«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
MOLLOY
Samuel Beckett
Traduzione di A. Tagliaferri
Einaudi 2012
Libro del 1951, ripubblicato da Einaudi nel 2012 con la dicitura aggiunta di “Edizione speciale”, che non ho idea di cosa significhi visto che ho letto l’edizione precedente del 2005 ma sospetto non voglia dire nulla di particolarmente importante, Molloy è, senza tanti voli circolari prima di scendere in picchiata, un capolavoro di letteratura pirotecnica, di fantasia stralunata, di sottile e ghignante gioco delle citazioni, di irrisione delle convenzioni e un’opera funambolica parto di quel genio allampanato di Samuel Beckett.
Un libro straordinario per inverosimiglianza della storia e farneticante poesia, da molti paragonato all’Ulisse di Joyce seppur in forma parodistica, paragone non privo di ragioni, eppure a me ha ricordato violentemente Witold Gombrovicz di Pornografia e di Ferdydurke, altro genio funambolico e stralunato talmente bravo da permettersi di stravolgere i canoni letterari con un sorriso di irrisione.
Lo stesso fa Samuel Beckett: sovverte il canone romanzesco, lo stile inarrivabile del suo maestro Joyce, gli stessi caposaldi intellettuali della cultura del suo tempo e infine, per non farsi mancare nulla, pure le regole di buona creanza della società irlandese (anche se già Joyce le aveva affondate una volta per tutte). Il risultato è Molloy, primo romanzo di una trilogia (i successivi sono Malone muore e L’Innominabile).
Subito un pezzo dall’inizio: ritmo cianotico, stile infantile, quasi demente, immagini sordide, ossessivo e ipnotico, nessuna premessa, anzi, al contrario, un risucchio vorace nell’incomprensibile.
Sono nella camera di mia madre. Sono io a viverci ora. Non so come ci sono arrivato. Forse in un’ambulanza, certamente qualche veicolo. Mi hanno aiutato. Da solo non ci sarei arrivato. Quest’uomo che viene ogni settimana, è grazie a lui forse che sono qui. Lui dice di no. Mi dà un po’ di soldi e si porta via dei fogli. Tanti fogli, tanti soldi. Sì, ora lavoro, un po’ come una volta, solo che ora non so più lavorare. Ciò non ha importanza, sembra. Io ora vorrei parlare delle cose che mi restano, accomiatarmi, finir di morire. Loro non vogliono. Sì, sono più di uno, sembra. Ma a venire è sempre lo stesso. Lo farà più tardi, dice. Bene. Di volontà, come vedete, non ne ho più molta. Quando viene a cercare i fogli nuovi, riporta quelli della settimana precedente. Recano dei segni che non comprendo. D’altronde non li rileggono. Quando non ho fatto niente non mi dà niente, mi sgrida. Però io non lavoro per i soldi. Per cosa allora? Non lo so. Francamente, non so gran che. La morte di mia madre, per esempio. Era morta al mio arrivo? O è morta solo più tardi? Voglio dire morta da sotterrare. Non so. Forse non l’hanno ancora sotterrata. Comunque sia, sono io ad avere la sua camera. Dormo nel suo letto. La faccio nel suo vaso. Ho preso il suo posto. Devo assomigliarle sempre di più. Mi manca solo un figlio.
Cosí si apre il libro, con la voce è di Molloy; un pazzo si direbbe, un demente che pronunciando frammenti di frasi tratteggia un quadro incomprensibile. Chi è? Cosa fa? Come ci è arrivato a casa di sua madre? È morta? Come? Scrive, cosa scrive? Chi è quell’uomo che prende i fogli e li riporta dandogli del denaro?
Molte domande, vagamente disgustose, la storia ci darà le risposte. Cosí pensiamo. E invece non ci darà nessuna risposta, anzi, la storia è l’attesa di quelle risposte, è un viaggio stralunato verso quelle risposte, ma che non si conclude. Si spezza. Come si spezza? Si spezza il racconto.
