«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
I SEGNALATI
Giordano Tedoldi
Fazi 2013
Premessa contestualizzante. Giordano Tedoldi a me sta simpatico. Mi sta simpatico da quando ho letto Deep Lipsia, un libretto allucinato sulle perversioni di un gruppuscolo di neonazisti romani, e io odio i neonazisti. Mi era piaciuto Deep Lipsia per il suo essere brutto, sporco e cattivo, berciante, non lisciato e lustrato, non un prodotto editoriale confezionato per i gusti del pubblico, di qualunque pubblico si trattasse. Un’opera sperimentale, se ancora si può usare questo termine. Sperimentale nel senso di essere stato fatto per provare che effetto facesse scrivere quella storia in quel modo, senza la necessaria rivestitura e smussatura di un prodotto da catalogo. Mi era sembrato un grido catarroso ma sincero, da apprezzare nella palude dei cinguettiii sterotipati e monotoni. Ci siamo scambiati quache messaggio io e Tedoldi, qualche breve commento. Per questo mi sta simpatico, perché per quanto flebile c’è stata una comunicazione. Ottima cosa per la socialità, meno per la lettura.
Chi legge non dovrebbe mai avere alcun genere di contatto personale con chi scrive; l’unico punto di contatto tra lettore e scrivente dovrebbe essere unicamente il testo e solo e soltanto il testo dovrebbe aver voce. Nient’altro, non un’impressione personale, una simpatia, niente cortocircuiti tra lettore e scrittore attorno al testo. La lettura inevitabilmente si sporca, si impesta, si inquina di chiazze oleose prodotte dall’impressione personale, da una fisicità che prescinde dal testo e si incarna con l’autore. La lettura è ascetica, per me, occhi sulle parole, questi sono i confini del mondo.
Per questo da lettore, ad esempio, nutro poca simpatia per i festival letterari, i saloni librari, gli happening di lettura, le presentazioni di libri da parte degli autori — i quali dovrebbero obbligatoriamente limitarsi a parlare di libri altrui, mai dei propri — e tutte quelle manifestazioni che mirano a dar corpo agli scrittori. Sono forme di inquinamento della lettura, cercano di aprire squarci in quel mondo circolare perfetto formato soltanto da occhi che si posano su parole e attraverso questi squarci, una volta aperti, il silenzio è rotto dal vociare delle impressioni, dalla simpatia o dall’antipatia, dai ricordi, da tutta la brodaglia dell’esistente.
Ecco perché gli scrittori morti hanno un grande vantaggio su quelli vivi: tacciono.
Questa è la teoria ascetica, naturalmente, il nirvana vibrante, la perfezione del bianco e del nero, la contrapposizione utopica. Poi viene l’umanità a sbiadire e mescolare le cose e tutto prende un gusto e sapori differenti. Prende anche puzze fetenti, se è per questo, ma alla fine, fuor di utopia, questo è ciò che siamo, un miscuglio di profumi e puzze.
Tutto questo solo per premettere che il mio commento è influenzato da umana simpatia verso l’autore causata dal miscuglio di profumi e puzze che siamo. Potevo dirlo in due parole, ma avevo voglia di sproloquiare di nirvana vibrante.
Il libro. I segnalati è un libro musicologico. Cosí come Thomas Bernhard in Cemento faceva dire al suo narratore che il monologo che stava narrando era un testo musicale, e in effetti lo era, per la musicalità del ritmo forsennato delle parole e per il fatto che era proprio quella musicalità a dare senso al testo; in modo simile Tedoldi scrive un libro musicologico, perché è la musica l’anima di questo libro, la musica, non una musica, una melodia, un ritmo impresso alle parole, ma la musica classica, nella sua essenza e sostanza, è la base sulla quale si poggia la trama e la impregna, la colora e ne dà senso. Non è invece un libro musicale. Non c’è un ritmo marcato, talvolta Tedoldi lo accenna, magari in alcuni paragrafi che si legano e prendono una melodia, ma poi termina e riprende la narrazione pura, la tecnica descrittiva e il progressivo svolgersi della vicenda. Aritmicamente.
La musica classica, onnipresente nei pensieri, nella storia e nelle azioni del narratore, un ragazzo ventenne del quale non conosciamo il nome, è lo sfondo sul quale calare le allucinazioni dei protagonisti, le loro perversioni, psichiche, sessuali, comportamentali, il loro sguardo perennemente abbagliato dalle proprie psicosi, i gesti e la consequenzialità intossicata dei loro atti, ed anche la stessa Roma, dove si svolge il racconto, maestosa di grazia marcescente, pulviscolare e randagia.
