«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
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Evgeny Morozov
Public Affairs 2013
Del nuovo saggio di Evgeny Morozov ne avevo già anticipato qualcosa nel commento a Who owns the future? di Jaron Lanier, soprattutto tratteggiando un parallelo tra i due autori, definendo Lanier un insider di quel mondo Internet-centrico che oggi è rappresentato dalla Silicon Valley e Morozov un outsider.
Riguardo al saggio di Morozov, vi servo subito la mia opinione: si tratta di un ottimo saggio, denso di spunti critici e ben argomentato grazie a una solida analisi storica e documentale. Decisamente migliore, contrariamente a quanto sostenuto da diverse recensioni che ho avuto modo di leggere, di quello di Lanier.
Mi soffermo ancora un poco sull’autore e in particolare sul personaggio di Morozov nell’ambito dell’attuale dibattito tra chi magnifica incondizionatamente la supposta “Rivoluzione Internet” e le miracolose possibilità delle tecnologie digitali e chi, invece, sta sempre più assumendo un atteggiamento critico per gli effetti che si possono constatare e per l’incessante, strabordante, quasi inquietante retorica totalitaria che accompagna la narrazione di “Internet”.
Ripeto quanto già detto nel commento a Who owns the future?: io non sono neutrale in questo dibattito, ma decisamente e convintamente critico nei confronti di quella che giudico una pericolosa, ma non nuova, frenesia e allucinazione tecnocratica, sapientemente sostenuta dalle grandi industrie dei media digitali e dell’information technology, oltre che da fette non piccole della politica. Per questo, concordo largamente con le tesi di Lanier, pur giudicando il suo saggio mediocre, e con quelle di Morozov, autore invece di un lavoro ottimo.
Rimanendo però su Morozov, la mia opinione di lui come protagonista di tale dibattito è che sia in atto un processo regressivo di infantilizzazione del dibattito stesso, soprattutto da parte dei media generalisti, sempre più superficiali e apparentemente incapaci di riportare (e forse, pure comprendere) anche soltanto il senso del dibattito, delle testate dell’euforia digitale (Wired in testa, poi la coda di seguaci e imitatori) e di molti blog, più o meno influenti, più o meno dichiaratamente legati al marketing delle aziende. Il dibattito sembra spesso assumere i contorni di una favoletta per bambini, A Christmas Carol, ad esempio con Morozov nella parte di Scrooge; il bieco, ma in fondo adorabile, Scrooge. Insomma, Morozov, superstar della critica a “Internet” (tra virgolette), analista sociopolitico serio e rigoroso, autore di saggi che con molte ragioni, e ben documentate, infilano la spada dell’analisi nei punti più oscuri e fetidi del teatro ipocrita e superficiale montato dai fanboy delle tecnologie digitali e dagli uffici marketing, finisce spesso per essere parte fondamentale dello stesso teatro, come lo è Scrooge della favola.
C’è un problema di visibilità della critica, che Morozov sta superando brillantemente, ma c’è anche un problema di omogeneizzazione della critica, che rischia di diventare strumentale alla credibilità dei criticati che, senza un Morozov che li attacca e riscuote attenzione, non potrebbero dilungarsi in fiumi di commenti e libercoli apparentemente ben motivati ma quasi sempre privi di alcuno spessore a fronte di un’analisi accurata, e continuerebbero sempre e soltanto con la pericolosa, per la loro stessa credibilità, retorica infantile e ridanciana. In realtà, nelle presunte controanalisi, le critiche di Morozov, o quelle delle quali Morozov si fa portavoce, non vengono praticamente mai affrontate direttamente, ma semplicemente aggirate con trucchi retorici, prolusioni esoteriche e vagonate di aneddoti che non dimostrano nulla, ma producono una barriera compatta di fumo.
Non è un caso che la gran parte delle fonti che Morozov cita, opere di studiosi attenti e rigorosi, siano pressoché sconosciute al grande pubblico e limitate a edizioni specialistiche mai tradotte dalla lingua originale, mentre Morozov viene invitato a parlare alle feste di Wired, tradotto su quotidiani popolari e citato, malamente, come “guru di Internet”. Non è un caso, ma un processo di omogeneizzazione ben noto e collaudato.
