«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
I GIOCHI DELLA NOTTE
Stig Dagerman
Traduzione di C. Giorgetti Cima
Iperborea 1996
Non potevo lasciar perdere, non Stig Dagerman. Per questo, dopo l’infelicissima pensata che Iperborea ha avuto pubblicando quel raffazzuglio di Perché i bambini devono ubbidire?, dovevo leggere il vero Stig Dagerman con la sua vera voce e c’era un suo libro che non avevo ancora letto: I giochi della notte. Mi sono precipitato in biblioteca a prenderlo e chisseneimporta se ne avevo appena letto e commentato uno, chisseneimporta dico io, devo leggere Stig Dagerman per rimettere il mondo in equilibrio.
E quindi, ecco qui Stig Dagerman, il vero Stig Dagerman, non “l’autore di culto”, che non è mai stato né mai lo sarà, non il suicida che titilla la morbosità, che ce ne è già fin troppa in giro, ma Stig Dagerman, l’autore di I giochi nella notte. Una voce bassa e cupa.
I giochi della notte è un libro di racconti. I primi hanno come soggetto i bambini, un tema ricorrente nell’opera di Dagerman, poi il soggetto diventano gli adulti con le loro famiglie, i loro affetti e tutto quanto, con le loro vite.
Leggo subito un brano da Carne salata e cetrioli, il terzo racconto.
La maggior parte delle cose che era importante sapere ci arrivava quasi sempre in sussurri. Nei corridoi della scuola la paura affondava in noi i suoi artigli. Era lì che spesso si veniva mostrati a dito per via di qualche segreto sussurro di cui si poteva seguire il percorso di bocca in bocca senza mai riuscire a captarne il contenuto, ed era questa la stranezza. Di uno si mormorava che avesse la casa infestata dalle pulci, di un’altra che si fosse fatta la pipì addosso nel bel mezzo della lezione, ed era dovuta rimanere in classe all’intervallo per asciugarsi. Ma quel che riguardava me, naturalmente, non lo venivo mai a sapere. Per vie insondabili tutto ciò di cui si sarebbe dovuto tacere arrivava alle nostre orecchie. Un ragazzo di quarta aveva torturato degli animali, pare che avesse infilato un gatto in una gabbia piena di galline e il maestro era andato a casa sua a fargli la predica. Benché fosse appena in quarta , portava già i calzoni lunghi, e alla ricreazione se ne andava sempre in giro solo, alto e curvo in avanti, prendendo a calci i sassi, perché il giudice che c’era da qualche parte dentro di noi l’aveva condannato al bando perpetuo.
Questa è la voce di Stig Dagerman. La sua è una voce affranta e notturna, è la voce di chi il mondo lo vede oscurato da un’ombra perenne, ricoperto di una coltre di fuliggine; è la voce di chi sente gli uomini condannati senza colpa, ma solo per la loro natura. Stig Dagerman è la voce della disperazione senza lacrime, gelida, rassegnata. Per questo sceglie cosí spesso i bambini come protagonisti delle sue storie. Perché gli uomini sono creature deboli che si azzuffano per una vana speranza di vita, per l’illusione di essere qualcosa di più di miseri esseri minuti che vivono nella polvere per un tempo limitato. Allora, chi meglio dei bambini può raffigurare questa condizione di debolezza, di condanna per legge di natura, fin dal parto, fin dall’infanzia, fin dall’inizio, quando ancora non si ha una storia?
I bambini di Dagerman vivono un mondo ostile e freddo, non godono dell’infanzia ma, come gli adulti, cercano di sopravvivere, spesso nei sogni, cercando l’irrealtà oppure praticando fin da subito i vizi meschini dei genitori.
