«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
CEMENTO
Thomas Bernhard
Traduzione di C. Groff
SE 2004
Riprendo un libro di Bernhard dopo molti anni, troppi, forse quindici, forse di più, e lo faccio con questo Cemento edito da SE, meno noto, o forse solo meno esposto sugli scaffali delle librerie, dei capolavori pubblicati da Adelphi e da Einaudi, ma non meno feroce: una lama di ghiaccio affilatissima che Bernhard, uno dei grandi, ineguagliabili maestri della letteratura europea del Novecento, fa scorrere senza dolore e senza incontrare resistenza dentro il cranio del lettore; lo trafigge passandolo da parte a parte silenzioso, come un pupazzo inerme nelle sue mani.
Bernhard sevizia il lettore, lo tratta quasi con disprezzo e distacco, implacabile nelle sferzate della sua prosa potente, frenetica, martellante ma, allo stesso tempo controllata con mano fermissima. La prosa di Bernhard vola rasente le cime degli alberi, segue il profilo del terreno, si incunea nel sottobosco; la sua prosa è come una freccia il cui volo, calcolato dall’occhio fisso sull’obiettivo, di un corpo teso e immobile nel gesto che precede lo scoccare, trafigge il lettore. Bernhard non avvolge, non perde in una nebbia, non avvelena lentamente, ma infierisce con raffiche di gelo, di pessimismo, di invettiva, di spietata esagerazione che spazza la fanghiglia incerta del cervello nel quale si insedia. Infierisce in modo straordinario, inspiegabile e per questo grandioso.
Voglio però fare un passo indietro, perché per me Thomas Bernhard non è un autore tra tanti e commentare Bernhard mi costa uno sforzo emotivo forte, devo richiamare un tormento, quindi serve che racconti almeno l’ombra di un frammento di storia personale.
Io amo i libri di Thomas Berhard profondamente, come si amano le parole di un maestro dal quale si è appresa una possibilità prima sconosciuta di guardare, di pensare, di rivendicare l’umanità del proprio grido silenzioso e solitario.
Ho iniziato a leggerli che ero ventenne e li ho letti tutti, quelli di Adelphi ed Einaudi tutti, ce li ho tutti, tranne pochi residui, come questo Cemento che non era ancora stato pubblicato allora. Sono stati allineati e collocati nel posto più visibile di ogni casa che ho abitato, li guardo ogni giorno, li ho guardati ogni giorno in questi anni da quando l’ultimo, Estinzione, non riuscii a finirlo. Era il 1996 o forse il 1997.
Ero esausto quando mi arresi. Era l’ultimo di una necessità durata anni, nutrita furiosamente, con la devozione di un assetato cercavo di assorbire quel suo sguardo implacabile ma che io ho sempre sentito caldo di umanità, con quella prosa incredibilmente musicale ma forsennata, quasi crudele; e quelle sue invettive urlate con rabbia contro l’Austria, contro l’ipocrisia della società, contro le persone, i politici conservatori e socialisti, le tradizioni di una storia ammuffita, la Chiesa, il benpensare e il perbenismo, il suo sprezzante insultare senza pudore, volutamente provocando il disprezzo di ritorno dai suoi bersagli, attacchi improvvisi nel mezzo di pagine di letteratura purissima che hanno inchiodato lettori ipnotizzati da quelle parole, studenti a soffrire su tesi di laurea o di dottorato, critici in preda al panico, letterati intimoriti di fronte a quel mostro di talento e di rabbia cinica.
Poi sono passati tutti questi anni, inevitabilmente.
Fino a che non ho iniziato a tenere questo diario di monologhi, perché questi sono monologhi, io non so con chi sto parlando mentre scrivo e addirittura non so se sto parlando con qualcuno o da solo, a volte dico “voi” ma è immaginario, se ci siete io non vi vedo, non vi sento, non so che faccia abbiate né se ci siano degli occhi ai quali rivolgere lo sguardo; c’è questo computer illuminato e dietro un muro bianco, questo è tutto quello che vedo, a volte vedo dei numeri che mi dicono quanti hanno guardato, cosa hanno guardato, forse letto chissà, magari un pezzetto soltanto, sono solo freddi numeri, e quindi ho solo questo diario di monologhi con la sua cadenza incontestabile, da me incontestabile intendo. Poi, qualche settimana fa, ho visto Cemento. La copertina di Cemento, per essere preciso, con L’uomo che cammina di Giacometti e l’ombra proiettata sul muro.