Entriamo nel saggio. La tesi portante di Morozov è la critica feroce al “soluzionismo” che ispira e guida il mondo delle tecnologie digitali. Cos’è il “soluzionismo”? La presunzione indiscussa che qualunque problema sociale, economico, politico abbia una soluzione, pressoché ideale, nell’applicazione di una tecnologia. Ma non solo. Il “soluzionismo” è anche la definizione di problemi che ben rispondono all’applicazione di tecnologie che altrimenti rimarrebbero senza scopo evidente.
Questo il quadro generale; in realtà la critica è molto più ampia e profonda.
Morozov è un analista sociale e politico, prima di tutto, non un tecnologo, ed è con gli strumenti propri dello scienziato sociale e politico che seziona la retorica e le strategie dell’industria e della cultura dei media digitali. E con quegli strumenti ne mette a nudo la povertà culturale, la miseria della capacità di analisi, l’ignoranza sconfortante e l’enorme, dilagante ipocrisia.
L’analisi che propone, quindi, non è tecnologica, ma sociale e politica. Di società e di politica (politica intesa nel senso proprio, non nell’accezione depravata che purtroppo ne abbiamo noi in Italia) si parla in questo libro e da questa angolazione, due sono i peccati capitali dell’attuale narrazione Internet-centrica: l’assenza di prospettiva storica e l’incapacità di comprensione della complessità dei sistemi sociali.
Sono due pecche del tutto evidenti, macroscopiche, e che si rivelano a moltissimi livelli, dall’impostazione dei corsi di informatica fino alla filosofia che ispira i commentatori più influenti della retorica tecnologica.
Le conseguenze sono altrettanto evidenti e, forse questo è l’aspetto più sconcertante, assai poco originali. Storicamente si sono succeduti molti periodi nei quali l’euforia tecnologica è montata sulle ali dell’entusiasmo ignorando proprio gli stessi due fattori chiave: prospettiva storica e comprensione della complessità. Da questo punto di vista, quindi, le grida giubilanti alla “Rivoluzione Internet” non sono altro che l’ennesima replica della stessa allucinazione che più e più volte si è ripetuta, con diverse tecnologie e in contesti differenti, ma accomunati tutti da periodi di crisi sociale ed economica, grande incertezza per gli equilibri geopolitici e l’affermarsi di voci fanatiche e teorie totalizzanti che promettevano mondi migliori, felicità dietro l’angolo e una semplicità tale nel raggiungerle da far apparire insensato qualunque dubbio. Questo è lo scenario di “Internet” ed è l’epoca che stiamo vivendo.
L’assenza di prospettiva storica si concretizza in concetti completamente privi di sostanza come “la Storia di Internet”, ovvero l’illusione che un insieme di macchine e tecnologie sparse messe insieme nell’arco di 30 o 40 anni al più abbiano maturato una propria “Storia”, cioè quanto a fatica riesce a fare un popolo o una cultura nell’arco di molti secoli, e che tale “Storia di Internet” possa determinare il corso naturale dell’evoluzione o delle reazioni della società. Questo atteggiamento culturale, apparentemente storicista è invece l’esatto opposto: antistorico e anticulturale, poiché nega che il fenomeno in analisi, “Internet” in questo caso, sia uno dei frutti di una storia sociale ed economica e uno dei frutti di una cultura e di condizioni che prescindono dall’oggetto “Internet” stesso. In altre parole confonde causa con effetto, pretendendo che “Internet” sia una causa, e quindi origine del senso e volano della Storia attuale, quando invece non ne è che un effetto, una conseguenza, il punto ad oggi terminale, ma in nessun modo determinante per il futuro.
Questo esempio della “Storia d Internet” lo introduco io, Morozov ne presenta molti altri e li argomenta.
Consideriamo l’altro fattore critico: l’incapacità di comprendere sistemi socioeconomici complessi, che, con tutta evidenza, non è scorrelato dalla negazione di una prospettiva storica.
