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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Le parole sono pietre – Carlo Levi

le parole sono pietre

LE PAROLE SONO PIETRE
Carlo Levi
Einaudi

«Sai, ho riletto Carlo Levi, dopo tanto tempo…»
Lo dico con un po’ di presunzione, io mi faccio anche delle domande, un sacco di domande, continuamente, non è che leggo e basta; e tra le tante domande mi chiedo anche quale sia, esattamente se possibile, la ragione che mi spinge a scrivere un commento a Le parole sono pietre, di Carlo Levi. Certamente sarà anche per vanità, ci sarà una dose di primadonnismo, di egocentrismo, di esibizionismo, e pure una manciata di testardaggine nel prestare fede alla promessa di leggere e commentare su 2000battute due libri ogni settimana e quindi quello che leggo lo commento, volete che non commenti Carlo Levi? Tutto commento! Sì, d’accordo, ma non basta. C’è dell’altro.
Non ho la presunzione di farvi conoscere Le parole sono pietre o Carlo Levi; ci mancherebbe, sono presuntuoso, sì è vero, ma non fino a questo punto. Però mi piacerebbe, mi piacerebbe sul serio, che tra voi ci fosse almeno uno o una a cui, dopo aver letto questo commento, capitasse quello che è capitato a me quando ho incontrato di nuovo la citazione delle parole della madre di Salvatore Carnevale il giovane socialista e sindacalista siciliano di Sciara, ammazzato dai mafiosi, incarcerato dai carabinieri, disprezzato dai feudatari, ammirato come un eroe dai contadini.

Così questa donna si è fatta in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre.

le_parole_sono_pietre_einaudiIo la lessi qualche tempo fa ne I siciliani, di Gaetano Savatteri, dove è riportato il brano intero, un bel libro di icone di personaggi siciliani. La lessi e ne rimasi colpito pensando: «Saranno passati almeno vent’anni, forse venticinque…». Era il tempo trascorso da quando lessi Le parole sono pietre la prima volta. «Il vecchio Carlo Levi…» mi dissi facendo un sospiro e disegnando uno di quei sorrisi tra il malinconico e il trasognato che si dedicano alle memorie sbiadite. La cosa finí lí, in apparenza. Invece non finí, anzi, iniziò. Iniziò a circolare, come una corrente intrecciata dal vento… le parole sono pietre… le lacrime non sono più lacrime ma parole… Carlo Levi… vent’anni… forse venticinque… le parole sono pietre… le lacrime non sono più lacrime ma parole… Carlo Levi… vent’anni… forse venticinque… circolava, circolava, mi ricordai di essere stato in una libreria antiquaria e di aver avuto in mano una copia della prima edizione del 1955, con quella meravigliosa copertina della bambina dallo sguardo torvo, seduta, affacciata su una specie di deserto, il deserto di stoppie, quello raccontato da Carlo Levi, in quel modo sublime, con quella prosa fantastica per leggerezza, eleganza; un tono educato per raccontare una realtà spietata, durissima, crudele, mostruosa talvolta.

L’estate cala sulla Sicilia come un falco giallo sulla gialla distesa del feudo coperta di stoppie. La luce si moltiplica in una continua esplosione e pare riveli e apra le forme bizzarre dei monti e renda compatti e durissimi il cielo, la terra e il mare, un solo muro di metallo colorato. Sotto il peso infinito di quella luce gli uomini e gli animali si muovono in silenzio, attori forse di un dramma remoto, di cui non giungono alle orecchie le parole: ma i gesti stanno nell’aria luminosa come voci mutevoli e pietrificate, come tronchi di fichi d’India, fronde contorte di olivo, rocce mostruose, nere grotte senza fondo.
[…]
Dopo Trabia e Termini Imerese, è la stessa strada di Isnello, fino a un bivio sulla destra. Qui si lascia la costa e si sale per una strada sbrecciata, polverosa e piena di buche, verso l’interno. Subito l’aspetto del paese cambia, si apre una grande valle di monti nudi, compare, lontana sul monte di faccia, Cerda, grigia nelle nude distese sui campi, con quel colore di terra e di stoppie, di silenzio e di antica malaria che accompagna come una nota continua e patetica la fatica contadina.

