«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
MALONE MUORE
Samuel Beckett
Traduzione di A. Tagliaferri
Einaudi 2011
Nuova edizione Einaudi, ‘nuova’ per modo di dire visto che è del 2011, di Malone muore, il secondo libro della celebre trilogia di Samuel Beckett, scomparsa dai cataloghi nella sua forma completa, dopo Molloy (in catalogo) e prima de L’innominabile (non più in catalogo). Io leggo la precedente edizione pubblicata da Mondadori nel 1970 su licenza Sugar, e non più disponibile, con la traduzione di Giacomo Falco. Aldo Tagliaferri è invece il traduttore per l’edizione Einaudi (che dovrebbe essere migliore), mentre nell’edizione Mondadori ne cura un’ottima prefazione alla trilogia.
In Malone muore ritorna il monologo senile rivolto a nessuno che apriva anche Molloy, il vaniloquio di un pazzo moribondo disteso su un letto fetido in una non ben identificata camera, forse di ospedale, forse di manicomio, forse di casa di riposo, chissà.
È Malone, il quale, appunto sta morendo, i piedi lo sono già defunti, il resto diventerà progressivamente carne morta, la testa per ultima. Come stava morendo Molloy, però, anch’egli con le gambe paralizzate, anch’egli disteso in un letto, a casa della madre, morta, non si sa come, quando, non si sa neppure come ci fosse arrivato Molloy in quel letto. Il racconto lo lascia rotolato in un fosso, alle porte della città, forse quella della madre, forse un’altra, non si sa. Poi comincia la storia di Moran, circolare, che finisce sembrando tuffarsi in Molloy, personaggi che si rincorrono, in questo caso non ‘si rincorrono’ letteralmente ma si rintracciano avanzando penosamente e ridicolmente.
In Malone muore Beckett sembra riprendere non la storia di Molloy, ma la sua turpe demenza, riprende lo squallore delle immagini, ritorna in quello stesso letto, lercio, con un altro personaggio, che però è in tutto e per tutto simile a Molloy, pur non essendo lui, evidentemente ma neppure troppo, e ne crea un secondo, come prima aveva fatto con Moran, questa volta Sabo – come, non un nome che inizia per M? -, Sabo che diverrà Macmann – eccola la M -, personaggi di una storia che racconta Malone nel suo catafalco da moribondo che non si decide a morire, e allora parla, vaneggia, stralunato, come in Molloy, Beckett usa l’irrealtà della storia per scrivere in modo folle, e Malone, quindi, racconta, anche se, forse, dire ‘racconta’ è fuorviante, perché sembra raccontare poi subito si confonde, ritorna la voce fuori campo che descrive Malone, poi ritorna Malone e racconta delle storie, una di queste storie è quella di Sabo che poi sarà Macmann che finirà matto in un ospedale dei matti, con l’infermiera o assistente Moll, non si sa chi sia questa Moll, una vecchia lercia quanto lui, con la quale praticherà lunghe sessioni di sesso, sesso tra due vecchi impotenti, ma non solo sesso, anche amore, ma amore lercio, come loro, come la loro storia, come Malone che la racconta, come Molloy che veniva prima e Moran, come tutto nella trilogia di Beckett. E come in Molloy, la storia del libro si ripiega su se stessa e si fa circolare perché, di nuovo, Malone racconta la storia di Macmann e questa diventa sempre più simile alla storia di Malone raccontata dalla voce fuori campo, stesso letto fetido, stessa follia, stessa morte che è già presente, da tanto tempo lo è, ma lo stesso si fa attendere, stessa delirante irrealtà e inconsistenza della logica e decrepitezza della vita. Macmann diventa Malone il suo narratore, Malone è Macmann il suo personaggio, no, nessuno dei due, ma tutti e due, Beckett, ancora, come in Molloy, fonde le due semistorie e i due personaggi, ma non basta, ora succede anche con i libri, Malone muore si fonde con Molloy, si fondono i due libri, ma non si fondono, sono distinti, Molloy non è Malone che non è Macmann, Moran è Molloy ma non Macmann e non Malone, il quale è Macmann.
Non cercate una logica.
Che disgrazia, la matita dev’essermi caduta di mano, perché l’ho ritrovata soltanto adesso dopo quarantotto ore (vedi sopra in qualche punto) di sforzi intermittenti. Quello che manca al mio bastone è una piccola proboscide prensile come ne hanno i tapiri notturni. In fondo, dovrei perdere la mia matita più spesso, non mi farebbe male, anzi credo che starei meglio, sarei più allegro, la cosa sarebbe più allegra.
Ho passato or ora due giornate indimenticabili, di cui non sapremo mai nulla, perché il regresso nel tempo è troppo grande, o non lo è abbastanza, non so più, se non che mi hanno consentito di risolvere tutto e di finire tutto, voglio dire quello che si riferisce a Malone (infatti mi chiamo così adesso) e all’altro, perché il resto non è di mia competenza. Ed era, si può dire, come lo scorrere di due rivoli di sabbia fine o magari di polvere o di cenere, di volume certo disuguale ma che in un certo senso andassero di concerto, e lasciando dietro di essi, ciascuno al suo posto, quella cara cosa ch’è l’assenza.
Lo stile. Prosegue il ritmo cianotico e delirante di Molloy, un balbettio inframmezzato da grida, un filo logico che si annoda continuamente, si spezza, si bruciacchia e si riannoda. Beckett scrive di putrefazione corporale e spirituale, di anime ammuffite e per farlo scarnifica anche la prosa, la inacidisce e la insozza. Rispetto a Molloy, che è un capolavoro, Malone muore non ha la stessa folle genialità della storia di Molloy e Moran che si spezza e si rifonde; Malone, vecchio laido moribondo, racconta storie squinternate e queste si ripiegano sul narratore, con una narrazione che è meno imbevuta della struttura narrativa circolare e disorientante e ha molto più la forma di una confessione, o di un delirio logorroico che mescola biografia con immaginazione. Per questo più faticoso da leggere di Molloy.
E ora, per forza e per scelta, il terzo e ultimo, L’innominabile, purtroppo fuori commercio e quindi [Libro disperso].