Io non mi intendo di scultura e non la conosco e pure non mi entusiasma molto, in genere. Tranne alcune eccezioni che invece mi colpiscono in modo definitivo e Giacometti è una di queste. Avevo visto di recente delle fotografie, di Giacometti stesso e delle sue opere, avevo sfogliato un libro con le riproduzioni in libreria e pensavo a quelle sagome stilizzate, quasi arcaiche, simili a pitture rupestri, che sprigionano un senso di mistero, di lontananza e di incomprensibilità atavica.
Erano pensieri di quei giorni quando ho visto quella immagine di copertina e sotto c’era il nome di Thomas Bernhard. È stato come un richiamo, una voce dal deserto, una coincidenza casuale intrecciata dal vento che però vale più di cento spiegazioni.
Era tempo di tornare al vecchio amore mai sbiadito.
Ed eccoci di nuovo qui, oggi, ora, adesso; davanti al computer illuminato, dietro il muro bianco uniforme e voi, se ci siete, di là dal muro.
Il racconto è un monologo del narratore, Rudolf, un musicologo che vuole scrivere un libro, un’opera letteraria dedicata a Mendelssohn Bartholdy, il compositore. Da più di dieci anni ci prova ma non è ancora riuscito neppure a iniziare. Cerca la prima frase, si tormenta per la pagina bianca. La storia si svolge nella casa di campagna, poi si sposta nel finale a Palma di Maiorca, dove Rudolf si trasferisce per un lungo soggiorno sempre in cerca di quella prima frase. Questa la trama, che non è di fondamentale importanza, è solo il canovaccio attorno a cui Bernhard avvolge le sue spire e lancia le sue sferzate.
L’attacco del libro, le prime trenta pagine, sono deflagranti, Bernhard imprime un ritmo forsennato, destabilizzante, in un accavallarsi folle di allucinazioni che il personaggio ribalta sul lettore in presa diretta, come se scrivesse mentre le parole ancora mulinano nel cervello, nella pancia, addosso, prima di pronunciarle, le scrive prima di vergarle.
Rudolf, come molti personaggi di Bernhard, è monomaniaco, ossessivo nella sua fissazione ma anche in balia dell’instabilità emotiva, debole, inerte, si dimena rimanendo immobile, si agita per non muoversi di un passo, lotta con le ombre, è schiacciato sotto un peso opaco e informe.
La causa del suo tormentarsi è la sorella.
È terribile, non appena sono in grado di dedicarmi a un lavoro intellettuale nel campo della musica, spunta mia sorella e me lo distrugge. Come se lei, da Vienna, sentisse che sono qui, a Peiskam, in procinto di affrontare un certo tema, quando voglio mettere mano al tema, lei spunta fuori e me lo distrugge. La gente è fatta apposta per scovare l’intelletto e per annientarlo, sente che una mente è preparata per uno sforzo intellettuale e si mette in viaggio per soffocare questo sforzo intellettuale. E se non è mia sorella, l’infelice, la maligna, la perfida, è qualcun altro della sua razza. Quanti scritti ho iniziato e poi, perché è spuntata mia sorella, bruciato. Gettati nella stufa al suo arrivo. Nessun altro dice spesso quanto lei: non disturbo, vero?, uno scherno se è continuamente in bocca a una persona che ha sempre disturbato e sempre disturberà e la cui missione sembra essere quella di disturbare tutto e tutti e quindi distruggere e infine annientare e annientare sempre ciò che a me sembra la cosa più importante al mondo: un prodotto intellettuale.
Trenta pagine scritte con questo passo furioso, travolgenti, diluvianti, svolge con la precisione chirurgica tipica del suo stile il flusso di una coscienza turbata, priva di appoggi per l’equilibrio, vacillante sull’orlo del tracollo. È la potenza di Bernhard che esplode senza preavviso, impietosa della fragilità di quell’essere vivente che è il lettore, neanche il tempo di accomodarsi meglio per la lettura e già vi schizzano in faccia parole come lapilli.
Bernhard o lo si ama fino all’adorazione oppure lo si rifiuta come un corpo alieno e minaccioso, non credo ammetta mezze misure.
Poi rallenta? No, non rallenta, è senza requie, Cemento è come vi ho detto un monologo turbato e perturbante, ansiogeno, di una mente tanto inconsapevolmente lucida quanto consapevolmente in balia delle proprie fobie. Cambia, d’un tratto. La sorella, l’infelice, la maligna, la perfida, diventa la guida, colei che gli dice la verità, colei dalla quale non può separarsi.
