«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL PIÙ GRANDE UOMO SCIMMIA DEL PLEISTOCENE
Roy Lewis
Traduzione C. Brera
Adelphi 1992
Avete voglia di un libro leggero, di quelli che spolverano le meningi, col tocco vellutato di un piumino, dalle scorie accumulate dal troppo rimuginare o rosicare o imprecare o arrovellarsi, ma allo stesso tempo un libro intelligente che non vi lascia quell’aspro in bocca dell’assunzione improvvida di una dose intollerabile di imbecillità?
Siete nella disposizione di spirito di leggere una favoletta divertente che nasconde però una serissima divulgazione scientifica e pure qualche riflessione affatto banale su come le cose possano iniziare in un certo modo, con un certo spirito, secondo certi principi e poi, per il sopraffare della vita e degli eventi, per quella macina del tempo che non lascia mai tutto immoto e pacifico, ma spreme i destini come un frantoio, ed anche per quell’inestirpabile ambizione speranzosa delle menti proiettate nel futuro di riuscire a vedere come andrà a finire, così tanto speranzose da convincervi di aver trovato la pista nel deserto sassoso del domani?
Se siete con l’animo acconciato in questo modo, allora Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, di Roy Lewis è davvero un libro piacevole, se siete tra quelli che non l’hanno ancora letto. Oppure se siete tra quelli che l’hanno letto ma non se ne ricordano e quindi vi si accostano come se fosse un libro nuovo per poi scoprire, ad esempio verso pagina 3, di averlo già letto, ma pazienza, fa piacere rileggerlo. In questo secondo caso, io e voi condividiamo una condizione particolare, tra l’imbarazzante (per il senso di rimbambimento) e il divertente (massì, sono i neuroni dispersi, rileggiamolo).
Ho citato pagina 3 non a caso (sul testo è marcata come pagina 15 in realtà, ma è la terza pagina dell’opera, tolta la prefazione e altri antipasti) visto che è stato proprio lì che mi sono ricordato di averlo letto anni fa e se vi interessa vi cito anche il passo che mi ha acceso la lampadina.
Credo che in fondo si volessero un gran bene, pur passando la vita a litigare, ma non poteva andare diversamente: erano entrambi uomini scimmia di saldi principi, e questi principi, che essi mettevano in pratica con assoluta coerenza, erano diametralmente opposti in tutti i campi. Ognuno tirava dritto per la propria strada, sicurissimo che fosse l’altro a sbagliarsi tragicamente riguardo alla direzione in cui evolveva la famiglia antropoide; ma i loro rapporti personali, pur così polemici, restavano buoni. Discutevano, talora si insultavano, ma non passavano mai alle vie di fatto. E benche zio Vania ci lasciasse di solito molto risentito, finiva sempre per tornare a trovarci.
Il più grande uomo scimmia del Pleistocene è una novella ambientata proprio in quell’epoca remota, con scimmioni mezzi uomini e mezzi no che ragionano del senso di ciò che fanno, di ciò che vedono e di ciò che sono; sono più umani degli umani, degli illuministi nel Pleistocene e anche uomini e donne che vivono al tempo degli uomini scimmia, in una savana africana e alle prese con le disdicevoli condizioni dell’ambiente e dell’epoca. Era un tempo, in effetti, pieno di scomodità e di spiacevolezze, come l’essere aggrediti di notte da fiere con zanne di varia lunghezza, calpestati da elefanti o mammut oppure scalciati da equini con tre o quattro dita. Tuttavia, regnava il buonumore nell’orda umanoide, e soprattutto si giocavano le sorti dell’umano progredire tra le menti proiettate con slancio ottimista verso ogni genere di innovazione e quelle conservatrici, legate e affezionate alle care vecchie tradizioni, prima delle quali il salire sugli alberi al calar del sole.
