2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Luogo – Juan José Saer

Luogo - Saer

LUOGO
Juan José Saer
Traduzione di M. Nicola

Nottetempo 2007

Libro del 2000, una delle ultime opere di Juan José Saer prima della morte, avvenuta nel 2005. Sono racconti brevi e tristi; malinconici più che tristi, di un grande scrittore come fu Saer e del quale, inconcepibilmente, è stato tradotto pochissimo in Italia. LaNuovafrontiera ha tradotto quel grande libro che è Cicatrici; Einaudi ha fatto un lavoro mediocre con L’indagine; esisteva, ma ormai è fuori catalogo, L’arcano di Giunti e basta, oltre a questo edito da Nottetempo. Saer scrisse undici romanzi e pubblicò saggi e racconti, è uno dei grandi scrittori del Novecento argentino e noi abbiamo solo questa miseria a disposizione. Poi ci si lamenta dicendo «Eh, ma non ci sono più bei libri da leggere»… eh, non ci sono… vabé lasciamo perdere questo discorso che fa venire il nervoso.

Dicevo che sono racconti brevi e malinconici, anche se non tutti evidentemente malinconici, alcuni lo sono, altri non lo sembrerebbero, ma c’è qualcosa nello stile che li rende tali, come se Saer avesse scritto con lentezza, con le scarpe pesanti (cit.) e l’animo stanco. Anche la brevità dei racconti richiama la stanchezza dello scrittore che ritaglia frammenti di un lungo discorso, di un lungo pensiero e li dispone per i suoi lettori o forse li dispone senza immaginare nessuno, solo per la necessità di liberarli. Non è il Saer fantasioso del noir de L’indagine e neppure il Saer concentrico, ipnotico, funambolo oscuro di Cicatrici; a tratti riemerge, con scodate da pesce all’amo, ma per lo più è un Saer dolce e conclusivo, ovattato come un vecchio cantastorie il cui fascino sta nella ripetizione, sempre la stessa ma mai uguale, di una storia circolare.

Sono racconti molto vari, nei personaggi, nelle voci narranti, nelle ambientazioni e nel genere, anche se tutti legati da quel velo malinconico di finitezza. Talvolta, anche se non spesso, Saer allarga ancora una volta le ali e vola scrivendo quei suoi periodi lunghissimi, concentrici, pieni di rimandi, incisi e piroette, pieni di musica, di gioco da equilibristi e di profumi. Quei periodi che sono anche il terrore e la fossa dei traduttori incerti.

Vi è sempre nell’atto di leggere un momento, intenso e placido insieme, in cui la lettura trascende se stessa, e in cui, per vie diverse, li lettore, scoprendo se stesso in ciò che legge, abbandona il libro e rimane assorto nella parte ignorata del proprio essere che la lettura gli rivela: da ogni punto, prossimo o remoto, del tempo o dello spazio, lo scritto giunge a ravvivare la fiamma nascosta di qualcosa che, forse senza che lui lo sappia, ardeva già nel lettore. Fu così che, dopo aver superato in uno stato più o meno neutro le informazioni fornite nella prefazione dallo studioso che aveva tradotto il testo dal latino al castigliano, e pochi minuti dopo aver cominciato il racconto propriamente detto, Barco alzò lo sguardo dal libro e, con gli occhi bene aperti, che tuttavia non vedevano nulla del mondo esterno, volse lo sguardo verso un punto imprecisato della stanza e rimase completamente immobile, pieno fino a traboccare del ricordo che la lettura gli aveva suscitato.

Compaiono in diversi racconti i suoi personaggi più fedeli, quelli di Cicatrici e, da quel che ho letto in alcuni commenti, di altri romanzi. Riprende anche alcune storie, sempre da Cicatrici, scene, alcune scene, le riprende e le solleva come a mostrare quello che là non aveva svelato perché trascinato dal flusso della storia. Qui, nei racconti, il flusso della storia non c’è più e può quindi soffermarsi senza fretta, perché non ha una meta, non è in viaggio, non segue una traiettoria, ma compone solo frammenti per chi si accontenterà di quelli o, magari, per chi ha bisogno proprio di quelli.

