«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
HEARTLAND
Anthony Cartwright
Traduzione di D. Petruccioli
2013 66THAND2ND
Bello questo Heartland (a scanso di equivoci è un’edizione italiana così come italiano è l’editore 66THAND2ND, che deve il nome dall’incrocio di due strade newyorkesi).
Il libro, del 2009, è una di quelle classiche storie delle periferie degradate inglesi, ‘realismo sociale’ dice il risvolto; libro ruvido e ironico, con le vite dei personaggi che si intrecciano nel tentativo di cavarsela in qualche modo, chi aggrappato agli ultimi rimasugli di speranza nel futuro, chi in perenne lotta coi frammenti del quotidiano da tenere precariamente insieme, chi ancora spinto dalle memorie del passato di illusioni, politiche, sportive, sentimentali.
L’atmosfera, tanto per intenderci, è quella di molti film di Ken Loach, con le piccole storie del proletariato urbano decadente e sempre più in affanno dalle quali emerge sia la complessa umanità delle periferie, sia lo spunto per illuminare le contraddizioni della società e le colpe della politica. In più rispetto a quel che fa normalmente Loach, Anthony Cartwright gioca molto sull’ironia, quasi mai esplicita, ma usata come coloritura delle contraddizioni e degli scontri, anche aspri o tragici, che sono narrati.
Giustamente il risvolto del libro richiama Alan Sillitoe tra gli autori ai quali si può associare Anthony Cartwright; a mio parere, più lo Sillitoe di Sabato sera, domenica mattina che quello della raccolta di racconti La solitudine del maratoneta. Cambia l’epoca: Sillitoe ambienta la storia negli anni Cinquanta con il protagonista, giovane operaio ventenne, stritolato tra i ritmi tayloristi della catena di montaggio e la bruma della periferia di Nottingham, che si ribella, a modo suo, tra sbronze epiche e amorazzi passeggeri; Cartwright costruisce la scena negli anni 2000, quando quel mondo industriale opprimente è maturato, scoppiato e ha lasciato macerie, dove il degrado delle periferie mescola il disagio economico dovuto al precariato, la difficile coesistenza tra gruppi etnici e religiosi, il crollo del welfare pubblico, la crisi della scuola e la disillusione per la politica, soprattutto il distacco del partito laburista dalla sua base tradizionale.
Entrambi però, Sillitoe e Cartwright, ritornano alla tradizione di vita inglese, quella dei pub con grandi bevute di birra in gruppo (di soli uomini, le donne, cameriere), canti e pacche sulle spalle, sbruffonate, risse, e tutto quel senso di cameratismo virile e genuino così tipico di molte storie inglesi che hanno le radici nelle bevute degli operai del venerdì, giorno di paga.
Di questa tradizione, comune a entrambi gli autori, c’è anche lo sport, il calcio in particolare, sport da periferia più del rugby. In Sillitoe c’è un bellissimo racconto, un poco grottesco ma in fondo triste e amaro, in Cartwright il calcio, anzi tre partite di calcio, sono la spina dorsale del romanzo, dal quale si dipartono a lisca di pesce le storie e i personaggi.
Tre partite, appunto.
Inghilterra – Argentina dei mondiali nippo-coreani del 2002, il cui svolgimento dà i tempi al romanzo. Letteralmente intendo, visto che è diviso in tre parti: Primo tempo, Secondo tempo e Risultato.
La combriccola è al pub e grida, strepita, palpita, beve e riscalda l’umanità dei rapporti sociali incrinati della vita agra del luogo, resi ancor più rugginosi dalla vigilia delle elezioni politiche. Il feudo tradizionale del Labour è minacciato dalla marea montante del British National Party, il partito razzista, xenofobo e nazionalista. La tradizionale appartenenza e delega politica sembrano essersi sgretolate sotto i colpi della crisi economica e sociale, si allargano le zone etnicamente omogenee e segregate, impenetrabili i ghetti degli immigrati musulmani, e la grigia, tranquilla, paternalistica amministrazione laburista non trova più l’appiglio sociale, sfidata dall’aggressività intollerante del partito di destra.
Nel pub, davanti alle immagini della partita, col tifo dei mondiali di calcio, le faglie apertesi tra generazioni, tra parenti, tra persone che da una vita si frequentano sembrano smussarsi, non ricomporsi, ma almeno perdere gli spigoli taglienti.
