2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Who owns the future? – Jaron Lanier

Who owns the future - Lanier

WHO OWNS THE FUTURE?
Jaron Lanier
Penguin 2013 

Questo libro, insieme a To save everything click here di Evgeny Morozov (ora in lettura), sono i due titoli che nel settore prolifico e affollato della saggistica divulgativa Internet-centrica, allarmata, eccitata, esagitata, sofisticata, popolarizzata e sloganeggiante, hanno catalizzato, anche grazie al carisma e alla notorietà dei due autori, l’attenzione in questo primo terzo di 2013. Entrambi sono libri molto critici nei confronti del mondo digitale che sta imponendosi nelle vite di noi tutti, delle strategie che lo guidano, del mercato che lo accompagna, delle idee che lo illuminano e degli attori principali che ne determinano l’evoluzione. Sono critici nei confronti delle fondamenta e dei pilastri portanti che lo reggono. Le loro sono critiche radicali, non riformiste, per usare categorie da far venire l’orticaria solo a sentirle pronunciare.

Autori come Lanier e Morozov, entrambi al loro secondo saggio (Lanier è stato autore di Tu non sei un gadget, Morozov de L’ingenuità della rete, oltre a un piccolo pamphlet su Steve Jobs) appartengono pertanto alla categoria, che va ingrossandosi, di commentatori fortemente pessimisti circa la direzione e lo sviluppo che le tecnologie digitali figlie di Internet hanno preso, soprattutto a causa delle conseguenze che affiorano, e talvolta più che affiorare già esplodono come gonfie vesciche puzzolenti, sul piano sociale, economico, cognitivo, relazionale, geopolitico, legale, democratico.

A questi si contrappongono in una sorta di guerra religiosa, gli entusiasti, i fanatici delle meraviglie tecnologiche e delle promesse di Internet, gli utopisti digitali, i fautori del futuro determinato dalla tecnologia, i sognatori della Singolarità, gli abbonati decennali a Wired, i consulenti McKinsey-style, i Maker, gli ultras dell’Intelligenza Artificiale reinterpretata a modo loro, e gli ultra-liberisti del mercato globale. Questa schiera è ben nutrita, maggioritaria certamente, ed eterogenea, come per altro è anche l’altra. Non c’è una spaccatura netta tra tecnologi e umanisti, ricchi e poveri, scienziati e politici, accademici e professionisti, e quindi le categorie sociologiche classiche non sembrano adattarsi bene a questo contesto.

A livello globale, tra Lanier e Morozov, il primo è certamente il personaggio di maggior peso, per la sua storia e per l’autorità che ha guadagnato da protagonista dello sviluppo delle tecnologie digitali. Morozov è molto più giovane, una sorta di enfant prodige dell’analisi socioeconomica di Internet, grintoso e vociante, ma ancora in via di affermazione.
In Italia, non molto stranamente, tra i due è invece il secondo, Morozov, ad essere più noto, grazie alla collaborazione con il Corriere della Sera che ne traduce e ripubblica alcuni interventi. Collaborazione che, peraltro, sarei disposto a scommettere, visto che io credo che al Corriere della Sera non importi un fico secco delle analisi socioeconomiche di Internet, essere motivata solo dalla concorrenza con La Repubblica. La Repubblica arruola come editorialista Riccardo Luna, uno degli esponenti più noti in Italia della fazione degli utopisti digitali, e il Corriere risponde (bella risposta, glielo concedo) con Evgeny Morozov le cui critiche feroci, molto argomentate e spesso ridicolizzanti trovano un bersaglio praticamente perfetto in qualunque cosa dica o scriva Riccardo Luna.

Non so se si è capito, ma io non sono equidistante e non fingo neutralità. Io sono molto critico ed è con grande diffidenza che ascolto i cantori delle future sorti progressive in salsa digitale, le filastrocche cameratesche degli ascari della tecnocrazia informatica, gli adepti dello smartphone, i patafisici dell’iperconnessione e l’orripilante ottimismo giubilante di chi si domanda cosa vuole la tecnologia, pronto a soddisfarne le fantomatiche richieste.

I due autori, però, se anche li si può genericamente ascrivere alla comune categoria dei critici dell’Internet-centrismo (Morozov mi fulminerebbe con insulti a sentir questo, poichè lui è critico anche dei critici dell’Internet-centrismo per il fatto stesso di riconoscere un’entità tautologica chiamata “Internet”-con-le-virgolette) hanno molto che li divide e quindi le loro tesi non convergono, e soprattutto divergono le possibili soluzioni che suggeriscono.

