«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
MOSCA FELICE
Andrej Platonov
Traduzione di O. Discacciati e S. Vitale
Adelphi 1996
Andrej Platonov è uno di quegli autori russi del Novecento figli di una sorgente letteraria straordinaria che furono pubblicati in Italia in modo anche ampio, poi sono stati dimenticati, sempre più fino quasi a scomparire, a favore di scrittori di moda contrabbandati per maestri, infatuazioni puerili per librettini seriali inconsistenti e tanto, troppo, marketing editoriale.
Il libro è ancora in catalogo, ma come già successo per Il talento di Cesare De Marchi, il fatto che il prezzo sia stampato in lire mette un’ipoteca minacciosa sulla fine che farà questo titolo.
Peccato se succederà anche con Mosca felice, come già abbiamo perso alcune opere di Platonov, forse addirittura la sua opera migliore — Džan, romanzo breve incluso nella raccolta Ricerca di una terra felice, edito da Einaudi nel 1968 e malinconicamente fuori catalogo, libro disperso — perderemmo un libro che sprigiona un fascino molto particolare per una sua qual essenza ambigua, sfuggente, che va inseguita lungo le pagine e solo dopo averne assecondato le manovre dissuasive, anche con una certa fatica, infine la si riesce ad afferrare ed è potente, esplode come una forza troppo a lungo repressa, in uno schianto finale, un fremito che scuote il libro violentemente, lo stravolge in modo improvviso.
Serena Vitale, slavista e scrittrice, curatrice dell’ottima traduzione insieme a Ornella Discacciati, nella postfazione centra con acume la caratteristica peculiare di quest’opera, che sta nella natura instabile, tellurica e sfuggente del personaggio principale del libro, Mosca Čestnova.
Questa creatura inquieta e raminga, insoddisfatta nello spazio dell’utopia cristallizzatosi in kolchoz, sovchoz, circoli di Komsomol, uffici, cantieri, trust, è tuttavia il centro verso cui convergono, attratti dal misterioso fascino selvaggio che da lei emana, gli interessi della narrazione e i sentimenti dei maschi.
Un centro instabile, in fuga: da qui l’architettura mobile e slittante del racconto, il lieve senso di vertigine che provoca nel lettore, spettatore di un planetario dove un complesso sistema romanzesco ruota intorno un sole instabile e scompare da sé lontano – intorno a un’assenza, al nulla.
Quindi, “Mosca” del titolo è Mosca Čestnova, l’eroina ambigua della storia, questo centro d’attrazione slittante su un piano sconnesso verso cui confluiscono gli altri personaggi, tutti maschili, provocando in questo modo una sensazione di sfuggevolezza – Serena Vitale parla di un «lieve senso di vertigine», io preferisco descriverlo come il senso di avere qualcosa in mano che risulta inafferrabile e sgusciante, piuttosto che col senso di instabilità della vertigine.
Mosca Čestnova è una sagoma disegnata da Platonov che si muove nello spazio del racconto partendo da un enigmatico ricordo d’infanzia e attraversando eventi, incontri e tragedie personali con la leggerezza di un contenitore vuoto. Perde una gamba ed esclama di essere storpia, poi di essere una sciancata sempre con il tono quasi indifferente di un spettatore svogliato e così quando si concede agli uomini, perfino quando si sposa. Ma Mosca Čestnova, oltre a essere il centro gravitazionale della storia, è il simbolo della fierezza indomabile e della forza d’animo russa, per quanto mai essa si dimostri ribelle all’ortodossia politica. Mi devo però discostare dal commento di Serena Vitale dando un’interpretazione tutta diversa della natura di Mosca Čestnova: lei è un abile diversivo di Platonov, una sovracoperta della storia, una sagoma vuota, appunto, che l’autore porta in giro per il racconto attirando verso di lei non solo gli altri personaggi, ma soprattutto l’attenzione del lettore.E tutto questo perché non è Mosca Čestnova il reale personaggio principale del racconto, né la voce autentica dell’opera, né l’essenza del simbolismo di Platonov. Questo libro, in larga parte, è una distrazione indotta nel lettore, o forse nel censore sovietico che si accaniva contro le opere di Platonov, il quale, va detto, non fu un vero e proprio oppositore politico, come altri scrittori dell’epoca, non soffrì vere persecuzioni o l’esilio. Platonov, dalla sua biografia, pare che desiderasse farsi accettare e riconoscere in quanto scrittore di grande talento, ma non ci riuscì, le sue opere caddero spesso sotto i tagli della censura, venne emarginato dall’establishment letterario e culturale, allontanato da Mosca e mandato a lavorare come ingegnere nella provincia. L’interpretazione che do io è che Andrej Platonov fu un oppositore suo malgrado: egli inseguiva la libertà di esprimere la sua letteratura, con quello stile di scrittura del tutto particolare e affinato in molti anni, ma in questo modo, inevitabilmente, entrò in conflitto con l’ortodossia. Era un’artista della parola Platonov, arte che cercò di rendere meno individuabile agli occhi della censura, ma senza sacrificarla, camuffandola finché poteva, fino a che doveva lasciarla libera di esplodere.