Nel primo racconto, quello che dà il titolo al libro, il protagonista è ancora un bambino che vive la fantasia di rendersi invisibile e andare alla bettola dove il padre si ubriaca e gioca a carte. Là lo libera dai compagni di gioco e di bevute per riportarlo a casa dalla madre che piange, ogni sera, per la condizione miserabile che vive. Lo riaccompagna con un tram e poco prima della fermata di discesa, il bambino, sempre nella sua immaginazione febbricitante, vola via per ritornare visibile nel suo letto, per attendere il rientro del padre. Ma il padre non rientra. Torna alla bettola e il bambino anche lui vi ritorna, di nuovo invisibile e di nuovo lo libera e lo riporta a casa, ma ancora il padre all’ultimo momento, appena lasciato libero torna nuovamente indietro. E cosí via. È un racconto scritto in modo piano, sottovoce, ma angosciante, tragico come pochi.
Nel racconto Lo sconosciuto, Dagerman parla dell’unione tra uomo e donna, della coppia, Il racconto inizia con una lunga scena grottesca nella quale l’uomo, mai nominato, non riesce più a riconoscere nulla dalle fotografie che guarda insieme alla donna, la moglie. Sono le fotografie della loro storia, istanti del tempo che hanno passato insieme. Non riconosce i luoghi, non riconosce lei e infine non riconosce neppure se stesso da quelle immagini. L’ombra, la fuliggine e il gelo di Dagerman scendono sulla coppia.
Leggo.
Mentre il mondo intero riposa avvolto in una notte immensa e profonda, la donna scivola intorno al suo letto e intorno all’uomo, fino a raggiungere il suo comodino. Le sembra che i battiti del suo cuore e il rumore liquido delle sue deglutizioni nervose avrebbero già dovuto svegliarlo da un pezzo, invece continua a dormire profondamente. Prende in mano l’oggetto che l’uomo ha portato dal suo studio. Non è un libro: le sue dita le dicono che è un martello, un martello pesante e che odora di nuovo. Stringendo spasmodicamente l’impugnatura, si china sull’uomo addormentato e gli scopre piano la testa, come quando si solleva il sudario dal volto di un morto per guardarlo un’ultima volta…
Non vi dico come finisce la scena, ma mi fermo ancora un poco sulle immagini che Dagerman evoca: la notte è «immensa e profonda», il buio senza confini, né orizzontali né verticali; il martello, l’arma, «odora di nuovo», si sente quasi quel tipico odore di ferro e colla degli attrezzi nuovi; e prima nel racconto con i bambini a scuola, le cose da sapere arrivano «in sussurri», sibilanti bisbiglii, segreti, di nuovo ombre, anfratti; i sussurri si possono seguire nel percorso «di bocca in bocca senza mai riuscire a captarne il contenuto», l’impotenza del bambino che può osservare ma non capire perché il segreto non viene mai rivelato ed é un segreto nefasto, il segreto che ci avvolge e ci ha condannato.
Questo è Stig Dagerman. Facile commentare con battute – Meglio non leggerlo se si è depressi, – Che allegria, e cose così. In realtà c’è una bellezza, io credo, anche nel dipingere a tinte cosí fosche. Forse è la bellezza dell’animo umano che si spezza, la bellezza della sconfitta o quella delle lacrime.
Forse è estetismo narcisista, però io non credo. Ma questo perché amo molto Stig Dagerman.
Averle strappato un sorriso, soffermandosi su un autore che non fa affatto sorridere, è una buona cosa. Non crede ? Porti pazienza per il mio incauto intervento.
Grazie per avere concesso questo spazio ad un autore dal dolore sconfinato, universale, inconsolabile. Di una severità senza attenuanti verso la nostra docile indifferenza a infliggerci il male. Di lancinante tenerezza con i bambini soli, trasparenti, invisibili.
Mi viene in mente Dostoevskij : “Però i bambini: come la mettiamo con i bambini?” insorge Ivan Karamazov “Se tutti devono soffrire per riscattare con le loro sofferenze l’armonia eterna, che cosa c’entrano i bambini? Non voglio l’armonia. Hanno stabilito un prezzo troppo alto per l’armonia.”
L’idea che io ‘conceda’ spazio a Stig Dagerman mi fa sorridere.
L’ho conosciuto molti anni fa, quando apparve per Iperborea e ho letto ogni sua cosa.
Il suo reportage da Dresda rimane uno dei pezzi più laceranti che abbia mai letto.
Il dolore che trasmette nei libri è inconsolabile sì, non lascia scampo.