«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
SPIEGAZIONE DEGLI UCCELLI
António Lobo Antunes
Traduzione di V. Martinetto
Feltrinelli 2010
Un grande spettacolo circense, fragoroso e crudele, quello che compone António Lobo Antunes con questo libro del 1981. Scritto in uno stile vorticoso e con una lingua ricchissima, Spiegazione degli uccelli è un libro tragico e grottesco, nel quale le frustate di ironia e di comicità strappano il sorriso del carnefice, il ghigno del sadico; il divertimento del lettore è lo stesso degli antichi spettatori del Colosseo che si beavano alla vista dei miserabili gettati in pasto alle fiere, o anche dei moderni spettatori accalcati sugli spalti della quotidianità di una società che con distacco cinico giudica e condanna e disprezza i perdenti, i deboli, quelli che per costituzione o sorte vengono sommersi.
Per questo è un libro crudele, perché infierisce sempre di più su un uomo ormai privo della capacità di difesa, un verme umano che striscia e che sadicamente viene torturato con lentezza in un crescendo sinfonico di voci e immagini che schizzano fuori dal vortice di parole che Lobo Antunes attizza con mano da negromante costringendovi a seguirlo, non solo ascoltando la storia di quella patetica eviscerazione, ma facendo scivolare anche la vostra di mano sul manico del coltello che si accanisce sul verme. Quando ve ne accorgerete sarà troppo tardi per dichiararvi non complici di Lobo Antunes, perché con orrore riconoscerete come vostra la mano che spinge la lama.
Spiegazione degli uccelli è per lunghi tratti un grande libro, scritto con la pennellata che solo il grande scrittore sa far volare sulla tela: frenetico, lampeggiante, suadente, sporco; è un libro sporco, di carni sudate e ancora più sporco di sentimenti andati a male, di ferocia della normalità della vita, della normalità delle persone, di normalità delle idee, di normalità delle famiglie, di normalità di una nazione e della Grande Storia brulicante di piccole storie di piccoli uomini e donne e figli e di piccolezze, tutto quel cumulo di piccolezze insignificanti che messe insieme alla fine formano quasi del tutto quel piccolo cono di feci fumanti che chiamiamo una vita.
Questo è quello che leggerete, se leggerete: la vicenda di Rui, delle sue due mogli, delle sue sorelle con i rispettivi mariti e dei genitori, il padre potente e la madre docile e servile; leggerete il finale della vicenda di Rui, perché questo libro è un unico ininterrotto finale che si conclude con la deposizione del piccolo cono fumante al centro della pista del circo, inquadrato dall’occhio di bue, di fronte agli spalti gremiti dagli spettatori-carnefici.
Sono quattro giornate, giovedì, venerdì, sabato e domenica. Le ultime di Rui, il verme umano incapace di prendersi responsabilità, incapace di reagire per dignità, incapace di parlare col coraggio della sincerità, incapace di apparire un uomo e non un verme. Incapace di sferrare frustate in risposta alla frustate, incapace di rovesciare velenoso disprezzo in risposta al disprezzo, incapace di deridere i vermi umani in risposta alla derisione di cui è oggetto.