Se Morozov ha fatto dell’affondo diretto, tranciante e sbeffeggiante, la cifra delle sue analisi critiche rivolte a molti (tutti?) i nomi celebri nati nella o grazie alla Silicon Vally – imprenditori, startupper, geek, nerd, hacker, intellettuali o anti-intellettuali, commentatori, adulatori, giornalisti, scrittori, accademici e anti-accademici -, Lanier, senza essere meno incisivo nell’analisi critica, mantiene sempre un tono morbido e gentile, illuminato da un ottimismo incrollabile di fondo sulla capacità delle persone e della società di raddrizzare la rotta. Non per niente è un musicista esperto di strumenti musicali etnici (persone che io immagino debbano necessariamente avere modi morbidi e gentili), oltre a essere stato uno dei pionieri delle tecnologie per la realtà virtuale. Fisicamente è inconfondibile per via dei lunghi dreadlock da rasta ed è pure ottimamente introdotto nei circoli più esclusivi dell’imprenditoria della Silicon Valley (a proposito, negli USA si può vedere un tizio cinquantenne con l’acconciatura da rasta lunga fino ai lombi seduto nella prima fila di un convegno imprenditoriale tra Eric Schmidt di Google e Jeff Bezos di Amazon; qui da noi, i nostri commentatori piroettati nel futuro hanno discusso per mesi in preda a un misto di eccitazione e costernazione dell’inconcepibile avanguardismo dei maglioncini di Marchionne per concludere, infine, che erano inaccettabili e che il rito della divisa maschile non poteva essere violato tanto alla leggera. Qualcuno dirà che noi abbiamo gusto, eleganza e distinzione e gli americani no, io dico che invece la faccenda è un po’ diversa e che ha a che fare con certi cascami giurassici e molto frivolo conformismo. Divento polemico a leggere certi libri, lo so.)

Per tirar le fila, quindi, Jaron Lanier è un insider di quel mondo verso il quale lancia le sue critiche. Evgeny Morozov un’outsider.

Questo lungo prologo per disegnare la cornice esterna. Procediamo verso l’interno e consideriamo la tesi portante di Who owns the future?.

Siamo abituati a considerare le informazioni come “gratis”, ma il prezzo che paghiamo per l’illusione del “gratis” è accettabile solo fintanto che la maggior parte dell’economia nel suo complesso non ruota attorno alle informazioni. Oggi possiamo ancora pensare alle informazioni come ciò che sostiene le comunicazioni, i media e il software. Ma con l’avanzare della tecnologia in questo secolo, la nostra attuale impressione sarà ricordata come miope e misera. Noi ci possiamo permettere di pensare alle informazioni in termini riduttivi solo perché settori come la manifattura, l’energia, la cura della salute e i trasporti non sono ancora particolarmente automatizzati o net-centrici.
Ma alla fine, la maggior parte della produzione diventerà mediata dal software. Il software può essere l’ultima rivoluzione industriale.
[…]
Forse la tecnologia renderà ogni bisogno della vita talmente a buon mercato che vivere bene diventerà praticamente privo di costi e nessuno si preoccuperà più dei soldi, del lavoro, delle disuguaglianze di ricchezza o di fare piani per la terza età. Io dubito fortemente che questo scenario idilliaco si realizzerà.
Viceversa, se procediamo come stiamo facendo, entreremo probabilmente in un periodo di iper-disoccupazione con il conseguente caos politico e sociale. Le conseguenze del caos sono imprevedibili e non dovremmo quindi confidare in quello per progettare il nostro futuro.
Un modo di procedere saggio è di considerare in anticipo come possiamo vivere nel lungo periodo in presenza di un elevato grado di automazione.
(Traduzione mia)

Il tono se non è apocalittico è quanto meno di seria e grave preoccupazione per ciò che stiamo facendo alla nostra società correndo sempre più verso l’automazione spinta che le tecnologie digitali consentono a livelli impossibili in precedenza. Una corsa in autostrada a occhi bendati per le conseguenze imprevedibili che può avere l’erosione di posti di lavoro che accelera a ogni nuova ondata di innovazione digitale. Sì perché questa è la tesi di fondo di Lanier: l’innovazione digitale, la pervasività di Internet e l’automazione mediata dal software distruggono infinitamente più posti di lavoro di quelli che creano (contrariamente a quanto dicono i più esaltati tra gli utopisti digitali), e non solo: non siamo di fronte a un caso di processo di distruzione creativa, altro mantra colpevolmente male interpretato dall’ala moderata dell’utopia digitale, ovvero non è un costo inevitabile che presto verrà ripagato da una fioritura di opportunità e di lavori, no, affatto, è una distruzione di occupazione che niente e nessuno può minimamente garantire che verrà significativamente recuperata in un futuro ragionevolmente prevedibile. Chi fa previsioni al di là del futuro ragionevolmente prevedibile o è un profeta oppure è un ciarlatano (altrimenti detto futurologo).

Lanier sta dicendo che il rischio che corriamo è la catastrofe economica e sociale causata proprio dall’attuale allucinazione di avere a portata di mano un futuro felice per tutti grazie alle tecnologie digitali e a “Internet”.
Questo è il tema e su questo la guerra ideologica e religiosa è ormai stata dichiarata. Chi non se ne era accorto ora ne è informato. Chi minimizza con lo smaliziato fatalismo del “ne ho viste di peggio” si sforzi di portare prove tangibili e argomenti robusti a sostegno, viceversa, se porta solo un ghigno marpionico da vecchio volpone, faccia il piacere di andare a bighellonare altrove.

Quindi il primo commento da segnare a proposito di Who owns the world? è che pone in modo chiaro un problema importante, grave e complesso. Estremamente complesso.