È diviso in due parti. Nella prima c’è il viaggio di Molloy verso casa della madre.
Molloy è un vecchio rognoso, lercio, farneticante e con una gamba zoppa che, spingendo una bicicletta senza freni, procede in una terra in apparenza smisurata, fatta di città, di radure e di boschi, in realtà, ci viene detto essere minuscola, non esce mai dai confini della campagna attorno al borgo nel quale ha sempre vissuto, eppure cosí non sembra, quel che sembra è un’odissea, un trascinarsi verso una casa squassato da forze superiori, deviato dal caso, preda degli incontri e degli episodi.
Incontra una donna, la incontra avendogli investito e ucciso il cagnolino che stava portando dal veterinario per farlo abbattere, e questa lo accoglie in casa. Ricorda l’episodio di Circe dell’Odissea, ecco i legami con l’epica e con la versione sordida e claustrofobica di Joyce.
E non smetteva mai di parlare, mentre io non aprivo bocca che per domandare, di quando in quando, e sempre più debolmente, in che città eravamo. E infine sicura del fatto suo, o semplicemente consapevole d’aver fatto quanto poteva, e che insistere ancora non sarebbe servito a niente, si alzò e se n’andò non so dove, perché io restai là dov’ero, malvolentieri, ma non troppo. Perché in me ci sono sempre stati due pagliacci, tra gli altri, quello che chiede solo di restare dove si trova e quello che s’immagina che più lontano starebbe un po’ meno peggio. Per cui in questo campo ero sempre servito, per cosí dire, qualunque cosa facessi. E compiacevo a turno questi tristi compari, per permettere loro di comprendere il loro errore. E quella notte non c’erano questioni di luna, né d’altra luce, ma fu una notte d’ascolto, una notte dedicata agli infimi brusii e sospiri che agitano di notte i giardinetti privati, di piacere, prodotti dal timido sabba delle foglie e dei petali e dell’aria che vi circola in modo diverso che altrove, dove c’è minor costrizione, e in modo diverso che durante il giorno, che consente di essere vigili e rigorosi, e prodotti anche da qualcos’altro che non è chiaro, non essendo né l’aria né il ciò che essa muove.
Apnea, carenza d’ossigeno, colore cianotico, aria, aria… immettere aria nei polmoni.
Si chiude la prima parte lasciando Molloy a rotolarsi in un fosso, le gambe ormai entrambe irrigidite, all’orizzonte le luci di una città, un borgo, forse dove vive la madre, forse no, in un viaggio eterno ma forse brevissimo, che si conclude ma non sappiamo come, né quando, un ritorno dalla madre odiata, vecchia lercia e insensibile, prendendone il posto.
Si apre la seconda parte.
È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Sono calmo. Tutto dorme. Tuttavia mi alzo e vado alla mia scrivania.
Non è più Molloy, evidentemente, Molloy non si può alzare e tanto meno ha una scrivania e neppure parlerebbe in modo cosí pacato.
La seconda parte si chiude.
Allora rientrai in casa e scrissi. È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva affatto.
La seconda parte si svolge tra queste due parentesi, è un racconto ed è falso, ma non sappiamo in che modo e quanto lo sia e pure cosa sia falso e cosa racconti realmente.
Il protagonista si chiama Jacques Moran, un uomo borghese che pare condurre una vita placida e soporifera da benestante di paese, con un figlio che educa con modi severi. Avviene un episodio strano. Compare un individuo, tal Gaber, un giorno, mentre Moran in giardino si appresta a recarsi a messa. Gli reca un ordine, un incarico, di raggiungere Molloy. Pare quindi essere una sorta di detective questo Moran, ma detective per conto di chi? Di un’organizzazione, sembra, un’organizzazione segreta forse, una setta, una mafia, una burocrazia, un’azienda? E di nuovo, si apre il grande incerto, la furoreggiante parodia, un altro viaggio assurdo e strampalato questa volta di Moran col figlio alla ricerca di Molloy.