Pensa Acqua piatta, cielo piatto, centinaia di uccelli, i pini che battono i denti nella nebbia, avvolti nello zucchero delle nubi. Non c’era anima viva, gli anziani inglesi erano scomparsi, l’edificio della locanda gli appariva schiacciato, insignificante, privo di bellezza. Cominciò a camminare a caso, in direzione della città; i piedi tracciavano solchi prolungati nella sabbia, un cane abbaiò in lontananza e i suoi latrati stracciavano impietosi la fragile carta velina del silenzio. Pensa Malgrado tutto ho passato momenti gradevoli in Rua Azedo Gneco, sorellina, finché non ho cominciato a sentirmi, come sempre, spaesato, smarrito dentro e fuori di me, senza patria né legami, disperatamente libero. Pensa Devo ritornare in una stanza ammobiliata (i mobili stereotipati, l’armadio con la tendina scorrevole, la proprietaria antipatica, intransigente, meticolosa) e ricominciare finché non mi sarà chiaro dov’è che qualcosa si è rotto, perché qualcosa, ne sono certo, capisci?, si è rotto. Uno stormo di passeri saltellava fra i canneti della riva, l’odore greve, ammuffito dell’estuario, ricordava quello di un’ascella da lavare: qualcosa si è rotto da qualche parte, la vita èruotata di novanta gradi senza preavviso, ed eccomi più che mai senza bussola. Pensa Meno male che non ho avuto figli da Marília, meno male che non lascio niente dietro di me. I comignoli di Aveiro fumigavano molto lentamente, dissolvendo le lor spire nere e opache nello zibellino delle nubi, e si distinguevano a fatica i profili sparsi delle case. La sorella, sfuocata e timidissima, faceva ciao nel filmino davanti a questa stessa acqua blu, adesso color mattone, vestita da estate, con le braccia nude e il tronco grassottello appoggiato alla ringhiera del balcone. Tucha aveva insistito anni perché lui comprasse una macchina fotografica (Fallo almeno per i bambini), ma l’idea dei volti immobili in un tempo congelato, via via più remoto, lo faceva rabbrividire sin dall’infanzia, l’idea di spiare da una piccola lente e vedere la persona che sorride dall’altra parte, lo aveva sempre fatto desistere: Mi piace la famiglia nel presente, Tucha, che si riempie di rughe, che si ingobbisce, che invecchia, che cammina verso la morte. Ma in realtà avevi paura che i nipoti notassero le tue stempiature, la tua pancia, che ti trovassero ridicolo o ti ignorassero, seppellendoti nella bara di una cornice, in un baule di vimini, in fondo a un cassetto, in un angolo buio della soffitta, finché tutta quella spazzatura inutile non venisse gettata, in scatole di cartone, nel ventre putrido dei camion municipali. Pensa Mia madre si starà svegliando a quest’ora, a meno che. Me ne frego.
La scrittura di Spiegazione degli uccelli pretende un rodaggio, l’inizio è difficoltoso, sembra confuso, Chi parla ora? Prima persona, terza persona, Marília, poi Tucha, le due mogli, poi entra il padre, volgare e tronfio, poi ancora la voce di Rui che parla di sé, e di nuovo il narratore cinico, passato e presente si mescolano insieme alle voci e alle prospettive. Lobo Antunes salta furiosamente da uno all’altra, in avanti, all’indietro, come una pallina da fipper nevrotica e tutto questo richiede appunto un rodaggio perché entri nell’orecchio il ritmo frastagliato e l’occhio si abitui a intercettare i salti nascosti dietro un punto, o un Pensa.
Poi Lobo Antunes accelera, sa che il suo lettore ha assorbito il ritmo del circo, scoppiettante e irreale, quindi può iniziare a trascinarlo con sé, a far sì che si perda nel vortice, sempre di più, fino a non distinguere più cosa sta afferrando, per condurlo all’epilogo quando è il suo stesso lettore a desiderare, a voler spingere il coltello nei visceri di Rui, nel gran finale dello spettacolo circense.
Pensa Fra poco torneremo alla locanda in auto, silenziosi, senza dire una parola (che cosa abbiao da dirci ormai?), così distanti l’uno dall’altra che se per sbaglio ci toccassimo non ci toccheremmo, estranei quanto Tucha e me, Marília, quando avevo premuto il pulsante dell’ascensore, io solo con la valigia sul pianerottolo, e lei era rimasta, per educazione, sulla porta, come se fossi un conoscente, pensa, con un vago sorriso di compassione acida sul volto, con la mano sulla maniglia e i bambini dietro a fissarmi con una curiosità perplessa. Dove va papà?, domandò il più piccolo e tutto il sangue mi si raggelò in corpo. Tucha rispose Ve lo dico dopo. L’inquilino del quarto piano controllava la posta giù in basso: il nostro solito buonasera neutro, la nostra gentile indifferenza. Pensa Se io, per esempio, lo abbracciassi in lacrime, cosa accadrebbe? E subito dopo, conosciuta, opaca, abituale, la strada. Posò l’uovo intonso sul piatto, si pulì le dita prendendo un tovagliolo di carta da un contenitore di plastica, appoggiò i gomiti sul tavolo e cercò dentro di sé un’aria indifferente, naturale, mentre mille aghi invisibili gli perforavano ostinatamente, incessantemente, sadicamente, le budella.