In Italia rispetto a quanto discute Lanier dobbiamo considerarci alla stregua di un paese sottosviluppato. Siamo al Giurassico e le resistenze economiche, politiche, sociali e culturali, per rimanervi ancora a lungo sono fortissime. Da giurassici sperimentiamo ora, in ritardo di una decina d’anni rispetto l’area del mondo più tecnologicamente avanzata, l’emergere degli innovatori del nuovo millennio, queli dell'”Internet”-La-Rivoluzione, quelli dell’Agenda Digitale come lampada d’Aladino, i cattedratici che ponderano ponderose considerazioni che echeggiano discorsi vecchi di un decennio, i consulenti americani o americaneggianti d’assalto che rispolverano analisi ammuffite e si fregano le mani per l’occasione di propinarle nuovamente facendosele pagare come innovative e i centri studi accademico-industriali che sfornano rapporti che dimostrerebbero con granitica certezza gli strabilianti salti del PIL e la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro (naturalmente senza mai chiedersi quanti ne verrebbero cancellati di posti di lavoro nel medio periodo, che tanto secondo loro quelli non contano, il medio periodo non conta, effetti collaterali, sfridi, bazzecole; è la distruzione creativa, baby). Nelle Note finali potete trovare un breve elenco di proclami di codesti utopisti.
Siamo immersi nella la tipica dinamica di industrializzazione di un paese sottosviluppato, con la sola differenza che in Italia si fanno per ora quasi solo chiacchiere. Chiacchiere spesso sconclusionate, per altro, visto che pochi, pochissimi, conoscono (o forse se conoscono fingono di non saperlo) la dinamica che altrove già si osserva: il periodo roseo ha vita limitata, poi iniziano a venire a galla i cadaveri in putrefazione. Di questo parla Lanier, ripeto ancora, e non se lo inventa lui.
Un esempio non brillante arriva giusto oggi (lunedì 13 maggio) dal Corriere Economia, il supplemento economico del Corriere della Sera che pubblica una recensione a tutta pagina di Who owns the future? (ho trovato la versione, mi pare integrale, unicamente sul sito Dagospia, sono costernato per la fonte, ma purtroppo non ho scelta). Come viene riportato il contenuto del libro? Cosí: “denuncia i social media” e non è vero, l’analisi è molto più generale; “Lanier non ha soluzioni pronte ma spera nella nascita di un movimento per una «dignità di massa» nell’era di Internet”… Eeehhh?! Ma se tutti-dico-tutti i commentatori hanno criticato proprio la soluzione che Lanier propone?! Lo schema è sempre quello di ricreare il modello folkloristico normalizzato che televisione e carta stampata ripropongono continuamente: l’omosessuale grottescamente mascherato che fa l’opinionista nel talk show sessista, il giovane politico che viene imbeccato come una scimmia ammaestrata nel polveroso dibattito in studio e via di questo passo. La recensione presenta allo stesso modo Lanier e il suo libro: lo strampalato scienziato americano che sembra Bob Marley e che, come ci si può ben immaginare, propone astruserie da hippy. Costume & Società, Gossip & Curiosità dal mondo, gatti che fanno smorfie e scienziati hippy che scrivono libri strampalati. Benvenuti al Jurassic Park Hotel, Milano, Italia.

Qualche furbo poi dirà «Beh, ma se siamo in ritardo intanto sfruttiamo i vantaggi dell’avvio, poi nel frattempo qualcuno, altrove, troverà una soluzione agli svantaggi e cosí noi facciamo tombola». Pensata geniale per sfuggire al tedio di sforzarsi di conoscere e di ragionare. Peccato che la storia non viaggi a velocità costante e le dinamiche socioeconomiche non siano né indipendenti né lineari. Tradotto: il tempo di vacche grasse di cui hanno goduto i paesi che hanno guidato la svolta Internet-centrica, noi e tutti gli altri ritardatari non lo avremo, ne avremo molto meno, perché le dinamiche accelerano per chi arriva dopo, i tempi si comprimono e quindi i fiori sfioriscono in fretta e i cadaveri putrefatti neppure affondano per poi risalire. Già ci sono e se ne sente l’odore. (Tirata contro i vaniloqui che si sentono troppo spesso dalle parti delle nostrane Agende Digitali, Maker de no’ antri e vetero-innovatori che non fanno altro che scopiazzare malamente quello che vedono che gli altri hanno fatto, ma guardandoli da lontano. Spiace leggere commenti di una superficialità sconfortante, i critici conservatori provinciali Vs. i tecnomani illuminati e internazionali, anche da uno solitamente acuto e informato come Mantellini, il quale, secondo me, prende lucciole per lanterne confondendo i gattopardi della vecchia Italia con chi osserva la traiettoria della società digitale globale e vede sviluppi inquietanti. Di questo ne discutono e molto fuori dall’Italia alcuni dei migliori analisti, ma è una critica ancora largamente minoritaria rispetto le fanfare delle potenze commerciali e finanziarie di Internet col loro seguito di accoliti adoranti o stipendiati. In Italia invece non se ne discute affatto, come per molto altro, in Italia si scrivono rubriche di Costume&Società e si diffondono proclami, con buona pace di Mantellini che non vede la differenza tra gattopardi e critici informati. Vi ho avvertiti, divento polemico. Molto.)