Questo è il libro, a qualcuno forse potrebbe ricordare un’opera buffa, una commedia di Moliére e anche una messa in scena di personaggi emblematici. È proprio quello che fa Roy Lewis: scrive un libro divertente, ambientato in uno scenario strampalatissimo e per forza di cose completamente immaginario, ma popolato da persone ragionevoli e costruttive alle prese con i nostri, proprio i nostri, travagli della modernità.
E con questo Lewis ha già conquistato diversi meriti, oltre ad aver prodotto un’opera piacevole: Uno) rende in modo molto chiaro la relatività del concetto di moderno, a dispetto di quello che in parecchi credono; Due) mette in scena la distonia tra lo scontro ideologico e l’affetto o il rispetto incorrotto tra gli antagonisti della disputa, di nuovo a dispetto di quello che molti credono, ovvero del fatto che la diversità di opinione si traduca necessariamente in disprezzo personale; Tre) disillude chiunque si immagini o abbia la presunzione di saper prevedere il futuro e in particolare quale futuro ci attenda dal ribollire di fenomeni complessi come la scienza, la tecnologia, l’evoluzione sociale e l’esprimersi della natura umana.
Gli uomini scimmia del romanzo vivono la più grande rivoluzione tecnologica che sia mai avvenuta, rispetto alla quale il motore a vapore, l’elettricità e Internet impallidiscono: la domesticazione del fuoco. Il fuoco rischiara la notte, il fuoco tiene lontane le fiere, il fuoco salva le vite, il fuoco migliora la vita, il fuoco permette di cucinare i cibi, il fuoco è potere, il fuoco è speranza, il fuoco è sicurezza, il fuoco è presunzione, il fuoco è ambizione, il fuoco è invidia, il fuoco è distruzione, il fuoco è guerra, il fuoco è morte, il fuoco è omicida, il fuoco è generatore, il fuoco è vita.
È molto bello il racconto perché facendo divertire riassume gran parte dei passi compiuti dall’antropologia e dagli studi dell’evoluzione umana, non a caso Roy Lewis scrive il racconto dopo una lunga esperienza a seguito di antropologi impegnati in scavi in Africa, e attinge a piene mani da testi di divulgazione scientifica (non ne esistono molti, a dire il vero) dedicati alla domesticazione del fuoco, processo fondamentale per la specie umana e ancora non ben chiarito, da quel che so.
Come si diceva una volta, “un libro per grandi e per piccini”, per grandi che vogliano smettere per un po’ di esser sempre così noiosamente grandi e per piccini smaniosi di crescere. Un bel libro, insomma, da leggere sorridendo e sorridendo ripensarlo.
Vennero a fissarci con occhi fiammeggianti; ci girarono attorno e proseguirono; e dissero alla luna che avevano fame e dovevano mangiare; e andarono a caccia; e tornarono ancora a minacciarci. Da lontano, vidi arrivare una bestia sconosciuta, con un occhio solo; mezzo addormentato, me la figurai come una grossa lucertola con un vulcano acceso sulla fronte, inesorabilmente diretta verso di noi: un enorme leviatano corazzato di scaglie che ci avrebbe inghiottiti nel modo più amichevole, ponendo fine all’intollerabile prova. E veniva avanti, calpestando le creature inferiori, sempre più vicino, più grosso e più acceso, deciso a prenderci prima che leoni e leopardi scegliessero i bocconi migliori, o che ci aggredisse e ci schiacciasse un branco di lupi affamati. E proprio mentre tutti i denti della giungla sembravano convergere sulla nostra palizzata, all’improvviso la strana bestia balzò in mezzo a noi, con un volteggio che tracciò un arco rosso nella notte nera, e si rivelò piccola, agile, bruna e bipede. Era mio padre, con un braccio alzato: nella sua mano, prigioniero d’un ramo che fiammeggiava e fumava minaccioso, ricacciando indietro la giungla di un tratto ben superiore al balzo del leone, c’era il fuoco.