I due partono, Moran è un aguzzino nei confronti del figlio adolescente e passo dopo passo sembra piombare in uno stato di demenza, sproloquia, si confonde, si perde, si abbruttisce, inizia ad avere dolori a una gamba, questa si irrigidisce, incarica il figlio di recarsi in paese per acquistare una bicicletta, una bicicletta da ragazzo ma con un robusto portapacchi, vuole farsi trasportare dal figlio. Accade un altro episodio topico: l’incontro, nel bosco, con uno sconosciuto.
Ma questo non era niente in confronto al viso, che assomigliava vagamente, mi dispiace dirlo, al mio, meno sul fine, naturalmente, stessi baffetti mal riusciti, stessi occhi da furetto, stessa parafimosi del naso, e una bocca minuscola e rossa, come congestionata a forza di voler cacare la lingua.
Litigano. Lo uccide. Non sappiamo come. Ma succede qualcos’altro.
Mi chinai su di lui. Nel farlo capii chela gamba si piegava di nuovo. Lui non mi assomigliava più. […] Aveva caviglie sottili e ossute come le mie.
Nasconde il corpo. Si accorge di aver perso le chiavi. Le cerca. Lo fa buttandosi in terra e rotolandosi, come faceva Molloy al termine del viaggio, quando entrambe le gambe erano paralizzate. Rimane solo, il figlio se ne va con la bicicletta. Perde la bicicletta, quindi, come Molloy. Procede nel bosco, come faceva Molloy. Comincia il discorso frastagliato, cianotico, da demente ormai. Come Molloy. Ricompare Gaber, il messaggero. Gli ordina di rientrare, la ricerca di Molloy è terminata.
Moran, solo, riprende la strada di casa, ed è un’altra odissea del disfacimento.
Dovetti separarmi a malincuore anche delle mutande (due). Erano marcite a contatto delle mie incontinenze. Allora il fondo delle brache, presto corroso anch’esso, mi sfregava il solco, dal coccige fino all’attaccatura dello scroto. Cosa dovetti buttar via ancora? La camicia? Ah quella no. Ma l’indossavo spesso rovesciata e con davanti di dietro. Vediamo. Avevo quattro modi di mettermi la camicia. Diritta col davanti davanti., rovesciata col davanti davanti, diritta col davanti di dietro, rovesciata col davanti di dietro. E il quinto giorno cominciavo da capo.
Torna a casa da dove era partito. Non c’è più nulla, tutto è in rovina.
Non sopporterò più di essere un uomo, non ci proverò più.
cosí dice, poi scrive e confessa il falso.
Il libro è strepitosamente bello e strepitosamente fantastico, Beckett apre porte in continuazione senza richiuderne nessuna. Come interpretarlo? In mille o in nessun modo, ogni spiegazione è possibile. Ogni metafora, parodia, illusione e ammiccamento è accettabile.
Io lo interpreto in modo circolare. L’inizio è la fine, la fine è l’inizio, la prima parte è il racconto, la seconda è la storia. La prima parte è vera, la seconda è falsa. Moran è Molloy, diventa Molloy, Molloy è Moran, dopo che Moran ha trovato Molloy ed aver ucciso se stesso.
Grande, grandissimo libro. In questo caso si deve assolutamente spendere il giudizio di ‘capolavoro’.
Le domande di natura teologica di Moran,elencate per numero,non solo sono geniali,ma hanno anche un effetto comico irresistibile.
Le domande di natura teologica elencate per numero non solo sono geniali,ma hanno anche una comicita’ irresistibile
alè, uno è andato e mi ha strippato letteralmente .
meno male che ne ho altri due da leggere.
ciao 2000
…buon viaggio con gli altri due
Finito oggi. Bellissimo. Grazie per avermi fatto conoscere questo libro. Grazie per questo blog: indirizzi le mie letture.
Grazie a te. Sono molto contento di averti fatto scoprire il Beckett narratore
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