Posto il problema generale, Lanier identifica una delle cause oggettive primarie: l’emergere dei Siren Server, i Server Sirena, secondo una metafora interessante quanto infantile, secondo me. Con Siren Server, Lanier intende quei nodi della mitologica “Internet” che attirano a sé torme di altri piccoli nodi in navigazione nel mare internettiano, i piccoli nodi vogliono avvicinarsi, inebriati e ipnotizzati dallo sbarluccicare delle luci che avvolgono queste maestose e tentatrici sirene digitali. La fine è nota da quasi tremila anni: finiscono per venire uccisi o resi schiavi. In altre parole, per le caratteristiche che ha assunto Internet, il mercato che ruota attorno a quell’intreccio di cavi e macchinari, per le leve economiche che vengono premute, per tutta la rivoluzione digitale congegnata secondo le visioni e gli interessi della Silicon Valley, inevitabilmente si creano processi di concentrazione estremi, emergono dei vincitori dall’arena che si portano a casa l’intero banco e attorno a questi sciamano milioni di pesciolini minuti, ruota un ecosistema che da essi dipende, si innesca una forza gravitazionale che sempre più acuisce il processo di concentrazione. Google, Facebook, Amazon, Yahoo, Microsoft, Apple, Oracle, Twitter, Coursera solo per citare i più noti. Questa concentrazione è un processo strutturale, deriva dalle caratteristiche intrinseche dell’innovazione digitale di Internet per come è stata organizzata e gestita. Non sono le Olimpiadi (“vinca il migliore, l’importante è partecipare”) e neppure leggi di Natura. È l’effetto di un’aggregazione organica realizzatasi secondo leggi che hanno preso forma nella Silicon Valley e a Wall Street (come minimo) nel corso degli ultimi dieci anni. Ampliando lo sguardo, attorno si staglia l’ombra di decenni di neoliberismo, deregolamentazione, globalizzazione, libertà di scambi commerciali e di crescita degenere della finanza. Siamo dentro al nostro mondo, non sulla Luna. Siamo nel mondo che ha generato la crisi economica, la speculazione finanziaria, e la disoccupazione drammatica che viviamo. In questo mondo l’allucinazione di Internet è parte importante, è organica e funzionale, ne è figlia, forse la figlia dai tratti più nobili, ma pur sempre discendente per linea diretta.

Una nota a parte merita l’uso della metafora delle sirene. È assolutamente inebriante e quasi emozionante come un mito di tre millenni fa, tramandato e diffuso tra culture arcaiche, non solo continui ad affascinare anche oggi, ma addirittura sia ritenuta da un analista di primo piano la metafora migliore per spiegare l’ipermodernità. La potenza dei grandi poemi epici dell’antichità e quanto siano stati in grado di permeare la nostra cultura generazione dopo generazione è vertiginosa, fatichiamo a rendercene conto, ma dovremmo rendere onore a Omero e ai grandi classici ogni giorno, tutti i giorni.

Un Server Sirena, per come lo intendo, è un computer appartenente all’elite dei computer, oppure un gruppo coordinato d computer, su una rete. È caratterizzato dal narcisismo, da un’avversione al rischio iperamplificata e da un’asimmetria informativa estrema. È il vincitore di una gara tutto-o-niente ed esso obbliga coloro che ci interagiscono a partecipare a competizioni in scala ridotta di tutto-o-niente.I Server Sirena raccolgono dati dalla rete, spesso senza dover pagare nulla per essi. I dati vengono analizzati usando i computer disponibili più potenti, gestiti dal personale tecnico migliore. I risultati delle analisi vengono mantenuti segreti, ma sono usati per manipolare il resto del mondo a loro vantaggio. Una tale strategia può alla fine ritorcersi contro di essi, poiché il resto del mondo non può assorbire indefinitamente l’aumento del rischio, i costi e gli scarti dispersi dai Server Sirena.
(Traduzione mia)

La prosa di Lanier è indubbiamente enfatica, esageratamente metaforica e sovraccarica di arzigogoli inutili. Lanier ha molti pregi in quanto a capacità di analisi e grande esperienza, ma ha il difetto di non essare per nulla un buon scrittore. Non è un buon scrittore né nella prosa e soprattutto nello strutturare un testo lungo come un saggio. È confuso, ridondante e assai poco lineare e ordinato. Procede a salti, i paragrafi sono spezzettati anche dall’uso di un’inutile titolazione e si perde, perchè manca un filo logico e la consequenzialità. Ciò è un pessimo difetto che pone il saggio in una luce peggiore di quella che avrebbe potuto avere, oltre a esporlo a facili critiche. A questo aggiungo la tendenza di Lanier a farsi prendere la mano quando si addentra in territori per lui non del tutto familiari. Non è un economista, ma necessariamente il tema del libro deve avere spesso un’ottica economica. Il rischio che si corre e nel quale Lanier alcune volte incespica è di andare oltre alle proprie competenze, inutilmente il più delle volte, forse per timore di non apparire abbastanza rigoroso, ma finendo per cadere in inesattezze o usare in modo ambiguo forme espressive che hanno un connotato specifico nel settore disciplinare d’appartenenza. Di nuovo, questo lo espone a facili critiche da parte degli esperti del settore, gli economisti in questo caso.