Così è Mosca Felice: un camuffamento sotto le spoglie di Mosca Čestnova fino all’esplosione, quando il libro scarta improvvisamente, brutalmente, cambia del tutto tono, atmosfera, natura, voce, diventa selvaggio, animale e profondo, Platonov si denuda e si apre le viscere, lascia uscire le feci, brulicanti, l’odore orrido, il centro di attrazione assume la forma e le sembianze di Semȅn Sartorius, uno dei personaggi maschili che fino a quel momento avevano galleggiato nell’orbita di Mosca Čestnova, ed è lui che si rivela essere il vero personaggio cardine dell’opera.
C’era stata un’avvisaglia, circa a metà, l’avvertimento dell’autore che un sommovimento improvviso stava preparandosi, quando in un dialogo Sartorius, per la prima volta, allarga lo sguardo, uno sguardo gelido e cupo, sul mondo, si distacca dal moto centripeto attorno Mosca Čestnova per alzarsi sopra tutto quanto era avvenuto fino a quel punto. Ecco il dialogo:
«È tardi» disse Sartorius, quando ebbe finito di bere il tè con Božko. «A Mosca dormono già tutti, soltanto la canaglia probabilmente non dorme, concupisce con lussuria e si strugge di desiderio».
«E chi sarebbero, Semȅn Alekseevič?» chiese Božko.
«Quelli che hanno l’anima».
Božko era pronto a rispondere, per cortesia, ma restò in silenzio perché non sapeva cosa dire.
«Ma l’anima ce l’hanno tutti» disse cupamente Sartorius; stanco, posò la testa sul tavolo, tutto gli era odioso e lo annoiava, la notte scorreva pesante come il monotono battito del cuore in un petto infelice.
«Hanno forse accertato senza possibilità di dubbio che l’anima è dappertutto?» chiese Božko.
«No, non in modo certo» spiegò Sartorius. «Non se ne sa ancora molto».
Poi Platonov riprende il passo sul terreno scivoloso della finzione, fino alla faglia, lo scarto laterale e smottamento dei piani, la trasfigurazione orrida, la discesa nel ventre osceno. Succede con un attraversamento simbolico, non di un fiume mitologico o di una frontiera metafisica, ma di un mercato, il luogo del popolo per eccellenza, il luogo degli umori più bassi, delle evacuazioni spontanee, delle esortazioni ipocrite, il luogo dove ha dimora la realtà e per questo anche la verità.
È una visione lirica turpe e potente la sua, un brano di prosa bellissimo, che colpisce a freddo e che trasforma il romanzo.
Il passo, lungo, forma un crescendo ininterrotto di miseria e miserabili, una marcia nelle viscere della folla, una sorta di bagno anti-purificatore, un bagno nella corruzione della carne e delle nature, un bagno di realismo, fino alla svolta: Sartorius scompare per sempre nella putredine e ne riemerge un’altra persona. Il brano lo riporto interamente, spero che nessuno me ne voglia per questo, ma non ho avuto il cuore per interromperlo.
Andò al mercato di Krestovskij a comperare l’occorrente per la propria esistenza futura. Si dava un gran pensiero per la sua nuova vita.