I sistemi complessi, tra i quali i sistemi socioeconomici, e il concetto stesso di complessità sono l’oggetto di molti e dettagliati studi in discipline sia scientifiche che sociali. La complessità la trattano matematici, fisici, biologi, statistici, economisti, sociologi, urbanisti, filosofi, scienziati sociali e politici, psicologi e pure parecchi informatici. Quindi non è né un concetto vago e neppure esoterico. Si sa cosa significa e se ne conoscono molte caratteristiche, prima delle quali l’intrinseco e irriducibile grado di incertezza.
La complessità è un corpo plastico che può essere analizzato, gestito, contenuto, e pure ridotto, entro certi limiti, ma sempre è un corpo che non può essere fatto scomparire; se la si comprime troppo da una parte essa rientra improvvisamente da una direzione inattesa, se la si nasconde sotto al tombino della strada, prima o poi il selciato crolla, se la si ignora, si finisce in quei fossi pieni del “senno di poi” che mia nonna (e molte delle vostre) invocava spesso alzando un indice severo.
Ed è esattamente quello che la retorica Internet-centrica ha fatto e continua a fare: ipersemplifica il reale, sistematicamente riproduce scenari infantilmente lineari per l’applicazione delle proprie soluzioni e traduce ogni fenomeno e contesto socioeconomico in processi deterministici per i quali l’inserimento di una data tecnologia nella scatola della società produce inevitabilmente proprio la soluzone sperata, il mondo migliore, le persone più felici, e pure quell’assurdità semantica della “realtà aumentata”. È la retorica delle favolette per bambini più moraliste e dei librettini rosa per zitelle sospiranti sotto il casco della parrucchiera, né più né meno.
Chiamatela Maker, Innovazione, Rivoluzione Internet, Agenda Digitale, Gamification, Quantified-Self, Self-Tracking o qualunque altra delle infinite parole chiave che vengono partorite dal flusso incessante della retorica del marketing, ma se si scava in modo rigoroso sotto la crosta ricoperta di lustrini si trova sempre la favoletta intrisa di insulso moralismo o l’Harmony per cuori semplici e palpitanti, come in tutte le peggiori campagne pubblicitarie miranti a orientare subdolamente l’opinione pubblica.
Il problema è quindi di ricerca di senso attraverso l’analisi a fronte di una costruzione dialettica talmente impregnata di messaggi pubblicitari e di ipocrite ipersemplificazioni che hanno finito per intorbidire e guastare gran parte del significato dello sviluppo delle tecnologie e della loro applicazione nella società, a beneficio della società, occorre ricordare.
Ma non è storia nuova, come già ricordato.
Nella letteratura popolare americana, nella pubblicità e nei programmi televisivi, la «tipica massaia americana» viene presentata come una creatura energica e vivace, piena di buon senso e di risorse. Questo personaggio idealizzato, inventato dai manipolatori di simboli, ha scarsa somiglianza con la Signora Maggioranza di Warner, per lo meno per quanto riguarda la struttura emotiva. Secondo Burleigh Gardner, la Signora Maggioranza ha uno spiccato senso di responsabilità morale e costruisce tutta la sua vita attorno al focolare domestico. Ma d’altra parte vive in un mondo angusto, limitato, ed ha un sacro terrore del mondo esterno. Ha scarso interesse per le attività civiche e per le arti, si conforma volentieri a schemi già riconosciuti, e non sente alcun bisogno di originalità. Lloyd Warner ne traccia un profilo anche più preciso rivolgendosi ai tecnici pubblicitari in questi termini: «Questa donna-media, – egli dice – è il bersaglio che dovete colpire», e spiega che essa vive in un mondo estremamente ristretto. Lavora più delle altre donne, la sua vita segue un binario fisso, si trova a suo agio soltanto con le cose a cui è già abituata e tende a considerare tutto ciò che si trova al di fuori del suo piccolo universo come una minaccia o un pericolo. «Le risorse della sua immaginazione sono limitatissime», afferma Warner, le riesce difficile dare un’impronta originale a qualsiasi idea o concetto, e non ha alcuno spirito di avventura. E conclude: «La sua vita emotiva è estremamente limitata e repressa, la spontaneità è in lei quasi inesistente; sottostà supinamente a un severo codice morale e prova un profondo senso di colpa quando se ne scosti.»