Adesso penso che lei probabilmente si era davvero interessata totalmente a me per venirmi in aiuto, la terribile, come sempre la definivo quando ne avevo l’occasione. È già un anno e mezzo che non te ne vai da Peiskam, disse varie volte. Io ero furioso, perché lei non mi dava requie nel volermi trascinarmi via da Peiskam. Nessuno viaggia più volentieri di te e adesso te ne stai qui a pencolare da un anno e mezzo e crepi! Lo diceva con molta calma, come un medico, penso adesso. Qui non riuscirai mai a cominciare con il tuo Mendelssohn Bartholdy, te lo garantisco. Sei inchiodato all’improduttività. Da un lato Peiskam è una cripta, dall’altro un carcere che minaccia continuamente l’esistenza, diceva.
Così Rudolf matura la decisione di partire per Palma, dove avrà termine il racconto. In mezzo a questi snodi della trama, Bernhard sprigiona il fascino delle descrizioni degli ambienti soffocanti e chiusi: le stanze della casa, la scala, l’orientamento delle finestre, la luce che vi penetra sgradita, la minuziosa e maniacale disposizione dei testi sulla scrivania, fino alla postura di Rudolf seduto, che egli stesso osserva in un gioco di straniamento. Come sempre sono descrizioni di atmosfere dominate dalla penombra, da una tinta grigiastra posata dall’animo inquieto del narratore e da geometrie che sembrano indurre proprio quello stato d’animo.
Improvvisamente, come sempre fa Bernhard, senza preavviso scarica la sua furia contro la società nella quale vive. Apre uno squarcio nella letteratura e vi fa penetrare l’attualità.
Lascio un paese nel quale la chiesa simula e il socialismo arrivato al potere depreda e l’arte puttaneggia con entrambi. Lascio un paese nel quale un popolo educato alla stupidità si fa intasare le orecchie dalla chiesa e la bocca dallo stato, e nel quale tutto ciò che mi è sacro finisce da secoli negli immondezzai dei suoi dominatori. Se me ne vado, mi dicevo nella poltroncina di ferro, in fondo me ne vado da un paese nel quale non ho davvero più niente da cercare e nel quale non ho mai trovato la felicità. Se me ne vado, me ne vado da un paese nel quale le città puzzano e gli abitanti di queste città sono imbarbariti. Me ne vado da un paese nel quale la lingua è diventata volgare e lo stato mentale di coloro che parlano questa lingua volgare è tutto sommato degno di gente incapace di intendere e di volere. Me ne vado da un paese, mi dicevo nella poltroncina di ferro, nel quale i cosiddetti animali feroci sono diventati l’unico modello. Me ne vado da un paese nel quale anche in pieno giorno regna la notte più tenebrosa e nel quale a ben guardare sono al potere soltanto analfabeti fracassoni. Se me ne vado, mi dicevo nella poltroncina di ferro, in fondo lascio solo il cesso dell’Europa, che si trova in uno stato desolantemente rivoltante e proprio incredibilmente sporco, mi dicevo. Io me ne vado, mi dicevo seduto nella poltroncina di ferro, cioè lascio dietro di me un paese che ormai da anni mi opprime nella maniera più dannosa e ad ogni occasione, non importa dove e quando, ormai mi caga in testa in modo subdolo e perfido.
È Rudolf il musicologo oppure è Bernhard lo scrittore a parlare qui? Difficile dirlo, forse entrambi, anzi probabilmente entrambi, le voci si accavallano, Bernhard entra ed esce dal suoi racconti, sbattendo la porta e gridando, vi si para davanti all’improvviso e grida la sua rabbia.
Cemento si conclude a Palma, in modo sorprendente, con uno scarto verso l’esterno. Non ve lo racconto. Ma prima di concludere, Bernhard lascia cadere un passo bellissimo che invece voglio trascrivere e poi ho finito.
Quando abbiamo le frasi in testa non abbiamo ancora la certezza di metterle sulla carta. Le frasi ci fanno paura, prima ci fa paura il pensiero, poi la frase, poi che probabilmente non abbiamo più in testa questa frase quando vogliamo annotarla. Molto spesso annotiamo una frase troppo presto, poi una troppo tardi; dobbiamo scrivere la frase nel momento giusto, altrimenti va perduta. Il mio lavoro su Mendelssohn Bartholdy è certo un lavoro letterario, mi dicevo, non musicale, pur essendo in tutto e per tutto musicale. Ci lasciamo avvincere da un tema e ne restiamo avvinti per molti anni, decenni, e se capita ci lasciamo soffocare da questo tema. Perché non lo abbiamo affrontato abbastanza presto o perché lo abbiamo affrontato troppo presto. Il tempo distrugge tutto, qualsiasi cosa facciamo.
Sono tornato a Thomas Bernhard, sono a casa, finalmente.