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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

L’isola appassionata – Bonaventura Tecchi

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L’ISOLA APPASSIONATA
Bonaventura Tecchi
Einaudi 1961 

[Libro disperso]

Torno a Bonaventura Tecchi del quale avevo letto, e molto apprezzato, Gli egoisti e ci torno per due motivi: il primo è che era proprio una citazione a questo libro, L’isola appassionata, che mi aveva fatto scoprire Tecchi, poi avevo deviato sull’altro; il secondo motivo, invece, è il commento illuminante che ho ricevuto da Maria Consiglia Pompei (lo trovate in coda a Gli egoisti) che mi ha fornito una chiave di lettura per me nuova della prosa educata e lieve di Tecchi, quasi ottocentesca, ossia che fosse una scelta stilistica ben precisa e controcorrente.

Non potevo quindi non leggere subito L’isola appassionata che attendeva confusa nella pila.

Anche questo è un libro disperso; l’ultima sua traccia è l’edizione economica di Einaudi del 1973 e poi pare più nulla e, come per Gli egoisti, ma a questo punto immagino come per tutto ciò che scrisse Tecchi, è davvero un gran peccato, perché Tecchi è vero che ha una voce e delle immagini antiche, ma anche talmente calda e confortante e talvolta sorprendente, come quella di un anziano saggio che molte ne ha viste e molte ne sa, che ha l’effetto di un richiamo alla memoria che ci precede e a quel senso di umanità che sembra sempre più smarrirsi.

Oltre a questo, L’isola appassionata è un libro bellissimo.

Tecchi, che fu germanista, docente universitario e direttore del Gabinetto Vieusseux, allo scoppio della seconda guerra mondiale venne richiamato alle armi e destinato in Sicilia, a Palermo, con un compito particolare: ufficiale della censura militare. In sostanza, doveva leggere e censurare la corrispondenza, la quale, visti gli eventi era, quella in partenza, tipicamente scritta dalle donne rimaste a Palermo, mogli, madri, fidanzate, amanti, e quella in arrivo dagli uomini nell’esercito.

Da questa esperienza, rielaborata successivamente, nasce L’isola appassionata, un libro intimo e personale, appassionato esso stesso, solare, traboccante di amore per la terra di Sicilia, che Tecchi non conosceva e della quale diffidava, così come accolse con sdegno l’incarico di censore. Invece, ciò gli permise di scoprire la Sicilia con i suoi colori, gli scorci, i palazzi, la storia e le persone. Ma non solo la terra di Sicilia fu la scoperta che fece. Protagoniste delle storie del libro sono le donne, che Tecchi ritrae con la meraviglia negli occhi, l’incanto per la bellezza, la passione, la forza e la dignità di quelle siciliane, raffinate o popolane, colte o analfabete, delle quali ebbe modo di leggere le missive.

È un inno alle donne questo libro, fatto da un uomo i cui occhi, per costrizione militare, hanno sbirciato nelle loro parole più intime, nei sentimenti meno confessati, nel dolore, nella speranza, nell’angoscia e nell’amore per quegli uomini lontani.

È un libro che riconcilia col genere umano, riconcilia i generi del genere umano.

La sera Anna Rosa spiccò la lettera, già incominciata, dal busto: i bordi dei fogli conservavano ancora i segni dell’ago e, qua e là, una velatura appena appena visibile del calore del suo petto.

Io sono rimasto incantato leggendo questa descrizione, lo sguardo improvvisamente fisso, sguardo che non guardava più le parole, ma si era sfumato nell’immagine della «velatura appena appena visibile del calore del suo petto» impressa su quella lettera, non semplicemente nascosta nel busto, ma anche, Tecchi non lo dice, ma lo lascia intendere, volutamente conservata a contatto dei seni per imprimervi quella carezza talmente delicata e così impudica da risultare, a mio modo di vedere, una delle scene più sensuali mai scritte.
Per me, questa descrizione è un capolavoro di stile e di eleganza che quasi mai si legge ancora. Ottimo motivo per leggere Tecchi, quindi.