La seconda partita è tra le due squadrette cittadine, il campionato è quello degli amatori, ma le due squadre sono emblematiche: la prima è il Cinderheat Sunday Football Club – Cinderheat è il nome della cittadina nelle West Midlands dove si svolge la storia – sostenuta dal British National Party, tutti i giocatori inglesi e bianchi, non tutti di destra, molti della combriccola del pub, incluso il protagonista del romanzo, Rob, trentenne ex-calciatore di presunto talento sfiorito in qualche apparizione sulla panchina dell’Aston Villa, squadra della Premier League; la seconda è il Muslim Community Football Club, squadra locale della comunità musulmana.
La tensione prepartita è alta, si temono scontri o risse, atti di violenza teppistica, la polizia occhieggia, l’orgoglio è alle stelle per la sfida che supera i confini dell’evento sportivo, ma assume i contorni dello scontro di civiltà: la difesa di quella tradizionale, seppur solcata da fratture insanabili, e l’onda montante degli immigrati. Ma ancora, l’agonismo, la passione sportiva, la sfida calcistica faranno da catalizzatore per un’umanità imbrigliata dal degrado e pur non ricomponendo alcuna frattura o sommovimento sociale, saranno fonte di sorprese.
Infine la terza partita, quella più sfumata, perché nella memoria del protagonista Rob che ripensa al padre, a sua volta calciatore ma molto più talentuoso del figlio. Una partita immaginaria giocata negli anni Cinquanta tra la squadra inglese dei Lupi e quella ungherese del Honvéd con i mitici calciatori ungheresi: Puskás, Kocsis e Czabor. Una partita dei tempi epici, con fango paludoso e grinta ringhiante.
Ecco, questa è la spina dorsale di Heartland, i frammenti che si susseguono di partite, azioni, immagini, sgroppate, calcioni, gol e pestoni. Cartwright usa questi spezzoni come un rullo che avvolge e tanto più lo avvolge, tanto più passa il tempo, non solo quello di gioco, ma anche il tempo delle storie che si innestano nel libro, quelle storie che sono, in realtà, l’anima del libro, sociale, politica, umana, scorticata ma ironica. Il tempo di gioco trascina con sé tutte le vicende umane.
La storia di Rob è la principale, che da calciatore fallito è ora insegnante di sostegno con adolescenti quattordici-quindicenni analfabeti, ragazzini inglesi, di madrelingua inglese, ma cosí sbandati o alla deriva per lo sfascio famigliare e la cancellazione del welfare, da non essere in grado di leggere più di poche parole. E ancora Rob e la sua vita sentimentale andata a rotoli e, come capita a molti, tenta timidamente, spaurito di trovare una seconda opportunità. Di nuovo e sempre umanità, il segno del libro è l’umanità, quella esteriorizzata e quella interiorizzata, il sè da solo e il sé con gli altri, il privato e il sociale che si mescolano, come è inevitabile che sia.
E poi Stacey, madre di Andre, uno dei ragazzini analfabeti che verrà accoltellato in una rissa tra adolescenti. La violenza sottotraccia che esplode tra i giovanissimi, un fenomeno che possiamo osservare anche girando per le nostre città, non occorre andare nelle West Midlands. Stacey come una delle molte donne a cui la sorte non ha regalato molto, anzi, non ha regalato quasi niente è un’anima che deve sopravvivere. Stacey, donna tipica da film di Ken Loach.
Poi tutti gli altri, i protagonisti musulmani, integrati e occidentalizzati o preda di fondamentalismi a fondo perduto, i razzisti del British National Party, l’insegnante collega di Rob, colta, di origini pakistane, di ritorno da Londra, fragile e ripiegata.
Heartland, anche per lo stile nel quale è scritto, uno sciame di frammenti di vite e partite che si susseguono frenetici, dipinge una scena corale, è un vociare che ronza confuso, un agitarsi di figure, ironiche e amare, violente e delicate, immerse in quel turbinio di polvere che tutto ingrigisce che è lo scorrere del tempo.
Bello, un libro caldo di storie e personaggi, con un retropensiero politico e sociale neanche troppo velato, per nulla amaro o deprimente, come ho letto da qualcuno, per niente riassumibile con le sole partite di calcio, come ho pure letto da qualcun altro.
Io penso che Alan Sillitoe e Ken Loach, più che De Lillo, gli metterebbero volentieri una mano sulla spalla a Cartwright e insieme andrebbero a sbronzarsi un po’ in un pub con tutta la combriccola dei loro personaggi.