Il mercato di Krestovskij era pieno di venditori mendicanti e borghesi camuffati che si guadagnavano il pane tra passioni sterili e nel rischio della disperazione. Un’aria sporca stagnava sull’affollato assembramento di persone che stavano lì in piedi mormorando qualcosa — alcuni offrivano misere mercanzie che tenevano strette al petto con le braccia, altri si informavano sul prezzo con cupidigia, tastando gli oggetti e scoraggiandosi ne loro miraggio di un acquisto eterno. Qualcuno vendeva un vecchio abito di fattura ottocentesca impregnato di naftalina, custodito sul corpo con ogni precauzione per decenni, c’erano pellicce passate per così tante mani durante la rivoluzione che un meridiano del globo terrestre non sarebbe bastato a misurare il loro percorso fra gli uomini; tra la folla, ancora, si vendevano e compravano cose che avevano perduto il loro significato di vita — vesti da camera appartenute a donne fuori del comune, tonache da pope, fonti battesimali decorati, finanziere di gentiluomini defunti, ciondoli appesi a catene da panciotto e altro —, ma in mezzo a quell’umanità passavano di mano in mano come simboli di un severo calcolo qualitativo. Oltre a questo, is vendevano molti indumenti di persone morte da poco — la morte esisteva — e minuta biancheria infantile preparata per bambini concepiti in grembo, ma che poi la madre, avendo evidentemente cambiato idea, aveva abortito, e ora vendeva la biancheria del figlio non partorito, bagnata di lacrime, insieme al sonaglietto comprato troppo presto.
In una fila speciale erano in vendita ritratti originali a colori, riproduzioni artistiche. I ritratti raffiguravano piccoli borghesi periti da tempo e coppie di fidanzati di provincia; ognuno, a giudicare dai volti, si compiaceva di se stesso ed esprimeva soddisfazione per la vita che viveva. Dietro le figure talvolta si vedeva una chiesa nel paesaggio e crescevano le querce di un’estate felice, per sempre trascorsa.
Sartorius si soffermò a lungo dinanzi a questi ritratti di persone trapassate. Adesso con le loro lapidi erano stati lastrati i marciapiedi di nuove città e la terza o la quarta breve generazione calpestava da qualche parte le iscrizioni funebri; «Qui è sepolto il corpo del mercante di seconda gilda della città di Zarajsk Pëtr Nikodimovič Samofalov, esso era pieno della sua vita… Ricordati di me, Signore, nel tuo regno». «Qui riposano le spoglie della nubile Anna Vasil’evna Strižëva… Per noi lacrime e sofferenze, per lei la contemplazione del Signore».Invece che a Dio, a Sartorius vennero ora in mente i defunti, e rabbrividì di terrore all’idea di vivere in mezzo a loro — nel tempo in cui i boschi non venivano abbattuti, e il misero cuore era eternamente fedele a un unico sentimento solitario, e non si avevano conoscenze all’infuori dei parenti, e la visione del mondo era magica e piena di pazienza, mentre la mente si annoiava e piangeva di sera, alla luce di una lampada a cherosene, oppure nel radioso mezzogiorno estivo, nell’immensa, chiassosa natura; nel tempo in cui una povera ragazza devota e sincera abbracciava un albero per l’angoscia, stupida e dolce, ora dimenticata nel silenzio. Non era Mosca Čestnova, era Ksenija Innokent’evna Smirnova, ora non era più al mondo, e mai ci sarebbe stata.
Più in là vendevano sculture, tazzine, piatti, alari, forchette, pezzi di balaustre, un peso da dodici pud, sedevano in terra, le gambe rannicchiate, gli ultimi artigiani privati, magnati licenziati e allo sbando svendevano le morse che avevano in casa, le scuri di legno, i martelli, pugni di chiodi, e ancora più in là erano allineati i ciabattini che lavoravano sul posto, e vecchie venditrici di cibo con bliny freddi, pasticcini farciti con scarti di carne, pezzetti di lardo scaldati nelle pentole di ghisa sotto le giacche di felpa dei vecchi mariti defunti, fette di polenta di miglio e tutto ciò che poteva alleviare la fitta della fame del pubblico locale, in grado di mangiare qualunque cosa che solo si potesse inghiottire.
Ladri di mezza tacca si aggiravano tra la folla di venditori e acquirenti, strappando dalle loro mani un taglio di tela indiana, vecchi stivali di feltro, pagnotte, una caloscia, e dileguandosi poi di corsa nel fitto dei corpi vaganti, per guadagnare mezzo o forse un rublo con ogni rapina. In sostanza guadagnavano con fatica il salario di un manovale, ma si stancavano molto di più.In mezzo al mercato si ergevano alcune garitte di legno. Da là sopra i miliziani guardavano quel basso e circoscritto mare di infuriante imperialismo, nel quale non c’erano più lavoratori ma lavativi addossati uno all’altro.