Uno degli aspetti strani, tragici, della nostra epoca tecnologica è che i gadget digitali più celebrati, come i cellulari e i tablet, sono costruiti a mano in fabbriche gigantesche, per lo più situate nel Sud della Cina, da persone sottoposte a ritmi di lavoro massacranti in luoghi di lavoro dalle condizioni precarie. Osservando le innovazioni nella robotica e nella meccanica automatizzata, è difficile non interrogarsi su cosa accadrà quando il lavoro di questi eserciti di operai diventerà obsoleto.
In questo caso, anche quando la tecnologia sarà disponibile, io sospetto che i politici ne rallenteranno l’impiego. È difficile immaginare che la Cina possa decidere di condannare una cosí larga parte della popolazione alla disoccupazione. Dopo tutto è ancora una società pianificata centralmente. È difficile anche immaginare uno degli stati confinanti con la Cina intraprendere un processo di automazione del genere. Ma, ad esempio, potrebbe il Giappone che soffre di una popolazione la cui età media è molto alta automatizzare le proprie industrie per tagliare fuori la Cina? Sembra essere un rischio concreto.
[…]
Cosa comporterebbe automatizzare la produzione industriale? La prima parola che viene in mente è temporaneo. E la ragione è che l’atto di rendere le manifatture altamente automatizzate porterebbe inevitabilmente la produzione ad essere ancora più una tecnologia “mediata dal software”. Quando una tecnologia diventa mediata dal software, la struttura del software diventa più importante di ogni altra caratteristica della tecnologia nel determinare chi otterrà potere e denaro quando la tecnologia sarà adottata. Rendere la produzione industriale mediata dal software ha come conseguenza di avanzare verso una condizione per la quale la stessa nozione di fabbrica, per come la conosciamo, risulterà obsoleta.
(Traduzione mia)

Un altro filo che segue Lanier nella sua analisi, oltre alle possibili conseguenze macroeconomiche dell’attuale corso dell’evoluzione tecnologica, ha a che fare con una progressiva de-umanizzazione del lavoro; l’automazione rende i lavoratori obsoleti, l’automazione rende cruciale il software, i giganti del software, accentratori di potere economico, diventano i padroni del mondo. È allora interessante domandarsi quale sia il substrato culturale nel quale sono cresciuti i leader, i fondatori, i top manager che guidano le aziende che potranno diventare i nuovi padroni del mondo. In altre parole, qual è la cultura della Silicon Valley.
La risposta di Lanier è preoccupata e cupa. La cultura della Silicon Vally è un misto di new age, di esoterismo, di iperindividualismo e di vaghe sensibilità sociali emulsionate con le prediche neoliberiste e con una visione ristretta e incapace di afferrare la complessità sociale tipica di molti tecnologi. In sostanza, dice Lanier, i prossimi, probabili padroni del mondo sono individui che hanno gravi e tragiche difficoltà a comprendere l’umanità, l’umanesimo, il sociale, l’intreccio inestricabile dei processi e delle dinamiche di una società. Sono individui che a fronte di questa difficoltà interpretativa e deficit culturale scivolano immediatamente e con giuliva incoscienza nel tecnicismo, nella tecnocrazia, nell’automazione volta a sostituire il sociale con il “mediato dal software”. In sostanza, fa capire sempre Lanier, il rischio è di consegnare il mondo a un ristrettissimo gruppo di miliardari fanatici e ignoranti.

Infine concludo con la parte più problematica del saggio di Lanier, oltre alla non buona strutturazione del testo e dei suoi contenuti: le soluzioni che propone.

Per questo considero prima alcune delle recensioni critiche che ha ricevuto, le quali, a mio parere, mettono in luce diverse debolezze del saggio, ma risultano in genere poco equilibrate. Sembrano più un esercizio di scelta da uno scaffale di supermercato dell’aspetto critico di proprio gusto sul quale imperniare tutto il commento, ignorando il senso generale, il quadro d’insieme e il contenuto dell’analisi nella sua interezza. Talvolta sembrano rantoli guidati da personalismi, antipatie e semplice desiderio di controattaccare nella già citata guerra di religione tra ipercritici e fondamentalisti digitali. Il tono e il livello dei commenti, quindi, a me è parso spesso basso, superficiale, rancoroso e di scarso interesse.

In Jaron Lanier And Gobbledygook Economics, l’autore estrapola alcuni paragrafi per dimostrare l’inconsistenza delle tesi di Lanier, ma senza mai affrontare il senso generale dei problemi posti dal saggio. È una forma di aneddotica della critica, tanto pessima quanto l’aneddotica della saggistica. Alcune delle osservazioni sono condivisibili, alcuni paragrafi sono effettivamente confusi o ambigui, l’insistenza di Lanier nel prendere a esempio la dinamica del mercato musicale è eccessiva e non dimostra come da quell’esempio se ne possa ricavare una regola generale. Però lo stesso autore della recensione, nella sua furia rancorosa e arrogante, dice cose insensate.

Come abbiamo spiegato già molte volte, Lanier confonde prezzo con valore. Il prezzo di qualcosa può diminuire, ma ciò non significa che anche il valore lo faccia. Due veloci esempi possono dimostrarlo. Per tutti noi l’aria è molto preziosa. Lo è cosí tanto che ne moriremmo senza. L’aria ha, quindi. un valore infinito per quasi tutti noi, salvo l’infinitesima parte di popolazione che desidera suicidarsi attraverso soffocamento. E ancora, il prezzo nominale che paghiamo per l’aria tende a zero in molti casi (i sommozzatori rappresentano una piccola eccezione). Il prezzo è quindi certamente non correlato col valore.
(Traduzione mia)

Ecco, questo commento, oltre al tono fastidiosamente supponente, è un’olimpica sciocchezza. È vero che prezzo e valore non coincidono, ma non sono affatto scorrelati. Intanto sono spesso legati dalla scarsità o abbondanza del bene. Poi, più importante, Lanier non parla di “valore” in senso generale, come appunto il valore dell’aria per la nostra vita. Lanier parla di “valore di mercato”. Qual è il valore di mercato dell’aria? Pressoché zero, simile al suo prezzo, non certo infinito. Prezzo e valore di mercato non sono sinonimi, in moltissimi casi divergono, anzi, sempre divergono quando esiste un mercato.
Ma confondere “valore” inteso come valutazione personale da “valore di mercato” inteso come valutazione economica di un bene è tipico di chi commenta un libro senza neppure averlo letto oppure è un esercizio di malafede a favore della propria causa fanatica.

