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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

La testa perduta di Damasceno Monteiro – Antonio Tabucchi

Testa perduta Damasceno - Tabucchi

LA TESTA PERDUTA DI DAMASCENO MONTEIRO
Antonio Tabucchi
Feltrinelli 1997 

Ancora Tabucchi subito dopo Requiem? Bé sì… se si riprende in mano Tabucchi, o se lo si legge per la prima volta, non è che ci si può fermare a un solo libro… no, Tabucchi è come le ciliegie, un libro tira l’altro e almeno il bis, o anche il tris (ma sì, dai, vi preannuncio il tris), bisogna proprio farlo. Non se ne può fare a meno e poi questo La testa perduta di Damasceno Monteiro non l’avevo mai letto.

Bello. Un bel libro di quelli con i quali ci si rilassa e si sorride facendosi prendere per mano dalla storia e lasciando fare tutto a lei. Mettetevi comodi e godetevi il panorama, a guidare ci pensa Tabucchi.

La storia di Damasceno Monteiro, o meglio la storia della sua testa mozzata e sparita e quella di Firmino, giovane e inquieto reporter di Lisbona spedito a Oporto per indagare e magari fare un bello scoop succulento, proprio sul mistero di quella testa segata via con nitida precisione, è un noir dai ritmi morbidi e profumati del Portogallo che amava Tabucchi, indolente, condito di fatalismo popolano, ingombro di calcinacci e illuminato dal sole o dalle luci della sera tiepida.

Il Portogallo non è paese mediterraneo ma latino sì e pure marittimo e un poco sciancato, per questo il noir di Tabucchi può benissimo essere affiancato al cosiddetto noir mediterraneo col quale — infelicemente a mio modo di vedere per via dell’inutilità di quell’aggettivo e per l’eccessiva fretta nell’inscatolare in un genere — viene definita l’opera di quel meraviglioso autore che è stato Jean-Claude Izzo, dolce, sensuale, tormentato, sognatore e indimenticabile.

L’assonanza con Izzo e la sua trilogia di Fabio Montale io l’ho percepita distintamente; l’eco del fascino inebriante dei colori di Marsiglia nelle descrizioni di Oporto, Fabio Montale e Firmino, i sapori dei cibi che permeano la vicenda, i personaggi marginali carichi di aristocratica povertà, Dona Rosa, Manolo il Gitano, l’avvocato Loton.

Stessa mano che incanta, Tabucchi e Izzo, stesso profondo radicamento in un luogo del quale respirare a fondo ogni particella della vita che vi brulica sforzandosi e zoppicando, impregnata dell’umanità spessa e trascinante delle periferie. Anche i grandi sudamericani che adoro, loro pure scrittori delle periferie, riescono a essere così ricchi di colori nel descrivere l’umanità che fatica a trovare un posto, anche piccolo e scomodo, per sopravvivere.

Vi leggo l’inizio.

Manolo il Gitano aprí gli occhi, guardò la debole luce che filtrava dalle fessure della baracca e si alzò cercando di non fare rumore. Non aveva bisogno di vestirsi perché dormiva vestito, la giacca arancione che gli aveva regalato l’anno prima Agostinho da Silva, detto Franz il Tedesco, domatore di leoni sdentati del Circo Maravilhas, ormai gli serviva da vestito e da pigiama. Nella flebile luce dell’alba cercò a tentoni i sandali trasformati in ciabatte che usava come calzature. Li trovò e li infilò. Conosceva la baracca a memoria, e poteva muoversi nella semioscurità rispettando l’esatta geografia dei miseri mobili che la arredavano. Avanzò tranquillo verso la porta e il quel momento il suo piede destro urtò contro il lume a petrolio che stava sul pavimento. Merda di donna, disse tra i denti Manolo il Gitano. Era sua moglie, che la sera prima aveva voluto lasciare il lume a petrolio accanto alla sua branda con il pretesto che le tenebre le davano gli incubi e che sognava i suoi morti. Con il lume acceso basso basso, diceva lei, i fantasmi dei suoi morti non avevano il coraggio di visitarla e la lasciavano dormire in pace.
– Che fa El Rey a quest’ora, anima in pena dei nostri morti andalusi?
La voce della moglie era pastosa e incerta come di chi si sta svegliando. Sua moglie gli parlava sempre in geringonça, un miscuglio di lingua dei gitani, di portoghese e di andaluso. E lo chiamava El Rey.
Rey di una bella merda, ebbe voglia di replicare Manolo, ma non disse niente. Rey di una bella merda, certo, una volta sì che era il Rey, quando i gitani erano onorati, quando la sua gente percorreva liberamente le pianure dell’Andalusia, quando fabbricavano monili di rame che vendevano nei villaggi e il suo popolo vestiva di nero con nobili cappelli di feltro, e il coltello non era un’arma di difesa in tasca, ma solo un gioiello d’onore fatto d’argento cesellato. Quelli sì, erano i tempi del Rey.

Sorrido, Damasceno Monteiro mi fa sorridere di piacere come Fabio Montale. Volevo andare a Marsiglia dopo aver letto la trilogia di Izzo, vorrei andare in Portogallo ora dopo aver letto questo. Bel segno, no?, quando un libro lascia questa scia di profumo e di piacere. Poi magari uno ci va pure a Marsiglia o a Oporto e facilmente non trova nulla di quello che aveva letto, però, secondo me, gli rimane lo stesso quel profumo nelle narici e non importa così tanto se i luoghi non assomigliano a quelli dei racconti, in fondo non si va per vedere i luoghi dei racconti, ma per il piacere di impregnarsi ancora più a fondo del sorriso dei racconti.

Due parole sul noir che per Tabucchi, come lo era per Izzo, non è lo scopo del libro (da qui la mia perplessità sulla definizione di noir mediterraneo affibbiata a Izzo). C’è la vicenda noir ed è appassionante, solo che non accelera mai, è priva degli scatti e delle svolte di un tipico libro noir. Qui tutto procede con i ritmi sonnacchiosi del Portogallo e di Manolo il Gitano, i ritmi mediterranei pur essendo sulla costa atlantica, e Tabucchi, come faceva Izzo proprio negli stessi anni, mescola un passo avanti nell’indagine con una cena succulenta, un indizio con un tramonto sul mare, un malfattore con la filosofia dell’avvocato Loton, il noir con la vita dei suoi personaggi e del suo Portogallo. Alla fine, il retrogusto che rimane è quello dolce e intenso di un vino liquoroso prodotto da uve fermentate sotto il sole feroce di una terra spoglia e sassosa affacciata sul blu profondissimo del mare infinito.

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