Cosí scriveva Vance Packard nel 1956 nel celebre I persuasori occulti (e scommetto che in Mad Men, che molto si è ispirato a questo libro, non è mai stata citata questa descrizione). L’immagine cruda e squallida delle massaie americane che esce dalle parole dei pubblicitari va confrontata con quanto fece la pubblicità in quegli anni quando scoprì le tecniche di persuasione di massa e di orientamento dell’opinione pubblica: permise la grande diffusione degli elettrodomestici in tutte le case del ceto medio-basso con l’illusione dela modernità, dell’innovazione tecnologica e dell’innalzamento di status grazie all’esibizione di una cucina ricca e ben dotata di elettrodomestici. Erano utili? Certamente lo erano. Hanno migliorato la condizione femminile? È molto dubbio, anzi, forse l’hanno pure peggiorata. La tecnologia, gli elettrodomestici, poteva essere adottata seguendo un altro processo, senza strumenti di persuasione, senza “colpire come un bersaglio la donna-media”? Sì, le alternative c’erano.
Fatte le debite proporzioni, la retorica non era molto diversa da quella della “Rivoluzione Internet” e le dinamiche neppure.
Quando Jane McGonigal, citata da Morozov, famosa progettista di video giochi della Silicon Valley, guru della gamification e ospite acclamata di MeetTheMediaGuru a Milano (ridicolmente inconsistente, vista dalla platea), dice che i giochi, o meglio, l’applicazione di meccanismi tipici dei giochi come i premi, i bonus, i punti e la patina di ludicità possono “aiutare le persone comuni a raggiungere gli obiettivi più urgenti al mondo: curare il cancro, fermare il cambiamento climatico, diffondere la pace, porre fine alla povertà” (traduzione mia); l’eco dei pubblicitari descritti da Packard che pubblicamente magnificavano la vita delle massaie trasformata dall’acquisto degli elettrodomestici e privatamente le descrivevano come bestie miserevoli, non vi entra nell’orecchio in modo inquietante?
E questo è solo uno, forse il più ridicolizzato da Morozov, dei molti casi discussi.
Ora ponetevi la seguente domanda: chi sono oggi le nuove “tipiche massaie americane”? Di certo io non mi aspetto che la risposta sia che esse sono le pronipoti delle “tipiche massaie americane” degli anni ’50 ancora massaie nel 2013. Il pollaio delle “tipiche massaie americane” si è allargato a dismisura e Morozov – che non cita Vance Packard, ma avrebbe benissimo potuto farlo – punta il suo dito contro gli alfieri della retorica di Internet cosí come Vance Packard, sessant’anni fa, lo puntò contro i pubblicitari.
Morozov esamina molti aspetti del feticismo che accompagna “Internet”, quando lo stesso concetto di Internet è tutto tranne che chiaro (da qui le virgolette), ma di volta in volta rivoltato a piacere per sostenere l’automatismo dell’applicazione di una certa soluzione tecnologica e gli effetti sociali desiderati.
Ecco un altro aspetto della retorica ipersemplificatoria: la descrizione dei processi sociali come processi produttivi, sorta di supply-chain della manipolazione sociale. La realtà è disegnata a scatolette, ognuna con un input e un output, entra una soluzione tecnologica, esce la soluzione a un problema, o pseudoproblema, e tutte insieme, la catena di scatolette producono, linearmente, deterministicamente, indiscutibilmente la società migliore e i cittadini più felici.
Il livello di riduzione allo stereotipo è drammatico e ridicolo; operazione che solo chi è in malafede o completamente accecato dalla propria autosuggestione e ignorante della storia e delle caratteristiche della complessità dei sistemi socioeconomici può sostenere.