Vediamo due recensioni più significative. La prima è proprio di Evgeny Morozov.
Con il suo tipico tono acre, Morozov punta il dito sulla soluzione proposta da Lanier alla crisi imminente, provocata dai Server Sirena, che andrà a colpire la classe media, la sonnacchiosa borghesia, il cuore dell’impalcatura capitalista. Il discorso di Lanier, da un punto di vista puramente economico, è tutto incentrato sulle minacce al capitalismo per come lo conosciamo, il capitalismo diffuso che ha consentito al mondo occidentale di prosperare e diventare il nostro mondo. Non c’è in Lanier una critica al mondo come lo conoscevamo, ma solo una critica all’assalto che sta subendo da parte di alcuni oligarchi digitali.

E qual è la soluzione che propone? Un diffuso, capillare, automatico, vigilato dalla legge sistema di micropagamenti diretti ai cittadini, alle persone tutte, da parte di chiunque sfrutti o benefici dei loro dati personali e contributi nel mondo digitale a fronte della fine del “gratis” su Internet. Tutto lo si monetizza nella proposta dichiaratamente futurista e immaginosa di Lanier. I servizi su Internet si pagano, si paga la ricerca su Google, Facebook, tutto si micropaga. Di contro, tutti i dati personali che le aziende stanno raccogliendo si pagano agli utenti, tutti i commenti delle persone che siano stati utili a fini commerciali si pagano, i link a pagine personali si pagano, tutto si micropaga. Qualunque informazione ha un costo, piccolo ma non nullo, e il mondo digitale si dovrebbe autosostenere e riequilibrare grazie a questo flusso continuo e bilaterale di micropagamenti. Tutti diventano fruitori e produttori di un mercato delle informazioni e microinformazioni regolato su basi economiche.

È un progetto utopico e rivoluzionario, per molti motivi. Dal punto di vista tecnico e infrastrutturale, qualunque informazione dovrebbe essere mutuamente referenziata, ovvero esistere sempre sia il collegamento tra chi la accede e l’informazione ma anche il viceversa, un collegamento tra l’informazione e chi l’ha acceduta. Questo sarebbe indispensabile per la tracciabilità degli utilizzi e il conseguente micropagamento. Sembra follia? Forse qui ha ragione Lanier a dire che è meno folle di quel che sembra. Il web non è nato con i link ipertestuali per legge di natura. Fu una scelta. All’epoca ne esistevano altre di ipotesi, alcune avevano proprio il doppio riferimento. In più, quando la Commissione Europea propone come nuova regolamentazione al trattamento dei dati personali il famoso “diritto all’oblio”, ovvero il diritto dei cittadini a veder rimosse tutte le informazioni personali che li riguardano, ovunque esse siano state copiate o vengano mantenute, non sta andando molto lontano da quanto propone Lanier; anche in quel caso sarebbe necessario un tracciamento puntuale, per la rimozione nel caso della UE, per il micropagamento nel caso di Lanier. Non per una coincidenza fortuita, tanto la proposta della UE quanto quella di Lanier sollevano alti guaiti da parte di molti, inclusi i Siren Server.

Dietro questa logica c’è un ragionamento semplice e consequenziale: se le informazioni personali o i dati generati da una persona, di qualunque tipo essi siano, sono di proprietà della persona stessa e non beni pubblici, allora, nel quadro del modello capitalistico che nessuno contesta, valgono i diritti di proprietà e qualunque uso deve essere sia autorizzato che ricompensato. Se vale con gli oggetti fatti di plastica, mattoni o lamiere, perché negarne la validità con le informazioni?
La questione non è affatto banale e finora è stata accuratamente evitata se non da un piccolo manipolo di studiosi della privacy particolarmente rigorosi e pragmatici.
Tuttavia, oltre all’evidente difficoltà realizzativa della soluzione di Lanier, difficoltà non impossibilità, Morozov avanza un’altra critica, questa volta alle fondamenta dell’approccio di Lanier. Come la mettiamo con la complessità del mondo e della società? Siamo sicuri che una modifica di tale portata, i micropagamenti automatici, comporti solo un riequilibrio della ricchezza prodotta dalle tecnologie digitali? Quali altre conseguenze avrebbe una società digitale ultracommercializzata, nella quale tutto è in vendita e tutto è prezzato, tutti i rapporti sono rapporti commerciali, microcommerciali ma pur sempre tali? Quali conseguenza sulla sostenibilità del mondo basato sull’informazione?