La musica è anche lo spazio nel quale Tedoldi scrive le pagine migliori. È quando fa parlare di musica il suo protagonista e quando lo immerge nella musica, e quindi fuori dalla trama, che sembra liberare la mano che scrive, come se, venute meno la costrizione della trama, la scansione delle vicende, la costruzione dell’equilibrio che tutto alla fine deve tenere insieme, finalmente respirasse, rilassasse le membra per poi scattare in un fremito di ispirazione immergendosi egli stesso nella musica.
Quando ritorna nella trama si irrigidisce, si fa controllato, misurato, si sente il freno premuto sul testo per mantenere costantemente la traiettoria precisissima che si è imposto. La storia ha uno sviluppo chiaro e lineare nella progressione dentro le perversioni dei personaggi, con le necessarie divagazioni, sottostorie, intrecci e svolte. Tedoldi avvita con mano ferma la spirale che scende progressivamente nel terreno lordo e brulicante di vermi di una follia psicotica che aleggia nell’aria e della quale tutti i personaggi sono contaminati. Lo fa con una lingua ricercata e decadente, gergo da nobiltà nera romana dalle memorie fastose e membra in via di putrefazione.
La storia inizia con un bambino che muore per un banale incidente: cade e sbatte la testa sul bordo del marciapiede. Si chiama Ruggero. Fulvia si sente colpevole di quella morte. Non lo è, nella concatenazione di fatti e casualità che costituiscono la scena nella quale il bambino Ruggero inciampa e cade, Fulvia, semplicemente, vi si trova presente. Ma si sente responsabile. La responsabilità le scende addosso e si installa nel suo cervello. Inizia la psicosi. Il narratore è il suo compagno, precariamente compagno. I due si amano, profondamente, di quell’amore che salda le vite e i destini anche quando le vicende della vita allontanano e separano le persone.
Non vi racconto altro della trama, solo che si intorbida sempre di più, l’atmosfera si fa densa, spessa, impastata di essenze dolciastre, la storia si scurisce e inizia a sanguinare, prima parla, poi si fa rauca, aveva uno slancio di speranza poi si ripiega nella propria malattia mentale, e nelle maglie sempre più fitte dell’ambiguità sessuale, di genere, di età. Suona la musica di Mahler nelle fondamenta rimbombanti de I segnalati e con quella si conduce il lettore dentro la caverna romana.
Voglio tornare a Deep Lipsia e ripercorrere la strada fino a I segnalati. Come vi ho detto Deep Lipsia è un libro sperimentale, brutto, sporco e cattivo. I segnalati è un libro curato, curatissimo, controllato in modo implacabile da Tedoldi nel suo procedere. In entrambi il filo teso è quello della perversione crassa e sudata, della malattia mentale che provoca allucinazioni persistenti. Sono due forme di una stessa sostanza. In Deep Lipsia è la forma dell’imperfezione del testo appena sgrezzato. Ne I segnalati, la forma è quella del manierismo della psicosi.
I personaggi de I segnalati sono solcati da manierismo nelle loro forme depressive e atteggiamenti tangenziali. Esiste un conformismo anche nella perversione e tutti i personaggi de I segnalati sono profondamente conformisti. Si conformano al loro personaggio e al ruolo nella storia. Non c’è mai uno scarto brusco, un salto di luce che illumini improvvisamente un’angolazione nascosta. L’incestuosità dei rapporti famigliari è attesa e si conforma perfettamente alla descrizione di quel microcosmo. Anche i sensi di colpa lo sono e gli istinti omicidi e quelli suicidi e la fascinazione musicale e l’esoterismo e le esibizioni notturne in ville facoltose e la frequentazione di ruderi e l’ambiguità sessuale sono tutte forme di manierismo della perversione. I personaggi di Tedoldi non sono scandalosi, non sono rivoluzionari o asimmetrici. Sono dei conformisti del degrado, dei manieristi dell’auto-distruzione. Indossano AllStar rosse, come Fulvia, come viene ripetuto e sottolineato e insistentemente riportato davanti agli occhi.
E quindi, è un bel libro? Sì lo è. Non entusiasmante, ma un bel libro sì.
Soprattutto è, io credo, un altro passo, necessario, in altra direzione rispetto a Deep Lipsia che Tedoldi compie. Tedoldi è un alchimista, sta cercando una formula e per questo mescola ingredienti, forme e umori pur mantenendosi fermo sopra una propria visione. In questo I segnalati ha spinto sul controllo del testo, sulla cura maniacale dei termini e sull’ordine olimpico della storia, quando prima, in Deep Lipsia, aveva lasciato libero sfogo alla fantasticazione e allo scatarramento.