Il cibo a buon mercato veniva digerito dalla gente con percettibile rumore, per questo ognuno avvertiva se stesso con penosa stanchezza, come un complesso stabilimento, e l’aria sporca saliva in alto come il fumo sopra il Dunbass.
Spesso dal fondo del bazar risuonavano esclamazioni disperate, ma nessuno correva in aiuto, e a cospetto dell’altrui disgrazia la gente continuava a vendere e comprare, perché il suo personale dolore esigeva un improrogabile conforto. Una venditrice di pagnotte aveva spinto un uomo debole, con indosso un pastrano di foggia antiquata, in una pozza di piscio accanto una latrina, e gli sferzava la faccia con uno straccio; in aiuto alla venditrice comparve un farabutto nomade che subito colpì a sangue il volto dell’uomo senza forze, accasciatosi sotto lo steccato della latrina. Quell’uomo non emise un grido e non si toccò il volto sporco di sangue che scorreva dalle tempie — trangugiò in fretta la secca pagnotta rubata, tormentato dai denti marci, e venne rapidamente a capo della cosa. Il teppista gli assestò ancora un colpo in testa, e il mangiatore ferito, saltando su con una forza incomprensibile sullo sfondo della sua taciturna mansuetudine, sparì nelle viscere della folla come tra spighe di segale. Avrebbe trovato del cibo ovunque e avrebbe vissuto a lungo senza mezzi né felicità, ma in compenso saziandosi spesso.Un uomo anziano con l’aspetto di un militare in congedo se ne stava lí in piedi, in un’immobilità scossa unicamente dal contiguo tramestio. Sartorius che lo notava già per la seconda volta, andò da lui.
«Tessere del pane» disse l’uomo immobile, dopo aver brevemente squadrato Sartorius con attenzione.
«A quanto?» chiese Sartorius.
«Venticinque rubli la prima categoria».
«Dammene una» gli disse Sartorius.
Il venditore estrasse guardingo da una tasca laterale una busta sulla quale era scritto a macchina: «Programma completo del MECHANOBR». La tessera era infilata nel programma.
Quello stesso mercante offrì a Sartorius anche un passaporto, caso mai ne avesse bisogno, ma Sartorius si comprò un passaporto solo più tardi — da un uomo che vendeva vermi per la pesca. Nel documento era registrato un nativo della città di Novyj Oskol, Ivan Stepanovič Grunjachin, trentun anni, addetto alla vendita, caposquadra di un plotone di riserva. Sartorius pagò il passaporto sessantacinque rubli in tutto e in più diede il suo passaporto di ventisettenne con istruzione superiore, noto in ampie cerchie della sua specialità professionale.
Lasciato il bazar, Grunjachin non sapeva dove andare.
Con l’attraversamento di quel mercato, quasi infernale ma reale, carnale, che ti s’impregna addosso, Platonov segna il crollo dell’illusione tecnocratica e positivista della società comunista che aveva fatto da contorno alle vicende di Mosca Čestnova e ne aveva intriso la natura quasi animalesca, puramente reattiva, mai speculativa o introspettiva, e per questo irresistibilmente attraente per Sartorius e gli altri personaggi.
All’uscita dal mercato Sartorius non esiste più, al suo posto c’è un uono che si chiama Ivan Grunjachin, Mosca Čestnova placherà il suo insaziabile peregrinare e tutti i personaggi, anche Sartorius diventato Grunjachin, d’un colpo adotteranno il canone della vita borghese: avranno una famiglia regolare, una vita scandita dai rintocchi della noia, delle occupazioni dalle quali non distaccarsi. In una parola: un orrore, ancora peggiore, ancora più privo di speranza dei tormenti precedenti. Platonov disegna un finale cupo fino all’estremo con il disciogliersi inevitabile delle utopie degli uomini per confluire nella realtà della natura umana, putrida, miserabile, oscura.
Mosca felice si chiude in un modo che almeno una recensione ha interpretato come tipico di un libro incompiuto. Non è così, quella è la chiusura voluta da Platonov: un colpo d’ascia, un troncamento inusitato, come se non si potesse aggiungere altre parole e si cadesse esausti.
Se tutta l’umanità giacesse addormentata, dal suo volto sarebbe impossibile conoscerne la vera indole e si potrebbe essere tratti in inganno.
Le segnalo la ripubblicazione in nuova traduzione, grazie ad Einaudi, di ‘Čevengur’, forse il capolavoro assoluto di Platonov. Cordiali saluti.
Grazie molte per la segnalazione, lo leggerò senz’altro