Qualche mese dopo questa conversazione telefonica, Soldi, come altre volte, farà una copia del dattiloscritto e la invierà per posta a Pichón, consentendogli di esaminarlo con attenzione, e quasi a ogni pagina e a ogni frase, che del resto differiscono moltissimo da quel che ha ascoltato per telefono in una domenica di novembre, perché la parola orale e quella scritta sono elementi diversi, come l’aria e l’acqua, e ciò che respira in un elemento a volte soffoca nell’altro, la voce di Tomatis risuonerà nella sua memoria portando con sé l’immagine dello stesso Tomatis, seduto in mutande sotto il tendone verde, ad asciugarsi all’ombra del tendone che fa risaltare il colore rosso delle mattonelle, e il cielo azzurro uniforme e profondo, senza una sola nuvola fino all’orizzonte. […]
È come se il personaggio misterioso che dissemina i suoi scritti in biblioteche altrui, in cassetti dimenticati, in soffitte e anfratti segreti, di scrivanie, di camere da letto o capannoni, dalla polvere ignorata in cui giacciono le sue ossa, si appropriasse della voce di Tomatis, delle mani di Soldi che hanno ricopiato a macchina i suoi scritti, degli orecchi, degli occhi, dell’attenzione di Pichón, che ne è il destinatario, per tornare in vita quando le parole dattiloscritte o stampate escono dal loro sonno polveroso.

In altri racconti Saer cambia luogo e tempo, bizzarramente, a volte: diventa una psichiatra rumena durante la caduta di Ceausescu; un giovane tedesco all’alba del crollo del Muro di Berlino; una signora alto-borghese parigina che si ritrova un nipotino orfano di padre algerino; un omicidio in una coppia per un sasso rotolato inaspettatamente dal passato; l’immagine di un pedofilo ripresa da occhi cinici e freddi; è un distacco dal mondo che disegna con precisione millimetrica i contorni dello smembrarsi svogliato; poi torna a Buenos Aires, ancora in una notte scura di pioggia, di scrosci violenti e tuoni e fulmini verdastri, una notte di racconti nella quale è la voce di Tomatis a narrare la trama di un giallo mai scritto nel quale compaiono Sherlock Holmes e Watson.

Quasi alla fine, è il penultimo racconto, Saer racconta la storia di alcuni vecchi di Chernobyl che ritornano al paese poco dopo l’esplosione quando ancora è vietato e la radioattività è letale. È il racconto della fine, forse anche della sua, in ogni caso della fine, quell’acconciarsi di quando si sa che non ci sarà un seguito, lo si sa per certo e allora rimane solo un piccolo intervallo nel quale scegliere cosa fare, come ad esempio provare il senso di libertà.

I giorni in cui soltanto noi vecchi eravamo tornati a casa, furono davvero felici. Ci conoscevamo tutti fin dall’infanzia: avevamo lavorato nelle stesse fabbriche, negli stessi campi, combattuto nelle stesse trincee, ballato e bevuto alle stesse feste, e molti membri della nostra generazione, in tempi di guerra, per esempio, avevano condiviso perfino la morte e una tomba improvvisata e ignota. E per la prima volta dalla nostra infanzia, non c’erano più zar, non c’era Partito, non c’era distaccamento militare, né superiori, né spie, né capi, né prediche sincere, né raccomandazioni paterne, né commissari politici, né istruttori militari o civili, né monaci né popi: avevamo varcato la linea oltre la quale regnava, onnipresente e mortale, l’invisibile, e ci eravamo inoltrati in una zona dove nessuna gerarchia e nessun discorso sembravano ancora validi, e questa situazione inedita ci dava una libertà incomparabile.

Un libro di quelli che si leggono per ascoltare ancora una voce molto cara.

4 commenti su “Luogo – Juan José Saer

  1. eleanor
    24 agosto 2013

    ecco, diciamo che “Luogo”, sarebbe stato meglio se non lo avessi letto, perché mi ha molto delusa, e quando si ama uno scrittore queste “incrinature” non dovrebbero accadere… mi chiedo comunque perché non tradurre per esempio “Las nubes” o qualcuno dei suoi romanzi più famosi (e ce ne sarebbero molti), non capirò mai queste “scelte” degli editori…

    • 2000battute
      24 agosto 2013

      Non le capir mai neanche io nonostante abbiano provato a spiegarmele pi volte

  2. eleanor
    13 aprile 2013

    Io ho cominciato con L’Arcano e lì sono rimasta agganciata all’esca… sì, è un vero peccato che abbiano tradotto pochissimo di lui, quanto al “terrore” dei traduttori, concordo…

    • 2000battute
      13 aprile 2013

      L’ho trovato ieri L’arcano.

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Questa voce è stata pubblicata il 13 aprile 2013 da in Autori, Editori, Nottetempo, Saer, Juan José con tag , , , .

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