Il libro è composto di racconti e segue un filo logico e sentimentale che lo stesso Tecchi introduce in prima persona ed ha a che fare con Goethe (il germanista che era riemerge).

[…] Il 13 aprile 1787 Wolfango Goethe scriveva da Palermo nel suo diario: «Senza la Sicilia l’Italia non forma un quadro nell’anima, qui soltanto è la chiave per capire il tutto.»
[…] Lessi queste parole mentre ero militare nel luglio 1940, cioè nei primi mesi della presente guerra. I casi della vita mi avevano condotto spesso in paesi del nord, mai ancora in Sicilia. Vi giunsi anzi, debbo confessarlo, a malincuore e quasi rabbioso, con parecchi pregiudizi in testa.
Ebbene, i mesi che passai a Palermo, in Sicilia, furono tra i più belli della mia vita. Un fervore inesausto di impressioni, un’ebbrezza leggera del sangue, un incanto continuato degli occhi e della mente.
[…] Rimaneva però sempre da spiegare la parola di Goethe: come mai la Sicilia fosse «la chiave» dell’Italia.
Che si dovesse intendere nel senso che la bellezza splendente dell’isola incoronava la bellezza di tutta l’Italia, mi sembrava troppo poco e troppo semplice. Ci doveva essere qualche altro significato. E lo cercavo nel libro di Goethe, non lo trovavo. Quella frase famosa, come spesso succede in Goethe, appariva quasi isolata, in una pagina in cui non si faceva che parlare, oggettivamente e quasi seccamente, di osservazioni sui minerali della Sicilia e poi sul clima e perfino sui cibi siciliani.

Questo il dilemma che spinse Tecchi, in quell’estate del 1940, «quasi rabbioso» per la destinazione e «con parecchi pregiudizi in testa» ad acuire lo sguardo e lasciar vibrare i sensi. E trovò la risposta che cercava in forma di due rivelazioni.
Ecco la prima.

Chi non ha visto, specie verso sera, il colore dell’aria a Valdesi, il colore, la vibrazione, la luce dell’aria sulle pendici di Monte Pellegrino, che in quella parte sono tutte rosse, con l’argento deglo olivi nella piana sottostante, il grigio-perla del mare, il cinereo di Monte Gallo dalla parte opposta, non ha visto, io credo, la luce più bella del mondo.
[…] Era la luce del nostro mondo mediterraneo, classico; la luce che gli [a Goethe] rivelava esistenti, viventi, non meno misteriosamente che dentro di noi, le cose fuori di noi, come «oggetto», anzi come «dono» di quella «più alta forza – come già aveva detto a Weimar – i cui pensieri non sono i nostri pensieri». La rivelazione insomma dell’equilibrio fra l’interno e l’esterno: rivelazione tipicamente italiana.

Ma questa prima rivelazione non basta a spiegare la frase di Goethe che Tecchi continuava a ripetersi, forse perché ancora troppo estetica, troppo naturalistica, ancora priva dell’umanità che vive giorno per giorno. E infatti, prosegue.