Tutto ciò somiglia ad altri casi ben noti. Ad esempio, nell’analisi del rischio è risaputo che il rischio è il prodotto di dinamiche complesse e per questo non può essere ricapitolato in un numero, una semplice misura. Tuttavia proprio le tecniche più utilizzate di analisi sono metodi ipersemplificati che lo caratterizzano con banali scale, spesso cromatiche, semafori e bandierine. Chiunque abbia conoscenza del significato di rischio sa che approcci del genere sono solo caricature di un’analisi, buoni solo per riempire una slide Powerpoint e fare un po’ di scena, al più. Eppure, molto spesso, tali soluzioni ingenue vengono prese letteralmente e applicate per decisioni strategiche, con effetti che non è raro che si rivelino disastrosi.
Lo stesso per il concetto di sicurezza, che spesso si pretende di riportare con un valore numerico. Il concetto di privacy è un altro di questi casi nei quali si constata come l’approccio antistorico e anticulturale tipico del peggior tecnocentrismo si afferma e si diffonde in modo acritico. O meglio, le critiche ci sono, ma scivolano come acqua su sasso di ruscello.
Qualcuno sgranerà gli occhi per la sorpresa e la cosa sarebbe da ridere se non fosse che è in base a questo tipo di retorica che il mondo viene oggi plasmato e il livello di accettazione di una tale raffigurazione fumettistica è ai livelli massimi, perfino nelle università e nei circoli intellettuali.
Molto spazio Morozov lo dedica all’attuale spasmodica enfasi sulla raccolta di dati, sia a fini di profilazione dei clienti che nel caso del Self-Tracking, ovvero la volontaria raccolta di qualsivoglia informazione personale a fini non ben precisati di documentazione, memoria o archiviazione. Quest’ultimo aspetto, documentazione di sé, ricostruzione “esatta” della propria memoria e archiviazione di ogni propria informazione personale apre scenari enormi per l’analisi critica. Quale rapporto si configura tra la memoria che una persona mantiene di sé e del proprio passato, filtrata, offuscata, rimaneggiata dalla coscienza personale e un archivio digitalizzato di tutto ciò che abbiamo detto, visto, scritto e, tra poco, pensato? I margini di manipolazione e di sconvolgimento sociale sono infiniti e la risposta che gli adepti del Self-Tracking offrono è soltanto una: la Verità. Il concetto infantile e tecnocratico di attestazione della Verità, immanente, indiscutibile, scolpita nella pietra dei bit, come traguardo umano, a fronte dell’incredibile ricchezza e multiforme complessità del rapporto tra sé e la propria memoria.
Open Data, Open Government sono altri temi che tocca Morozov, insieme al concetto di sistema aperto e dati trasparenti. Come al solito, il principio viene ridotto dalla retorica a una sua caricatura secondo la quale “open” implica indissolubilmente “migliore, più giusto”, quando invece in una miriade di situazioni gli effetti possono essere molto meno inequivocabili, se non del tutto opposti. Lo stesso Fabio Chiusi, nella sua peraltro ottima recensione afferma: “Una delle ipotesi più dirompenti del libro di Morozov è che in alcuni casi l’opacità abbia più valore per la collettività della trasparenza e dell’apertura (“openness”) che la classe politica e intellettuale di oggi sembrano assumere come dogmi indiscutibili”. A dire il vero, l’ipotesi non è affatto dirompente, ma nota da molti anni, anzi decenni; è noto che maggiori dati non necessariamente garantiscono maggiori informazioni e che maggiori informazioni non garantiscono maggiore efficienza o equità o conoscenza. Ad esempio, nel caso degli studi sulle euristiche per la teoria delle decisioni, un ricercatore celebre come Gerd Gigerenzer richiama spesso il principio del less-is-more, ovvero la correlazione a U rovesciata tra quantità di informazioni e accuratezza di una previsione in condizioni di incertezza. Considerazioni come quelle esposte da Morozov esistono da lungo tempo, ma l’armata della “Rivoluzione Internet” sembra del tutto impermeabile a quanto non si conforma con le proprie assunzioni adolescenziali.
