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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Lo strappacuore – Boris Vian

Lo-strappacuore8LO STRAPPACUORE
Boris Vian
Traduzione di G. Turchetta

Marcos y marcos 2009

Una favola macabra. Alla Boris Vian, che vuol dire che è un po’ come se a raccontarla fosse un clown imbellettato e colorato che però sta marcendo. Una gamba ormai è già stata rosicchiata dalla muffa; la casacca rossa ha dei buchi, cade a brandelli; i capelli, arancioni un tempo, sono in parte bruciacchiati, con chiazze nere e lanuginose; però nonostante questo il clown continua a raccontare, a far lazzi, a sganasciarsi, a rotolarsi, solo che claudica quando cammina, ogni tanto si blocca, come se una corrente artica lo avesse investito e tossisce da tisico, poi subito dopo sputa un ranocchio verde. Fatto questo ricomincia con le burle e i giochi, anche se poco alla volta la gamba viene rosicchiata sempre più dalla muffa, un fumino color piombo si alza da in mezzo i capelli e lembi di stoffa cadono in terra.

Questo vuol dire che Lo strappacuore è scritto “alla Boris Vian”.

Certo, dopo aver letto La schiuma dei giorni, “il più straziante tra i romanzi d’amore contemporanei”, come lo definì Raymond Queneau e come anche io lo definisco, tornano a farsi sentire dietro le costole gli echi di quella favola tragica e surreale, sognante e malinconica, strappacuore, quella favola sì, strappa-cuore, sempre che uno ce l’abbia un cuore e non abbia invece una lattina di alluminio schiacciata. Tornano a farsi sentire quegli echi e Lo strappacuore rimpicciolisce, diventa stortignaccolo, s’impolvera a confronto con quella meraviglia. Non è impregnato di quella stessa magia che piega le pagine e le parole e le immagini e i raggi di sole. No, non così, ma forse era impossibile.

È un clown Boris Vian, un clown come ve l’ho raccontato.

Niente più alberi, pensava Clementina. Niente più alberi, un cancello di qualità. Sono già due cose. Due cose infime, certo, ma ricche di possibili conseguenze. Un numero considerevole di incidenti di ogni genere si trova ormai fin da questo momento relegato nella sfera della eventualità defunta. Loro sono belli, crescono, hanno una bella cera. Dipende dall’acqua bollita, dalle mille precauzioni che abbiamo preso. E come potrebbero stare male, dal momento che tutto il male lo riservo a me? Ma non bisogna mai allentare la vigilanza, bisogna continuare. Continuare. Restano tanti pericoli! Soppressi quelli dell’altezza e dello spazio, restano quelli del terreno. Marcio, microbi, sozzerie, dal terreno arriva di tutto. Isolare il terreno. Collegare tra loro i lati del muro per mezzo di un pavimento che sia così a tenuta stagna contro i rischi. Questi muri meravigliosi, questi muri d’assenza, questi muri contro i quali è impossibile andare a sbattere, ma che costituiscono un limite ideale. Un limite allo stato puro. Un terreno analogo, un terreno che annichili il terreno. A loro resterebbe da guardare il cielo… e il cielo ha così poca importanza. Certo, un bel po’ di disgrazie possono abbattersi su di loro, venute dall’alto. Ma, senza voler minimizzare i rischi immensi provenienti dal cielo, possiamo ammettere – e io non credo di essere una cattiva mamma solo perché mi lascio un pochino andare – oh! soltanto da un punto di vista teorico – ad ammettere, che, secondo una scala di crescente pericolosità, il cielo viene per ultimo.

Boris Vian è il menestrello delle fiabe lievi e tristissime, le fiabe color metallo, dal sapore dolce che diventa amaro, della felicità che viene soffiata via come foglie secche dal vento. È un burlone che racconta storie per bambini; i bambini siete voi che leggete le sue favole, e mentre le racconta i bambini crescono, voi crescete, diventate adolescenti, poi adulti. A metà della favola siete uomini e donne; vi ritrovate voi e la favola, che nel frattempo è cambiata come siete cambiati voi, siete cresciuti voi ed è cresciuta lei, voi avete perso la vostra innocenza di fanciulli e l’ha persa anche lei, la sua innocenza di favola per bambini è svanita, siete diventati uomini e donne che vivono nel mondo e guardano il mondo e riconoscono l’orrore del mondo e anche la favola comincia a parlare del mondo, delle persone crudeli, del male che era nascosto e corrodeva le parole di fiaba, e anche se le parole sono ancora di fiaba, le immagini non lo sono più, sono immagini di malattie, di sesso ignorante, di amore soffocante, di alberi che si contorcono dal dolore, di animali che vengono crocefissi, di fiori che aggrediscono i polmoni, di bambini o di innamorati che sognano la libertà e felicità, le cercano, le rincorrono e quelle continuano a sfuggir loro per colpa del Male, cha a volte ha la forma di una ninfea leggera e delicata, altre ha la forma dell’amore materno, quello più grande e più puro.

Boris Vian scriveva favole per bambini che diventano adulti e per adulti che tornano bambini, ma solo nello spazio di qualche pagina, poi basta, poi il trucco finisce. Scriveva burlandosi dei suoi lettori e dei libri, faceva capriole e sberleffi, inventava le parole e faceva parlare i gatti e le capre. Scriveva ridendo perché la vita è fatta di amore e di libertà, di tanto amore e infinita libertà, ma dietro le sue parole che ridono sale una nebbia, un’ombra scura, che rimpicciolisce il mondo pieno di amore e di libertà, lo stringe come un pulcino nel pugno, fino a spezzargli le ossa sottili e stritolarlo come un limone dal quale si fa colare il succo. Il pulcino diventa un grumo, una poltiglia stretta nel pugno dal quale cola sangue.
Boris Vian scrive con l’ombra della morte che incombe e il sorriso dell’amore sulle labbra.
Ride, si burla, e muore. Come tutte le sue storie.
Come tutti, forse, alla fine.

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Questa voce è stata pubblicata il 9 marzo 2013 da in Autori, Editori, Marcos y marcos, Vian, Boris con tag , , , .

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