Se continua nell’alchimia, paziente, testardo e senza trasformarsi in chimico industriale, credo che Giordano Tedoldi sia uno di quei pochi ad avere nascosto, ancora sbriciolato, nella testa e sulle dita, il grande libro.
Non ho avuto bisogno di leggere il mito di Er in Platone, o Virgilio; fin da bambino ho sempre immaginato il regno della morte come una landa immersa in una luce fioca, come emanata da fessure nel cielo suturato, in cui si può discendere e rivedere i trapassati, i castigati, i beati, sotto forma di larve bizzarramente abbigliate come chi è appena andato a letto: sottili camicie da notte con ricami neri e senza spalline per le donne, oppure bluse abbondanti per ripararsi dalle tipiche, fredde nebbie stagnanti della pianura dei morti, e pigiami candidi o tuniche chiare per gli uomini. Piedi scalzi ma talvolta sandali di cuoio nero per non sporcarsi nelle paludi. La luce si concentra sulle larve provenendo da fessure celesti, squarci enormi che non si riescono a guardare direttamente, seppure la luce che mandano è debolissima, rarefatta come le fiamme inestinguibili di miliardi di piccole candele. Tutti i morti di cui avevo notizia indossavano gli indumenti della buonanotte e, sempre, ho creduto di poterli un giorno ritrovare in quell’Ade dalprofumo di stoppino acceso che m’ero costruito nella mente. Naturalmente non immaginavo sarebbe stato in mio potere prendere per mano le larve essendo incorporee e tantomeno farle risorgere, perché nella landa dei morti non c’era sentiero d’uscita. Mi accontentavo pienamente di poterle rivedere.
2000b fai pure.
Chillo, Cornelio Nepote, secondo me, è ‘nu figlio ‘e ‘ntrocchia. Isso, sape ‘o fatto suio, infatti trova sempe ‘o pilo dint’a ll’uovo, però Cornelio m’arricorda assaie o riavulo ca sta dint’o libbro(che sto leggendo perchè interrotto tempo fa e che allora ma anche adesso mi sembra proprio una palla accussì)Il Maestro e Margherita. Comunque stongo a pagina 228 con tutto il rispetto per i classici, specie quelli osteggiati dagli editori.
PS:Nepote di disturba pecchè tene sempe ‘a capa fresca. Ca vuò fa, ‘nu poco ‘e pacienza. Però, penso ca Nepote un tallone d’achile ce l’ha da qualche parte e se per esempio non deambula bene … uno sgambetta di tanto n tanto … Auguri.
Transit, col tuo permesso copio nella pagina dedicata a Cornelio Nepote la definizione che hai dato di quello sgorbio quadrumane, perché è bellissima.
Già me lo sento che scornacchia “na fetenzia… che è sta fetenzia? A mme’, notaio quadrigenerazionale?”, ma, vanitoso com’è, a lui piace assai.
Cornè, sei troppo reticente con quella frase di stupore e meraviglia e forse di ribrezzo che hai scritto e riportato nella parte alta a destra del blog a proposito della fiera del libro di Torino. Per quel poco che ti conosco penzo proprio che avissa spennere quatto parole ‘e cchiù. Se non hai detto(scritto)fino in fondo quel che pensi, credo che ti faccia male allo stomaco come un pasto indigesto.
Ja, sbrovogna(parla, butta fuori) o preferisci torturati e reprimerti col silenzio? Una scelta del genere non è da Cornelio Nepote e spinge anche me a proferire cu ‘ e mmane a mmò di preghiere annanzo all’altare laico della critica:
Me faccio ‘a croce cu ‘a mano smerza.
Ps: Cornè, liggiuto comme scrive in vernacolo, a niente a niente fusse di sterpegna terrona comm’a mme?
Buon fine settimana e buona lettura. Ah, quasi dimenticavo, volevo chiedere a te e a 2000battute: Leggete gli stessi libri in contemporanea o tra voi c’è una gara a chi legge i libri li legge per primo? In fondo siete una buona coppia anche se vi pizzicate di continuo.
Cornelio Nepote, che è di sterpegna terrona, disdegna sprezzante le fiere, a meno che non siano culinarie, dove spera sempre di mangiare e bere a sbafo.
Con i libri o le auto dice, in vernacolo, ma io non lo so ripetere, lo dico in italiano: Ma che vado fare all’esposizione dei libri o dei motori? Mica son donne che si guardano o mangerecci che si odorano!
Io non so che dire, l’ultima fiera dove sono stato era il Motorshow 35 anni fa, poi da allora non sono mai più andato a una fiera.
Buon fine settimana anche a te.
2000battute
PS: io leggo da per me senza disturbare nessuno, è Nepote che sta sempre a spiarmi e a darmi fastidio.