– Non mi ami più? – domandò con una vocina minuscola la cui esitazione lo tradiva.
– Non hai mai ammazzato una farfalla? – inquisì il padre, incredulo, avvicinando una scatola con una grata e qualcosa che palpitava al suo interno. – L’unica difficoltà, ragazzo, consiste nel non sciupare le ali.
Gli uomini tiravano le barche in secco, le rovesciavano a testa in giù, scomparivano sotto la veranda di legno del ristorante, con fasci di cime appesi alla spalla. Dove sono andati, pensa, dove andranno adesso? Diverse tonalità di grigio, diverse macchie sovrapposte e variegate si muovevano lentamente sull’estuario; il cielo assomigliava a un enorme, smisurato, concavo volto senza lineamenti, appoggiato alle fronde oscure dei pini.
– Se c’ê una cosa che non possiamo permettere, compagna – avvertì l’uomo che presiedeva, con una serietà inquietante -, è che i sentimenti personali si sovrappongano alla nostra dura lotta collettiva volta al trionfo definitivo del socialismo.
Salti, salti e ancora salti nella scrittura piroettante di Lobo Antunes. Un maestro di stile.
Spiegazione degli uccelli è un libro che mi ha ricordato spesso Grazie per il fuoco di Mario Benedetti; c’è un tratto comune nella descrizione del rapporto distruttivo tra un figlio debole e inerme e il padre potente e arrogante, come se Lobo Antunes e Benedetti abbiano avuto una tragedia grottesca comune da raccontare. E credo anche che ci siano degli echi di Onetti in Lobo Antunes, soprattutto nell’immagine delle rive sabbiose del fiume, come a Santa Maria, in quell’odore marcio, di ascella sudata, nello sguardo che coglie il frullare d’ali dei gabbiani accompagnato dallo stridore osceno delle loro grida e quella forma adagiata sulla spiaggia, che a ben vedere è un gatto morto scarnificato e dilavato. Non c’è mai un raggio di sole, ma un vortice continuo di contrasti che si fondono innaturali nell’argilla delle parole.
Ha solo un difetto questo libro che oltretutto si ripete: quello di eccedere nello slancio. Lobo Antunes talvolta si fa prendere la mano soprattuto dal grottesco col quale copre la storia di strati di crudeltà. Il personaggio del padre viene caricato di scene grossolane per disegnarne l’abnormità della miseria del grande capitano d’industria, che mi sono sembrate appesantire il ritmo narrativo e spezzarlo. Allo stesso modo il circo, che è lo scenario grandios nel quale la vicenda di Rui si muove sempre di più fino al gran finale, è appesantito da un grottesco insistente. Per il mio orecchio, eccessivo. Per il resto, un libro di quelli da sentire le farfalle nella pancia, come dice qualcuno, farfalle inquietanti, in questo caso, crocefisse dal padre osceno, poi mutate in cadaveri di uccelli, quegli uccelli per i quali Rui cerca da sempre una spiegazione.
Nota: Ringrazio il sempre ottimo Liber Docet per avermi suggerito António Lobo Antunes che non conoscevo. Una scoperta di quelle da sentire l’unghiata delle parole sulla spina dorsale.
sono venuta a rileggerti, ché sto rileggendo, beandomi, Spiegazione degli uccelli…
E torno a dirti Bravo!
grazie. mi hai fatto tornare voglia di leggere Lobo Antunes.
Ne sono lieta.
Il più bello tra i suoi libri che ho letto
questa tua recensione non l’avevo letta.
Tu non sai quanto mi si allarghi il cuore a leggere le parole che avevo in testa io.
Leggi Antunes con i miei occhi.
Bravo.
E non mi dire che non devo esagerare. Sono esagerata per natura. Altrimenti… come potrei amare, adorare, idolatrare Antunes?
No?
Mi arrendo e accetto a testa china
(grazie, sono contento)
Pure io…