Sono domande lecite, ovviamente, e alle quali non esiste risposta. Semplicemente non lo sappiamo, nessuno lo sa, tranne i soliti profeti o ciarlatani. Eppure sono domande che si stagliano luminose davanti agli occhi di chiunque abbia ragionato su questi aspetti. Perché Lanier non le affronta? Perché dedica 300 pagine a raccontare confusamente storie, aneddoti, ripetere e rivoltare e non mette a fuoco queste domande cosí evidenti?

Questa è una critica che colpisce nel segno. Lanier ha fatto un’ottima analisi e ha descritto chiaramente dei rischi gravissimi. È immaginifico e ha idealizzato una possibile soluzione, utopica, rivoluzionaria, ma comunque che scava le fondamenta di quei problemi. Poi però sembra essersi beato nel suo ottimismo e nel dolce tepore che regala il pensare a un mondo diverso, migliore, più buono, più giusto, più luminoso, ma forse irreale. Il reale non regala tepore, ma nevrosi, frustrazione e dubbi che producono soluzioni che producono altri dubbi. Ma non si scappa dalla realtà se si vuole fare gli analisti.

L’ultima recensione si intitola Jaron Lanier and the Case for Moonshot Thinking, scritta da Evan Hughes. È la più equilibrata tra quelle che ho letto, bilancia bene la descrizione del contenuto con la critica. Anche Hughes mette poco a fuoco il contenuto dell’analisi di Lanier semplificandolo in pochi paragrafi e da quelli ne emerge una versione troppo stilizzata. Invece offre un ottimo giudizio, apprezzando lo sforzo propositivo non convenzionale di Lanier e, anche lui, criticandone la scarsa attenzione alle molteplici e impreviste implicazioni di un rivolgimento simile.

Concludo dicendo la mia. Who owns the future? non è un grande saggio sia per i motivi che vi ho già spiegato – la presentazione confusa, le incertezze argomentative – e sia perché Lanier sembra ricadere, in parte almeno, nello stesso errore che critica, ovvero la polarizzazione, per non dire l’oligopolio globale, dei Server Sirena. Lanier, pur da critico, si chiude nell’Internet-centrismo e, da quella prospettiva claustrofobica che tutto riconduce a Internet e ai suoi derivati, ipersemplifica la complessità del reale. L’oligopolismo probabilmente catastrofico dell’attuale sviluppo socioeconomico è acuito dalle tecnologie digitali, è sospinto anche dalla crescita del software, cresce usando Internet come una delle sue leve. Ma Internet, il software e le tecnologie digitali non sono l’unica causa e nessuno ancora può dire con certezza quanta importanza abbiano tra le diverse cause. Il mondo è complesso e le dinamiche che lo guidano allungano le radici in molte direzioni e indietro nel tempo. E quindi, la crisi della classe media e la precarizzazione del lavoro non sono né causate né accelerate solo da Internet e dalle tecnologie, ma anche da molti altri fattori: la globalizzazione, la finanza, la geopolitica, etc. Sbrogliare la matassa serve per ritagliare l’analisi e osservare con attenzione un aspetto specifico, ma credere che sbrogliandola si possa poi riconoscere una sorta di omuncolo nascosto al suo interno responsabile di tutto è un errore concettuale eclatante. Questo manca nell’analisi di Lanier, come nella quasi totalità delle analisi socioeconomiche soprattutto se riguardano l’innovazione tecnologica: manca la visione d’insieme della complessità del reale e la difficoltà di comprenderne le dinamiche. Invece si punta il dito e si grida al colpevole quando invece è solo uno dei complici della banda. Stessa cosa, ma invertita e con un grado decisamente superiore di fondamentalismo, la fanno gli utopisti digitali ululanti di gioia.

Detto questo, Lanier è comunque una voce da ascoltare sempre, anche quando mette troppa carne al fuoco, borbotta e si confonde, oppure fantastica sulle nuvole. Nonostante questo e le critiche che possono essergli mosse, sta inquadrando una dinamica e delle possibili, verosimili non strampalate, conseguenze dell’Internet-centrismo e della traiettoria socioeconomica degli ultimi tre decenni di importanza enorme. Quindi va preso seriamente, criticato seriamente, apprezzato seriamente e soppesato seriamente. I commenti tranchant o presuntuosamente liquidatori vanno semplicemente presi e gettati nella spazzatura, come i loro autori, perché inutilmente noiosi.

Note:

– una discreta intervista a Lanier la trovate su The Times of Israel

– un’altra discreta intervista su Salon.com

– una discreta recensione sul New York Times

– ancora su The Guardian

– commento critico molto buono su Freedom to Tinker

– buona analisi di Massimo Gaggi su La Lettura del Corriere della Sera

– breve elenco di proclami dei nostrani utopisti digitali: La Stampa, Ministero dello Sviluppo Economico, ICT4Executive, Agenda Digitale, Italia Futura e ancora Agenda Digitale.

