzioni Luogo edito da Nottetempo, omissione voluta?
eleanor
Commento preveggente, direi. “Luogo” non l’avevo ancora letto quando lessi “Cicatrici” ed era il mio primo incontro con Saer. Sabato prossimo però pubblico proprio il commento a “Luogo”.