Mi lascia senza fiato la prosa di Carlo Levi. Una delle più belle in assoluto, a mio parere.
Riprendo il filo.
Ancora continuava a tornarmi in mente il nome di Carlo Levi, il titolo del libro, il nome, il titolo; questo rigirarsi di mozziconi aveva anche risvegliato un ricordo lontanissimo, di quelli affondati nel lago carsico della memoria. Fu mio padre quando ancora ero un bambino, avrò avuto dieci anni o giù di lì, a darmi un giorno un libro e dirmi che avrei dovuto leggerlo e io lo lessi. Era Cristo si è fermato a Eboli. Lo dico senza nessuna retorica. È solo un ricordo affondato nel lago ma ben conservato, e che ritorna alla luce, come una quaglia preistorica che riaffiora da uno scavo.

Per questo, quando qualche settimana fa, mentre ero a Bologna, in Piazza Maggiore, sotto una tormenta di neve siberiana, mi sono infilato nell’orifizio tiepido dell’ingresso di Sala Borsa, poi ho proseguito con passo deciso verso la biblioteca, sono entrato tra gli scaffali, ho vagato qualche minuto per riconciliarmi con l’essenza della concretezza, ho preso a far correre lo sguardo sulle coste dei libri, ma da una certa distanza, in attesa incoerente, e infine ho sentito il bisogno palpabile di rileggere Le parole sono pietre e la prosa di Carlo Levi.
E ho ritrovato non solo quell’antico tepore, ma anche uno dei libri più belli del Novecento italiano, che anche se non sono un esperto di letteratura italiana lo dico con assoluta certezza; un libro meraviglioso per tutto e in tutto: la prosa, le immagini, il suono del ritmo, il tocco di Levi sulle parole, le sfumature suadenti, i contrasti sanguinosi, l’amore, l’umanità, l’abbraccio rivolto ai miserabili e a chi si è sacrificato per loro e con loro, ma anche la sua durezza, la condanna, la crudeltà che tracima dalla pagine, il sole nero che ricopre una terra e l’anima delle persone, disumano, come disumani siamo talvolta anche noi.

Eravamo intanto arrivati ad Alcamo. Vi cercammo invano una statua di Ciullo d’Alcamo, perché, meraviglia, non esiste. Entrammo a chiederne, per scommessa, in una macelleria sulla piazza. Non ne sapevano nulla: ci consigliarono di rivolgerci al farmacista di faccia. Un prete alto e tarchiato, con una tonaca sporca, unta e sbrindellata, un viso brutale con due piccoli occhi sotto due cespugli irsuti di sopracciglia, una fronte scimmiesca, e una bocca dalle grosse labbra violente, che stava comprando un pezzo di carne piena di mosche, ci lanciò uno sguardo così diffidente da mettere paura. Il vecchio farmacista ci spiegò che la statua era sempre stata un progetto, che forse un giorno si sarebbe attuato. La chiesa in fondo alla piazza era come una tavola grigia sul cielo.

Ho quasi finito. Mi accorgo di aver dedicato tutto il commento al sentimento di bellezza profondissima che questo libro mi ha suscitato, per l’arte di Carlo Levi nel descrivere la terra e gli uomini e di riflettere se stesso in quello specchio di immagini. L’ho dedicato al suo sguardo sulla terra di Sicilia, aspra e dolce, crudele e umana, bellissima e orrenda, come le persone che incontra. L’ho dedicato alle parole e alle immagini, ma farei un grande torto a questo libro, a Levi, a voi e soprattutto a me se finissi qui.

Carlo Levi è stato un grandissimo scrittore e anche un testimone implacabile della miseria d’Italia, del cancro della mafia, di quel sangue corrotto e malato, un sangue torbido, morto e fangoso che scorre lungo tante vene della nostra terra e dentro molte persone che ci vivono. Carlo Levi parlava di ciò che vedeva negli anni Cinquanta, quando in tante parti della Sicilia ancora vigeva un regime feudale, con principi e baroni arroccati nel castelletto, circondati da gabellieri e campieri a cavallo, e i servi della gleba, i contadini, i popolani distesi nel luridume ai loro piedi. Parlava di una terra ancora sprofondata nel medioevo quando lo Stato italiano aveva approvato leggi per la redistribuzione della terra, per condizioni di lavoro più umane, per i diritti che sarebbero dovuti valere per tutti, anche per i contadini, i braccianti, gli operai, e i minatori delle zolfatare, inclusi i bambini che vi lavoravano e vi morivano.
Ma questo non accadeva, perché i privilegi dei potenti erano più importanti, i privilegi dei mafiosi  che vivevano e prosperavano grazie a loro erano meglio difesi, gli interessi di uno Stato che volutamente ignorava, si voltava dall’altra parte e quando proprio veniva scosso incarcerava e perseguiva quelli come Salvatore Carnevale che si battevano perché le leggi fossero applicate, da quegli stessi carabinieri e giudici che lo incarceravano, quegli interessi di quello Stato erano altri.
Carlo Levi tutto questo lo ha scritto con una chiarezza ineguagliata.