8 commenti su “Who owns the future? – Jaron Lanier

  1. lauralalune
    31 gennaio 2016

    Ho apprezzato molto la tua analisi. Anche io sono “insider” nel mondo della tecnologia e in molti vedono come una cosa assolutamente inconcepibile il mio approccio critico verso la stessa.
    Stavo cercando di capire se leggere il libro o no, credo che lo farò sapendo cosa aspettarmi. Anche se so già che la “soluzione” proposta da Lanier non solo non è una soluzione, ma è in qualche modo già presente, non come forma di rimborso al cittadino per la vendita dei suoi dati, ma mascherata sotto alla sharing economy: basta pensare alle fatidiche quote destinate ai musicisti da spotify, a servizi di car sharing come bla bla car (che non guadagna niente dalle transazioni dei suoi utilizzatori, e quindi in pratica è come se li pagasse per i dati personali, sul traffico e la logistica che ottiene), e ad altre forme di economia di condivisione. Questi sono servizi o piattaforme che di certo possono aiutare ad opporsi alla crisi occupazionale, ma solo partendo da condizioni contestuali favorevoli: airbnb funziona se ti trovi in una località di interesse turistico, etsy se ti trovi in un paese il cui costo della vita sia irrisorio, altre piattaforme servono solo ad arricchirne i gestori (in particolare quelle rivolte all’arte).
    Pertanto vorrei chiederti se conosci altri libri validi sul tema che invece di proporre soluzioni cercano di trovare quale possa essere il modo di conservare la propria umanità e i propri valori, seppur rimodulati, in una realtà che rimane più che altro caratterizzata dall’inconsapevolezza.
    Laura Ludd

    • 2000battute
      31 gennaio 2016

      Ciao Laura.
      Ho appena finito di leggere quello che mi sembra il miglior libro di analisi critica che ho trovato, approfondito ed equilibrato: The People’s Platform di Astra Taylor. Purtroppo non c’è l’edizione italiana.
      La Taylor è una documentarista e dimostra di conoscere molto bene e di aver riflettuto e studiato a lungo le dinamiche dell’evoluzione tecnologica. Tocca molti dei punti critici e lo fa, secondo me, molto meglio di tanti presunti esperti o opinionisti. Molto buona anche la bibliografia del libro.
      m

    • Laura Lalune Décroche
      31 gennaio 2016

      Bene, lo cerco. Grazie!

    • 2000battute
      31 gennaio 2016

      Se lo leggi poi fammi sapere cosa ne pensi, se vuoi

    • 2000battute
      31 gennaio 2016

      Invece (mancava un pezzo di risposta, me ne sono accorto ora), di buone analisi sulla sharing economy non ne ho trovate in libri, forse è ancora presto, materia da buon post di blog o al massimo qualche articolo. Anche sull’uso dei dati personali la letteratura è frammentaria (e dominata dalla retorica sulla privacy che personalmente trovo sempre meno interessante). Ad esempio, pochi hanno analizzato seriamente l’industria dei data broker, ancora molto poco approfonditi e di nicchia i lavori sull’efficacia del profiling avanzato (per intenderci non con i banali cookie) e ancora più di recente sulle possibili conseguenze della diffusione degli adblocker. Sulle conseguenze sull’occupazione e i contratti di lavoro, soprattutto legato all’iperautomazione futura, ci sono analisi che dovrebbero essere interessanti, ad esempio The Second Machine Age by Erik Brynjolfsson and Andrew McAfee, non l’ho letto, vorrei farlo, di Brynjolfsson conosco da parecchi anni la produzione scientifica e lo considero uno serio. Il libro di Lanier non te lo consiglio particolarmente, anche se lui è uno in gamba (è uno che non è quello che sembra, a mio parere).
      Questo mi viene in mente adesso.
      Per curiosità, se posso, sei un insider in che senso?

  2. procellaria
    12 dicembre 2014

    Forse è vero che sono miope, ma le sirene mi stanno offrendo dei servizi eccezionali (mi riferisco a Google e Coursera, quelli che più uso) e non riesco a vederne le controindicazioni. Non ho letto il libro, ma la soluzione che sembra proporre è nella migliore delle ipotesi irrealistica, nella peggiore violenta, perché se A vuole offrire a B un servizio a un prezzo X e B è disposto a pagare quel prezzo, se un terzo agente C interviene imponendo una modifica al loro libero accordo allora sta facendo violenza (sì, è quello che fa lo Stato e infatti lo Stato è un furto legalizzato).

    Comunque complimenti per la curata recensione.

    • 2000battute
      13 dicembre 2014

      Vero, infatti Lanier è stato criticato soprattutto per le possibili soluzioni che suggerisce.
      È uno dei contributi che si inseriscono nel dibattito sulle conseguenze positive/negative della diffusione delle tecnologie digitali.
      Tema ormai indispensabile da affrontare per ragionare su economia e società e ancora non ben inquadrato, mancando una prospettiva storica.

  3. Piero
    2 settembre 2013

    Sono contento di leggere una recensione in italiano del libro di Lanier. Mi trovi pienamente d’accordo sull’aspetto “confusione” e sul fatto che la realtà è molto più complessa di come la percepisce il “sylicon-valley guy”.

    Nel mio piccolo apprezzo Lanier perchè oltre a criticare offre una soluzione ai problemi che vede, il che non è da tutti. Tipicamente i critici si barricano dietro una critica distruttiva, perchè non hanno idee. Lanier le idee ce le ha, anche se confuse.

    Altro motivo per cui ho a cuore Who Owns The Future è che ho preso spunto da questo per scrivere una storia di fantascienza. Non appena la termino spero di poter contare su una tua recensione ;)
    Qualche dettaglio qui:
    http://pieroit.org/blog/primi-elementi-del-libro

    Un saluto,
    e se ti va scambiamoci i link. (http://pieroit.org/blog)

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