È acuto Morozov a paragonare lo scenario attuale a molto di quanto accadeva in Unione Sovietica, dove una retorica simile, una patina di ludicità era stesa sui riti aziendalistici e un’ossessione per l’efficienza e l’ottimizzazione tecnocratica erano solo i sintomi di una crisi profondissima di senso e di sostenibilità dell’intero sistema.
Morozov, tuttavia, non compie il passo che, a mio parere, sarebbe stato ovvio al punto in cui è arrivato con l’analisi, e questa è la mia critica più forte al libro: indagare se la retorica e l’inconsistenza della narrazione Internet-centrica non sia il sintomo di una profonda crisi sistemica, invece che essere la dimostrazione di una volontà totalizzante dovuta a posizioni di forza.
Nel finale, Morozov indebolisce sensibilmente la sua analisi, sia portando alcuni degli esempi meno convincenti, il caso dei parchimetri intelligenti di Santa Monica e le prolunghe elettriche che protestano, ma soprattutto lasciandosi andare a un capitolo moraleggiante nel quale immagina un approccio differente all’evoluzione tecnologica; un approccio orientato a stimolare la riflessione dei cittadini, a creare una società che pondera e indaga analiticamente ponendosi delle domande sugli effetti della tecnologia per il proprio benessere e quello della collettività. È un’impostazione che risente di echi utopici, di buonismo intrinseco alla società e che, secondo me, devia dal resto dell’impostazione da lui seguita fino a quel punto, ovvero: richiamare la prospettiva storica e la complessità dei sistemi socioeconomici.
Morozov non si interroga sul possibile fallimento del soluzionismo e della retorica che condanna. Non pone mai la domanda: perché falliranno e quali saranno le conseguenze?, ma assume il caso che tale trend possa arrivare alle conseguenze estreme e ne mette in luce le profondissime contraddizioni con i presunti miracolistici benefici.
Invece, sarebbe stato utile, e forse sarà oggetto di un qualche altro saggio, considerare la fragilità di tale approccio, proprio nel solco della storia e degli effetti della complessità. Avrebbe potuto analizzare la debolezza intrinseca della “Rivoluzione Internet” dal punto di vista economico, visto che i fondamentali economici per la sostenibilità della gran parte delle megacorporation di “Internet” sono precari. Basti pensare al flop della quotazione di Facebook che ancora non ha un modello di business solido, basandosi sostanzialmente solo sulla vendita dei dati personali e su pubblicità dal ritorno quanto mai di dubbia concretezza, fino a Google, macchina divoratrice di pubblicità, ma appunto, solo e soltanto di quella e da quella completamente dipendente. Andava considerato anche lo stato di crisi che ha attraversato e in molti casi ancora attraversa il settore IT, nonostante le analisi gorgoglianti ottimismo che società come McKinsey o Gartner elargiscono a piene mani, ma che non sono altro che pubblicità. E andavano considerati effetti sociali come quelli descritti da Lanier sull’erosione costante di posti di lavoro causati proprio dalla “Rivoluzione Internet” che potrebbe in questo modo stare tagliando con le proprie mani il ramo sul quale è seduta, per usare una metafora colorita, e anche altri, ad esempio legati alla depressione culturale che le società occidentali stanno attraversando. Gli effetti della globalizzazione e dello spostamento dei pesi strategici, come la crescita di Cina, India e Brasile sono un altro fattore che potrebbe incidere pesantemente sulle dinamiche dell’industria di Internet. E cosí via, elementi per indagare un possibile stato di crisi sistemica, in linea proprio con il paragone dell’Unione Sovietica avanzato da Morozov, ci sono.
Non li ha approfonditi. Peccato. Sarà per un’altra volta.
In ogni caso un ottimo saggio.
Nota: un’eccellente recensione, che include sia Morozov che Lanier, è: How the internet is using us all – Michael Saler – The Times Literary Supplement
Nota#2: un commento di Julian Assange sul ruolo che Google starebbe provando ad assumere come manipolatore della futura geopolitica mondiale: The Banality of ‘Don’t be Evil’ – The New York Times – Julian Assange
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