E quello che scrisse allora, per larga parte è continuato a essere vero per piû di cinquant’anni, fino a oggi, immutato nella sua natura profonda di cancro, di sangue marcio, con le morti di quelli che si sono battuti perchè le leggi dello Stato fossero applicate e i diritti riconosciuti e difesi, Falcone, Borsellino, Impastato, Livatino, Fava e tanti altri, noti o sconosciuti, perché lo Stato, il nostro Stato, si è girato dall’altra parte, ha stretto patti, ha accettato compromessi, ha fatto affari e quando si legge sul giornale, pochi giorni fa, che allo Zen di Palermo la mafia riscuote le bollette di luce e gas, assegna le case popolari e opera gli sfratti, e queste cose succedono in Sicilia, in Calabria, in Campania, in tante parti d’Italia, a Milano succedono queste cose, questo cancro che divora l’Italia, questo sangue marcio che scorre nelle vene d’Italia, che cos’è se non quello che Carlo Levi ha descritto più di cinquant’anni fa e che lo rende attuale, un testimone del nostro tempo, una voce di ieri e di oggi?

Mafia e banditi non sono, come parrebbe, una stranezza, un fenomeno senza radici, una malattia improvvisa e casuale, né derivata da singolari caratteri di razza, ma essi stanno, per così dire, in un crepaccio, in una frattura di una terra senza continuità, nascosti all’occhio abituato all’ordine e alla medietà, allo sfumare dei contorni e dei colori. Stanno acquattati in una piega della storia, che molte, troppe bandiere cercano di nascondere.
— Questa terra fu sempre, — diceva S., mentre la macchina si inerpicava sui monti deserti, — un paese di invasioni e di conquista: tutti gli invasori e i conquistatori furono stranieri, e lo rimasero. Vennero, presero e ripartirono, lasciando e creando, a reggere il paese, i loro rappresentanti, i nobili, i principi, i duchi, i baroni, una aristocrazia di origine straniera, e, come tutte le aristocrazie, naturalmente in lotta col lontano governo; e forze militari insufficienti ad altro che a serbare il possesso e a tenere in rispetto i baroni. Mancava perciò, è sempre mancata, e ancora manca, una classe intermediaria: ma fra il popolo contadino e lo Stato straniero c’è sempre stato un abisso, un crepaccio; e qui sta nascosta la mafia. Per giungere alla distesa dei feudi, ai villaggi dell’interno, alla terra, al contadino, per far pagare la gabella, per succhiare il grasso del paese, necessario ai lontani governi e alla vita dei nobili, non ci sono mai state forze sufficienti né intese dirette; tutta la vita dell’isola fu sempre abbandonata a se stessa. Cosí nasce il gabellotto, e il campiere, il sovrastante che non soltanto garantisce a proprio vantaggio l’esazione dei beni ma si sostituisce allo Stato assente in tutte le funzioni di ordine e di giustizia, pone il suo codice d’onore al posto della legge estranea e impotente, e diventa, a mano a mano, un potere assoluto e unico, fondato sul prestigio e sulla assenza. Questa è l’origine storica della mafia: ne viene quel tacito patto fondamentale di impunità fra essa e lo Stato. Finché lo Stato è straniero e si mantiene straniero, finché non nasce direttamente dal popolo e dalla sua vita quotidiana, la mafia gli è necessaria, solo mezzo di conservazione. E quando nel bosco appare il bandito, questo eroe popolare della rivolta contro lo Stato, sarà ancora la mafia a servirsene, a condurre senza che egli se ne renda conto la sua vicenda sanguinosa, a farsene strumento per i suoi fini, per il suo continuo ricatto verso i governi, a farsene una moneta di minaccia e di scandalo, e i governi a loro volta fingeranno la lotta e la guerra contro i banditi e contro la mafia, evitando il solo modo che porterebbe, senza sangue, alla loro scomparsa.

«Sai, ho riletto Carlo Levi, dopo tanto tempo…»

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Questa voce è stata pubblicata il 16 marzo 2013 da in Autori, Editori, Einaudi, Levi, Carlo con tag , , , , , , .

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