«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
PER QUESTA NOTTE
Juan Carlos Onetti
Traduzione di Enrico Cicogna
Feltrinelli 2004
Pensavate forse che me ne fossi dimenticato di Onetti? Che ne avessi abbandonato la lettura integrale? Che dopo tutta l’adorazione profusa avessi banderuolato dietro al sospiro di altri autori, di altri libri? Non mi conoscete se lo avete pensato, non conoscete la natura dei tarli che perforano la mia mente e la mia passione, quanto a fondo talvolta si incuneano e là rodono e rodono, un rosicchiare costante che rintuzza l’oblio e l’apatia e lo sbanderuolamento.
E quindi eccoci qua di nuovo, questa volta per il rush finale, gli ultimi tre, poi, con un sospiro di nostalgia per una strada che finisce e una memoria che si ripone, di Juan Carlos Onetti non ce ne sono più. Ci sono autori che sembrano infiniti, lo sembrano perché vorremmo che lo fossero, poi un giorno si deve prendere atto che non è così. La realtà della finitezza della realtà. Discorso ampio e malinconico.
Questo Per questa notte è l’ultimo superstite della strage di titoli del catalogo di Feltrinelli, l’ultima ombra di un passato glorioso. È un fossile, come quando talvolta ripescano da qualche fossa oceanica uno di quei pesci che si pensavano estinti da ere geologiche e invece, inspiegabilmente, sono sopravvissuti nascosti nelle profondità abissali. Così è questo titolo, io credo, inspiegabilmente sopravvissuto negli angoli polverosi di un catalogo sarchiato e rivangato dalla modernità e dal mercato. Se volete un consiglio comperatelo fintanto che esiste ancora, anche se di Onetti non ve ne importa un tubo, solo come oggetto di antiquariato.
Dice Onetti nel prologo alla traduzione italiana del 1974:
Non ho mai fatto pubblicare un libro con un prologo, mio o di altri. Non credo a scuse né a stampelle. […]
Ma ora che Feltrinelli ha avuto la dubbiosa bontà di chiedermi qualche parola per farla precedere alla edizione italiana di Para esta noche. E poiché Feltrinelli ha corso il rischio di pubblicare i miei libri, libri di un sudamericano sconosciuto, noblesse oblige e continuo a prolograre. […]
Questo libro fu scritto per la necessità, soddisfatta in modo meschino e non compromettente, di partecipare a dolori, angosce ed eroismi altrui. È, perciò, un cinico tentativo di liberazione.
Il “sudamericano sconosciuto” è uno dei sublimi della letteratura del Novecento e quindi, nonostante l’odierna epoca maleodorante e le sarchiature selvagge dei cataloghi una volta epici ora ludici, ringrazio ancora Feltrinelli e il grande grandissimo Enrico Cicogna che firmò quest’altra stupenda traduzione.
Il libro. Puro stile onettiano pre-saga di Santamaria (La vita breve, Raccattacadaveri, Il cantiere, Per una tomba senza nome, Lasciamo che parli il vento, rigorosamente in quest’ordine, checché ne dica questo o quel commentatore).
Tutto si svolge in una notte. Notte di oscurità pesante, di violenza che serpeggia ed esplode, di soprusi, di oppressione dei potenti sui deboli, di guerre di potere, di incertezza su chi stia con chi, su chi sia il potere, su chi sia l’autorità, lo stato, la polizia, i criminali e i perseguitati. Tutto in una notte umida e sudata dove le linee di demarcazione si scolorano e rimane una città ermetica e spaventosa dalla quale cercare di fuggire, ma senza possibilità di riuscirci, rimangono squarci di umanità che grida prima di essere colpita a morte, rimane la guerra di tutti contro tutti, rimangono anime colpevoli e vittime, microcosmi contraddittori nei quali sopravvivere e sacrificarsi.
Rimane la prosa avvolgente e imprevedibile di Onetti, il suo dipanare una fettuccia di storia che si annoda e si svolge, si attorciglia e si stende, si ritorce e infine cade in un pozzo buio senza fondo. La fettuccia di storia non finisce, finiscono le vite dei personaggi oppure si sospendono, si sfumano nella nebbia, ma la storia non finisce, perché nessuna storia finisce mai.
I personaggi sono militari e donne. Ossorio e Morasan e Barcala, gli uomini, in guerra, chiusi nella gabbia di violenza dalla quale nessuno può sfuggire. Beatriz, Luisa la Caporalessa e Victoria Barcala, la bambina. Donne, vittime, innocenti. Pure.
Sullo sfondo la città alla vigilia delle violenze, forse un colpo di stato militare, una guerra, una invasione che erutta dalle bocche dello stato lontano e opprimente. Onetti scrisse Per questa notte nel 1942 pensando che «in molti luoghi del mondo c’era gente che difendeva col proprio corpo parecchie convinzioni dell’autore. L’idea che soltanto quella gente stava affrontando con serietà delle vicende memorabili era umiliante e triste da sopportare.» Fu presciente di quanto accadde alla sua patria e a lui stesso tre decenni dopo.
Nel libro ritorna la decadenza di un mondo famigliare ed estraneo che segna l’intera opera di Onetti descritta con uno stile funambolico e funereo, con costruzioni che schiudono profumi di vita e olezzo di putrefazione; la sua scrittura meravigliosa mescola continuamente gli opposti, li scioglie e li separa per poi scioglierli nuovamente con lo sguardo che salta da dentro a fuori, dal sentimento alla fredda azione, dall’umano all’inumano, dall’animato all’inanimato, dall’amore all’odio, dalla compassione al disprezzo. Compone, come sempre, una sinfonia di contrasti ed Enrico Cicogna, straordinario, la rende in un italiano che sa di musica e di visioni.
E l’accecante sorriso dell’amore perduto, invisibile sotto sorrisi di donne, aborti, bidet, permanganato, preservativi, mestruazioni e denaro, letti ad ore, ingressi vergognosi, miseria del sudore d’estate, la miseria dei piedi e delle ginocchia fredde d’inverno, conscio che ci sono altre cose da qualche parte che la fortuna a volte dà e a volte rifiuta per tutta la vita, pensando a quella beatitudine ignorata nello stringere seni, nel guardare occhi lacrimosi, nel rispondere distrattamente sempre le stesse frasi idiote di domanda, pensando senza volerlo, non col cervello, ma col centro del corpo, coi bicipiti, col petto, con le ossa, pensando che doveva esistere poiché lui lo immaginava, poiché non poteva trovarlo nella volgare commedia delle femmine, sdraiato nella penombra delle camere da letto, con un braccio dimenticato attorno al collo di una donna, con la mano che sfiora la sua gota, i suoi capelli, il suo braccio, il suo petto, chiudendo gli occhi per fuggire senza meta, per rimanere isolato in un’atmosfera qualunque dove poter accarezzare in pace null’altro che le parole unite in un modo inspiegabile all’amore sconosciuto.
Vertiginoso senso di star precipitando, mollemente, inevitabilmente. Esiste ancora qualcuno oggi che sa scrivere così?