Ma c’era in quei giorni dentro di me un’altra scoperta della Sicilia. E questa me la doveva dare l’umile mansione a cui ero preposto ero costretto in quei giorni a leggere, per compito d’ufficio, grande copia delle lettere che dalla Sicilia partivano e alla Sicilia arrivavano.
[…] Quante volte, leggendo, mi si appannarono gli occhi di ammirazione e di commozione. L’isola mi si rivelava quale era, quale in fondo l’avevo vagamente presentita: miniera degli affetti umani.
[…] nelle lettere siciliane, specie della gente del popolo, c’era una cosa che io non credevo esistesse piú al mondo o esistesse soltanto camuffata, rammodernata, con le rabberciature e le tinture della moda. Mai, in vita mia, avevo letto lettere d’amore cosí belle. Nell’isola c’era, viveva ancora l’amore.
[…] Ma quel che mi sorprendeva di piú era che accanto alle espressioni appassionate («amore infoconato» diceva la lettera di una ragazza del popolo, e un bersagliere: «questo mio cuore tutto di fuoco»), c’erano anche i toni della delicatezza, della gentilezza… Quelle donne innamorate, quella sognante malinconia, quegli affetti «ideali», quelle Mena e quelle Rosalia che leggemmo in Verga, descritte con sí acuto senso di poesia ma alle quali, come creature in carne ed ossa, avevamo creduto sí e no, erano «vere», esistevano veramente.
[…] Cosí l’isola mi apparve nel suo duplice aspetto: isola della luce, miniera di affetti famigliari. E in tal senso mi sembrò fosse possibile interpretare la parola di Goethe, che affermava la Sicilia «chiave» per intendere l’Italia.

In pratica vi ho riscritto quasi l’intera introduzione che Tecchi pose prima dei racconti, ma ne è valsa la pena, perché è premettendo le sue parole che si riescono a leggere quei racconti parto della fantasia del narratore, con le Mene e le Rosalie che sembra di sentire respirare e gioire o disperarsi per davvero.

Ed è anche per questo che io, uomo del nord Italia, uomo a suo agio tra nebbie e climi uggiosi, di moderna cultura e abituato al color vetrocemento, mi volto verso sud, cerco di lasciar scorrere lo sguardo fino Monte Pellegrino e il mare color grigio-perla e tra le Mena e le Rosalia e provo un desiderio fortissimo di vedere quella luce dell’aria che non ho mai visto e di avvertire quella miniera di affetti che mi sembrano scomparsi per sempre.

I racconti sono molto belli, alcuni bellissimi. Tentazioni, Il padre, Il paese delle donne sono alcuni dei titoli che aprono delle piccole magie, lo ripeto, mai stucchevoli, mai nostalgici, mai tradizionali. La bravura di Tecchi come scrittore sta proprio nel coniugare uno stile antico con ritratti che sono modernissimi, quasi anticonformisti. Le donne siciliane di Tecchi vivono con gli usi tradizionali, nel ristretto mondo paesano, arcaico, rigidamente regolato, maschilista della Sicilia antiquata dei latifondi baronali. Eppure, Tecchi le fa schiudere come fiori, come quelle campanelle rampicanti che lo emozionarono ancor più del duomo barocco, delicate ma dotate di una forza incrollabile, piene di vivacità, intraprendenza, autonomia e di grande, grandissima dignità e bellezza.

Chiudo ancora con la meravigliosa Anna Rosa.

«Non c’è niente di male», ripeté a se stessa durante gli ultimi preparativi, e il cervello quasi le doleva per aver pensato e immaginato troppo. «Non c’è nulla di male», si disse, mentre prendeva il biglietto alla stazione, e s’era ben assicurata che quello era il treno che fermava a Cefalú. E anche quando venne il tumulto dell’arrivo, della gente che scendeva e che saliva, dei bagagli, dei posti liberi o occupati, anche allora Anna Rosa, ritta davanti al suo fagotto, disse forte a se stessa: «Non c’è niente di male».
Ma quando il treno si mosse, sentí con una certezza assoluta, indubitabile, che tutto quel che il suo povero cervello aveva combinato fin allora, non era niente, era bugia; e che tutto sarebbe avvenuto come aveva visto nel sogno.

3 commenti su “L’isola appassionata – Bonaventura Tecchi

  1. Maurizio Mancini
    4 novembre 2016

    grazie al mio amico libraio fiorentino.

  2. Maurizio Mancini
    4 novembre 2016

    Trovato!
    me lo sono fatto spedire da una libreria di Salerno.

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Questa voce è stata pubblicata il 15 giugno 2013 da in Autori, Editori, Einaudi, Tecchi, Bonaventura con tag , , , , .

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